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Peculato e truffa nell'ambito di procedura fallimentare

Peculato

Cassazione penale sez. VI, 05/07/2023, n.34517

Integra il reato di truffa, e non quello di peculato mediante induzione in errore ex artt. 48 e 314 c.p., la condotta dell'extraneus che, nell'ambito della procedura fallimentare, mediante artifizi e raggiri, induca in errore il curatore e il giudice delegato, così procurandosi in sede di ripartizione dell'attivo, per effetto di tale condotta decettiva, l'ingiusto profitto costituito dalla assegnazione di somme non spettanti. (Nella fattispecie l'agente, mediante la dichiarazione di attualità dei crediti oggetto di pregressa domanda di insinuazione al passivo, benché nelle more soddisfatti in via transattiva, e il deposito dei relativi titoli in originale, conseguiva la liquidazione di poste a carico della massa solo simulate).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Milano, a seguito di gravame interposto dagli imputati D.G. e F.G. e dalla parte civile Fallimento (Omissis) s.r.l. avverso la sentenza emessa a seguito di rito abbreviato il 3 settembre 2020 dal Tribunale di Como, in riforma della decisione, previo riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, ha rideterminato la pena inflitta ai predetti imputati riconosciuti colpevoli entrambi dei reati di cui ai capi a (art. 61 c.p., n. 2, art. 110 c.p., R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 232, n. 1) e b (artt. 48,110 e 314 c.p.) ed il F. dei reati di cui ai capi c (art. 61 c.p., n. 2, R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 232, n. 1) e d (artt. 48 e 314 c.p.), pena sospesa per il D., con pene accessorie rideterminate per entrambi gli imputati e conferma delle statuizioni civili in favore della predetta parte civile. 2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati e la parte civile costituita Fallimento (Omissis) s.r.l. a mezzo dei rispettivi difensori. 3. Nell'interesse dell'imputato D. si deduce: 3.1. Con il primo motivo vizio cumulativo della motivazione in relazione alla affermazione di responsabilità con riguardo alla ritenuta consapevolezza del soddisfacimento dei crediti oggetto di insinuazione al passivo mediante la transazione svizzera. Innanzitutto contrasta con le dichiarazioni rese da L.N.I. - secondo le quale lei stessa aveva saputo che P.G. deteneva un immobile in Svizzera - l'affermazione secondo la quale sarebbe stato l'avv. F. ad informare le società creditrici della possibilità di aggredire un cespite attivo del debitore in Svizzera; comunque affermare che essere a conoscenza dell'avvio di una procedura esecutiva in Svizzera da parte dei propri clienti non significa sapere che quella procedura si sia conclusa positivamente e, comunque, che la stessa abbia tacitato anche i crediti per i quali v'era insinuazione al passivo della fallita. Inoltre, non v'e' collegamento tra la segnalazione fatta dall'avv. F. a L.N.- A. (e non al D.) di una prima procedura esecutiva in Svizzera, di molto antecedente a quella che ha portato alla transazione tra le parti e conclusasi negativamente, e quella conclusasi con la transazione. Non sono state valutate le dichiarazioni rilasciate dall'avv. Marco Alberto Guidicelli ex art. 319-bis c.p.p. che esclude di aver avuto successivi contatti con l'avv. F. dopo il primo - avvenuto nel 2010 e ben prima dell'istanza di insinuazione al passivo del 9 marzo 2011 - con il quale questi lo metteva in contatto con i suddetti clienti. Circostanza direttamente o indirettamente confermate dalle dichiarazioni di A.S., L.N.I. e dall'avv. Soldati (legale dei fratelli P.), oltre che dal ricorrente in sede di dichiarazioni spontanee. Del resto, la stessa sentenza ha ritenuto sussistente il credito azionato nella procedura fallimentare al momento della stessa conclamando pertanto implicitamente che il recupero avvenne in Svizzera in epoca successiva senza la benché minima prova documentale o testimoniale che ad esso avesse partecipato l'avv. F. o che persino egli ne fosse a conoscenza. La prova del dolo dell'avv. F., che nel 2017 confermava la richiesta di ammissione al passivo, è illogicamente desunta dalla mancata preventiva consultazione dei suoi clienti, così coinvolgendosi illogicamente la responsabilità concorsuale del ricorrente, vittima inconsapevole di una condotta antigiuridica dell'avv. F.. La delega per l'incasso rilasciata dal ricorrente all'avv. F. era quindi del tutto in buona fede, tenuto anche conto che le ben più rilevanti somme di cui alla transazione elvetica del luglio 2013 sono state accreditate sul conto dell'avv. Guidicelli e non già consegnate al ricorrente. 2.2. Con il secondo motivo vizio cumulativo della motivazione in relazione alla valutazione del giudicato cautelare basato su un fatto diverso - rappresentato dall'utilizzo dei medesimi assegni utilizzati nel procedimento elvetico - rispetto a quello contestato - consistito nell'aver taciuto agli organi della procedura il soddisfacimento dei propri crediti mediante la transazione elvetica. Errata a riguardo è l'affermazione da parte della Corte non di ampliamento della prospettazione accusatoria ma di diversa prospettazione accusatoria, trattandosi di condotte obiettivamente diverse. In ogni caso, non si comprende come il ricorrente - che non è stato interpellato dalla curatrice fallimentare - abbia potuto tenere una condotta fraudolenta/dolosa per il semplice fatto di aver taciuto all'avvocato - con il quale non aveva avuto rapporti non essendo informato del corso della procedura fallimentare - il parziale recupero del credito da lui medesimo ritenuto irrilevante anche perché effettuato da un soggetto estraneo alla società fallita direttamente all'avv. Guidicelli che si rapportava solo con l' A., senza che vi sia in atti alcuna prova della ricevuta da parte del ricorrente, stante l'opposizione del segreto professionale da parte dell'avv. Cosicché della attività dell'avvocato F. di risposta alla curatrice fallimentare con lettera del 30.11.2016 e di ritiro in Prefettura degli assegni in originale in alcun modo può risponderne anche il ricorrente. 2.3. Con il terzo motivo vizio cumulativo della motivazione in relazione al ritenuto contributo causale del ricorrente ed alla sua consapevolezza circa l'integrale soddisfacimento dei crediti vantati da Iniziative Immobiliari 2005 S.r.l, all'esito della completa ignoranza di una serie di prove. Dagli atti del processo risulta smentito l'assunto secondo il quale l'unico credito certo, liquido ed esigibile della Iniziative Immobiliari 2005 s.r.l. nei confronti della (Omissis) s.r.l. fosse quello insinuato al fallimento corrispondente a quello che aveva originato la procedura esecutiva in Svizzera (vds. doc. 8, 9, 10 e 11 allegati al ricorso relativi ad un credito di 400mi1a Euro nei confronti di P.G.), cosicché il ricorrente, parte della transazione, era consapevole della sussistenza di ulteriori crediti rispetto a quelli soddisfatti mediante la transazione. Quindi anche l'assunto della sentenza in ordine alla decisione emessa dalla Corte di appello di Milano riguardante il procedimento per truffa a carico dei fratelli P. - che fa leva sulla revoca della assegnazione delle provvisionali per affermare il probabile intervenuto pagamento - si basa sulla analoga errata inferenza della inesistenza di altri crediti vantati da Iniziative Immobiliari 2005 s.r.l. nei confronti di (Omissis) s.r.l. e dei fratelli P., senza che questi abbiano dedotto la transazione nella predetta sede. Quanto alla consapevolezza da parte del ricorrente dell'estinzione del proprio credito a seguito delta transazione svizzera essa è illogicamente desunta dal rilascio della procura speciale all'avv. F. per incassare gli assegni del fallimento a lui destinati, successiva all'istanza di insinuazione al passivo; dal già indicato travisamento della citata sentenza della Corte di appello di Milano; dalla informazione data dal ricorrente all'avv. F. del recupero di una parte del credito vantato nei confronti dei fratelli P., che evidentemente presuppone ulteriori crediti non recuperati e che, peraltro, è avvenuta successivamente alla consumazione dei reati contestati. Inoltre, non è stata considerata - a discarico del ricorrente - l'ammissione dell'avv. F. di aver operato motu proprio e senza conoscere la transazione elvetica, valutabile - ai sensi dell'art. 192 c.p.p., comma 3, in uno ai riscontri forniti dalle dichiarazioni di L.N.I. A.S. e dalla stessa richiesta di archiviazione proposta dal Pubblico Ministero nei confronti dei predetti. Ancora, non sono state considerate le dichiarazioni dell'avv. Mossino rilevanti ai fini della sussistenza di altri crediti rispetto a quelli oggetto della procedura né lo stesso atto di transazione svizzero dal quale emerge che quanto dovuto era riferibile a "vari procedimenti giudiziari civili e penali" senza alcun riferimento al credito ammesso in sede fallimentare, ma nell'ambito del quale rientrava quello relativo alla scrittura di riconoscimento del debito per 400.000 Euro in favore di Iniziative Immobiliari 2005 s.r.l. sottoscritto da P.G. in data 11.6.2008. Illogicamente è stato valutato il decreto di archiviazione nei confronti della L.N. e dell' A. desumendo la ritenuta diversità di posizione da un fatto successivo - il mancato rilascio da parte dei predetti del mandato ad incassare - all'invio della missiva da parte dell'avv. F. e dalla presentazione della domanda di insinuazione al passivo. Cosicché erroneamente è stato desunto il concorso del ricorrente nel reato da elementi successivi alla presentazione della domanda di ammissione al passivo. 3. Nell'interesse di F.G. si deduce: 3.1. Con il primo motivo vizio cumulativo della motivazione in ordine alla ritenuta consapevolezza da parte del ricorrente dell'avvenuto soddisfacimento dei crediti oggetto di insinuazione al passivo. Tale assunto deriva dalla omessa considerazione di elementi di prova e dalla illogicità degli assunti. Innanzitutto, illogico è l'assunto che fonda la sussistenza del dolo sulla violazione di un presunto obbligo deontologico - quello di informare i propri assistiti sull'andamento della procedura fallimentare - che in quanto tale rileverebbe tutt'al più a livello di colpa. Ancora, non assumono rilievo ai fini dell'art. 192 c.p.p., comma 2, sia la circostanza che il ricorrente abbia insistito per ottenere il pagamento a proprio nome in assenza del mandato specifico sia che abbia tentato di farsi rilasciare il mandato specifico dai suoi clienti che veniva consegnato solamente dal coimputato D. che, invece, si pongono in termini di contraddizione logica acquisendo la prima circostanza indizio della consapevolezza dell'avvenuta transazione solo supponendo che il ricorrente intendesse frodare i propri clienti, tenendoli all'oscuro che la procedura avrebbe liquidato le somme e trattenendo per sé i relativi importi. Insufficiente è poi la motivazione posta a base del rilievo dato alle dichiarazioni dell'Avv. Marcello Paleari, legale dei fratelli P., circa la proposta di transazione fattagli dall'avv. F. richiamata solo alla fine delle sue dichiarazioni e non nell'ambito della articolata ricostruzione dei tentativi di definizione del rapporto di debito e credito. Ma quel che più conta è l'omessa menzione della prova orale fornita dall'avv. Mossino secondo il quale l'avv. F. aveva escluso, nel corso dell'incontro con l'avv. Paleari, l'ipotesi che i suoi clienti girassero anche solo in parte somme corrisposte dalla procedura fallimentare, affermando di non essere al corrente delle modalità dell'iniziativa giudiziaria condotta in Svizzera dall'avv. Guidicelli e del risultato ottenuto. Inoltre, l'incontro è stato collocato dal dichiarante alla fine del mese di maggio 2017, quindi in epoca successiva al momento di produzione della Curatrice degli assegni in originale, per cui l'episodio di pone come logicamente irrilevante ai fini della dimostrazione dell'esistenza del presunto dolo al momento della condotta contestata (che è precedente e si colloca nel marzo 2017). Illogico - a parte il travisamento - è poi l'argomento che si poggia sulla informazione data dall'avv. F. alle società creditrici del cespite attivo del debitore in Svizzera in quanto tale circostanza non significa la conoscenza dello sviluppo e conclusione delta procedura e lo stesso suo contenuto a riguardo dei crediti soddisfatti. Ne' l'argomento considera le stesse dichiarazioni dell'avv. Guidicelli sul limitato contatto con l'avv. F. come pure le dichiarazioni dell'avv. Soldati circa lo svolgimento della trattativa con il solo avv. Guidicelli in rappresentanza delle due società creditrici Iniziative Immobiliari 2005 s.r.l. e L.N./(Omissis). Illogicamente è stata ritenuta la mancanza di altri crediti certi liquidi ed esigibili delle due predette società nei confronti della fallita rispetto alla produzione documentale relativa al credito di 400mi1a Euro nei confronti della predetta società fallita e del suo amministratore P.G. riconosciuto con scrittura privata del 11.6.2008 alla quale faceva seguito l'istanza di ammissione al passivo in data 22.6.2012, rigettata per tardività. L'esistenza di altri crediti era poi comprovata dalle dichiarazioni dell'avv. Mossino e dalle allegazioni dell'avv. F.. Illogico è poi l'argomento utilizzato dalla sentenza che fa leva sulla sentenza emessa nei confronti dei fratelli P. per ritenere l'avvenuto pagamento dei crediti a seguito della transazione svizzera, avendo quella decisione revocato solo la provvisionale, ormai ultronea, e senza che della transazione si faccia cenno. Infine, illogica è l'affermazione secondo la quale l'avv. F. era stato ripetutamente avvisato dalla L.N. della estinzione del credito in quanto l'unico elemento a riguardo - una pec del 4/10/2017 riguardava la formalizzazione di una scelta di rinuncia al credito maturata nel precedente colloquio con lo stesso avvocato F.. 3.2. Con il secondo motivo violazione all'art. 232 L. Fall. avendo la sentenza considerato integrante il reato una condotta successiva alla presentazione della domanda di ammissione al passivo, tra l'altro consistente in un contegno omissivo, individuandosi il momento consumativo in quello del deposito degli assegni originali nel 2017 e non quello - corretto - della proposizione delle due domande di insinuazione al passivo depositate nel marzo 2011 con la necessaria documentazione, parte in originale parte in copia conforme all'originale, come risulta dai decreti di ammissione del 18/4/2011, riservandosi solo sulla effettiva distribuzione della somma. Ebbene, a quel momento il credito era sicuramente effettivo in quanto la procedura elvetica si concludeva - secondo la stessa sentenza - nel 2013-2014, così difettando la fraudolenza ed il reato contestato. Del resto dalla stessa previsione della attenuante speciale di cui all'art. 232, comma 2, L. Fall. - che valorizza il ritiro della domanda prima della verificazione dello stato passivo - risulta che la domanda rilevante ai sensi della stessa fattispecie incriminatrice deve intervenire prima della verificazione dello stato passivo, altrimenti non potendo operare l'attenuante. E risulta che al momento del deposito degli assegni da parte del ricorrente lo stato passivo era stato già da tempo verificato, così dovendosi escludere la configurabilità del delitto. Peraltro, erroneamente la fraudolenza della condotta è stata ascritta all'aver taciuto l'estinzione del credito - necessitando invece la produzione di prove ingannevoli - e sulla base di una non spiegata equivocità della affermazione fatta dal ricorrente di non aver nulla riscosso dalla società fallita, essendo del tutto neutra l'attività di presentazione degli assegni. 3.3. Con il terzo motivo violazione di legge penale e vizio di omessa motivazione in relazione al quarto motivo di appello con il quale si deduceva l'inconfigurabilità del peculato per induzione, non avendo il curatore, quale destinatario dei presunti atti fraudolenti, il possesso o la disponibilità del denaro della fallita ed avendo erroneamente affermato la sussistenza del reato in assenza di detta disponibilità, necessitando per il pagamento l'autorizzazione del giudice del fallimento. Così potendosi ravvisare in capo al ricorrente, qualora avesse attuato una condotta di frode consapevole, il diverso reato di truffa, secondo i principi espressi da Sez. 6, 4/11/2009, dep. 2010, n. 5447 e secondo quelli espressi nella analoga materia riguardante il tema dei rimborsi delle spese sostenute da consiglieri regionali (Sez. 6, 2/3/2021, n. 40595). Non può ritenersi pertinente il richiamo operato dalla sentenza al precedente espresso da Sez. 6, 1/02/2018, n. 10762 che riguarda una fattispecie non assimilabile a quella oggetto del presente procedimento nell'ambito del quale il Curatore, come detto, non ha la disponibilità dei beni. Così riqualificati, i reati sono improcedibili per mancanza di querela. 3.4. Con il quarto motivo, in via subordinata, si deduce violazione degli artt. 232 Legge Fall., artt. 15,48 e 314 c.p. nella parte in cui la sentenza ha riconosciuto un concorso formale tra le due norme e non un concorso apparente. Si deduce inoltre, violazione dell'art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU e 117 Cost. e art. 27 Cost., comma 1, non essendo stata rilevata in sentenza la sussistenza di un bis in idem, trattandosi nelle due accuse - rispettivamente ai capi a e b e c e d - di un unico identico fatto materiale, secondo la nota sentenza Zolotoukhine contro Russia, dovendosi prescindere dalla loro eventuale diversa qualificazione giuridica. 4. Nell'interesse della parte civile Fallimento (Omissis) s.r.l. si deduce con unico motivo vizio cumulativo della motivazione in ordine alla liquidazione del danno patrimoniale, inferiore al dovuto essendosi obliterata la condizione cui la richiesta di condanna del maggior danno è stata vincolata, ovvero l'esito negativo per il Fallimento del giudizio di revocazione della ammissione al passivo del credito della Iniziative Immobiliari 2005 s.r.l. dal quale deriverebbe il maggior pregiudizio patrimoniale per il Fallimento, essendo ammessa la pronuncia di condanna condizionata ad un evento futuro ed incerto (qual e', allo stato, l'esito del giudizio di cassazione civile). CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi degli imputati, avendo ad oggetto questioni in gran parte sovrapponibili, possono essere congiuntamente trattati. 2. Il primo motivo di entrambi i ricorsi attinge la medesima questione riguardante la ritenuta consapevolezza da parte degli imputati del soddisfacimento dei crediti oggetto di insinuazione al passivo mediante la transazione svizzera; il terzo motivo del ricorso di D. riguarda anche il suo apporto causale ai fatti. La sovrapponibilità dei primi motivi e l'inferenza del terzo motivo sulla ricostruzione della intera vicenda consentono la trattazione unitaria delle censure mosse. 2.1. I motivi sono inammissibili perché proposti per ragioni di non consentita rivalutazione probatoria, quando non manifestamente infondati. 2.2. Secondo il doppio conforme accertamento di merito - esente da vizi logici e giuridici i crediti portati dagli assegni ed insinuati al passivo del fallimento (Omissis) s.r.l. dall'avv. F.G. nell'interesse delle società Iniziative Immobiliari 2005 s.r.l. di D.G. e (Omissis) di L.N.I. sono quelli che diedero luogo alla transazione stipulata in Svizzera tra il 2013 ed il 2014 tra le due stesse società creditrici e P.G. con la quale i crediti furono estinti. Secondo l'accertamento di merito le due predette società - difese in sede civile dallo stesso avv. F. - avevano maturato, in epoca antecedente al 2011, un credito nei confronti della (Omissis) s.r.l. di P.G. che era stato "pagato" da questi mediante l'emissione di due assegni (del rispettivo importo di Euro 500mila e 150mila), quanto alla Iniziative Immobiliari 2005 s.r.l., e con un assegno di 120mila Euro quanto alla (Omissis). L'esito negativo dell'incasso di detti assegni aveva dato luogo, su iniziativa dell'avv. F. che aveva messo le due società da lui assistite in contatto con l'avvocato svizzero Guidicellì, vicenda svizzera essendosi individuato un cespite attivo in capo a P.G.. Questi aveva, quindi, subito una procedura esecutiva in Ticino (CH) ad iniziativa delle due predette società creditrici a seguito della quale aveva avuto pignorato un proprio credito nei confronti di (Omissis) ed aveva preferito evitare che questa proseguisse cedendo il credito per dare soddisfazione alle due predette società creditrici nei suoi confronti: come annota la prima sentenza, in atti risulta il pignoramento svizzero e l'annullamento dello stesso a seguito della cessione pro soluto del credito di P. verso la (Omissis) a favore di Iniziative Immobiliari srl e (Omissis): il provvedimento della Autorità Giudiziaria Svizzera del 10 aprile 2014 recita "avendo il debitore sequestratario saldato il proprio debito"; agli atti è presente anche la documentazione relativa ai bonifici fatti per estinguere l'obbligazione (v. pg. 4 della prima sentenza). 2.3. Ritiene questa Corte che, rispetto a questa ricostruzione dei fatti, generica è la censura dei ricorrenti che fa leva sulla esistenza di altri crediti vantati dalla Iniziative Immobiliari 2005 s.r.l. nei confronti dei P. che - secondo la tesi difensiva - avrebbe sorretto la buona fede degli imputati ricorrenti. A parte la non illogica considerazione della inesistenza di altre ammissioni al passivo, la deduzione non si confronta con la circostanza che i crediti insinuati ai passivo erano proprio quelli che determinarono la procedura esecutiva in Svizzera sfociata nella transazione. Alla domanda di insinuazione - dopo il deposito dei titoli in originale e la attestazione di attualità del crediti da essi incorporati da parte del F. - seguì l'emissione gin data 13 giugno 2017 da parte del Fallimento di cinque assegni circolari in favore dei creditori istanti di importo pari al 45% dei crediti, come approvato in sede di riparto dell'attivo fallimentare. 2.4. Quanto alla censura in ordine alla ritenuta consapevolezza da parte del F. circa il contenuto della transazione svizzera si svolge secondo una inammissibile rivalutazione in fatto del portato probatorio, che il giudice di merito ha valutato senza incorrere in vizi logici e giuridici. A tal riguardo il giudice di merito ha correttamente valorizzato la iniziativa del ricorrente che assisteva in sede civile le due società creditrici che, venuto a conoscenza del cespite attivo del P. in Svizzera e non essendo abilitato ad esercitare la propria professione in territorio elvetico, mise in contatto le proprie assistite con l'avvocato elvetico Guidicelli - come da questi confermato - che concluse la transazione nel 2013-2014 nei termini anzidetti. Cosicché incensurabile è la motivazione resa dal giudice di appello che, facendo leva su tate qualificata partecipazione del F. alla fase genetica della vicenda svizzera - che la difesa del ricorrente invece propone inammissibilmente di declassare ad un occasionale intervento privo di significato e seguito - inferisce il consapevole mendacio dello stesso F., che aveva insinuato al passivo del fallimento (Omissis) s.r.l. i predetti crediti nel 2011, allorquando egli nel 2017 - compulsato dalla curatela fallimentare che gli aveva richiesto l'allegazione in originale degli assegni che quei crediti portavano e di attestarne la attualità, anche a seguito della segnalazione fatta dal P. a riguardo della indebita duplicazione dei pagamenti - aveva persistito nella istanza attestando la attualità dei crediti oggetto di insinuazione al passivo secondo una formula correttamente tacciata. E il primo giudice coglie perspicacemente il senso elusivo della attestazione del legale quando questi afferma, nella sua risposta al Curatore, che le società creditrici mai nulla avevano riscosso dalla società fallita né prima né dopo il fallimento (ovviamente), né tantomeno in Svizzera", sottolineandosi il riferimento alla società fallita, avendo il P. - nella transazione svizzera - ceduto un suo credito personale. Correttamente, poi, a dimostrazione della consapevolezza del F. della intera vicenda, è valorizzato il rifiuto della L.N. e dell' A. di rilasciare ai F. il mandato per consentirgli di incassare gli assegni emessi dal fallimento, mettendolo in guardia circa l'avvenuta estinzione dei crediti, fino a dover interloquire con altro proprio difensore per prendere le distanze dalla illecita operazione, dopo che il Curatore del fallimento aveva più volte ribadito che il semplice mandato difensivo non consentiva un pagamento in favore del legale delle parti (v. pg. 15 della sentenza impugnata in relazione a pag. 7 della prima sentenza; nonché pg. 33 della sentenza impugnata in relazione alla posizione del D.). L'assunto del giudice di merito è efficacemente documentato dalle convergenti dichiarazioni della L.N. e dell' A. - compagno della prima con il quale questa aveva gestito l'attività immobiliare della (Omissis) completamente riportate dalla prima sentenza (v. pg. 8 e ss.) che danno conto della consapevolezza dei due sulla conclusione della transazione svizzera, della successiva notizia data dal F. circa la disponibilità da parte del fallimento - presso il quale era stato insinuato il loro credito - di pagare il 45% di esso e del loro rifiuto di ricevere tale pagamento segnatamente negando il mandato richiesto dall'avv. F. per riscuoterlo - di cui ritenevano di avere più diritto per la soddisfazione del credito conseguita con la transazione svizzera, così restituendo in banca gli assegni emessi dal Fallimento in favore della (Omissis) (v. pg. 18 della sentenza impugnata). La consapevolezza della coincidenza tra i crediti soddisfatti in via transattiva e quelli insinuati al fallimento e il tentativo del F. di perseguire l'illecito disegno è correttamente desunta sia dalle dichiarazioni dal legale della società (Omissis), avv. Soldati (v. nota del 9 giugno 2017 al P. riportata a pg. 6 della sentenza impugnata che ha documenta la genesi della transazione nelle procedure esecutive promosse in Svizzera dalle due società, oltre che da un terzo creditore), che dai legali che avevano assistito i fratelli P., segnatamente dall'avv. Marcello Paleari (v. dichiarazioni riportate pg. 13 e sgg. della prima sentenza in relazione a quanto detto dalla sentenza impugnata a pg. 16): questi riferiva i contatti e l'incontro con il F. nel corso del 2017 a seguito della segnalazione da parte dei P. che tra le somme contenute nell'approvato piano di riparto vi erano anche quelle già pagate nel corso del fallimento a seguito di azione di recupero nei confronti degli stessi P. personalmente - a riprova della sua consapevolezza dell'avvenuta estinzione del debito - e riferisce della proposta fattagli dal F., tra il giugno ed il luglio del 2017 ancorché egli non fosse più difensore dei P., di una transazione che prevedesse la restituzione ai fratelli P. di parte degli importi incassati dal fallimento da (Omissis) e Iniziative Immobiliari 2005 s.r.l., rifiutata dai P.. Analogo riscontro proviene dalle dichiarazioni dell'avv. Alessandra Bonato (v. pg. 14 della prima sentenza), succeduta all'avv. Paleari nella difesa dei P., che attesta la corrispondenza tra i titoli posti a sostegno della insinuazione al passivo e quelli che avevano dato luogo alla procedura esecutiva in Svizzera nonché l'interlocuzione avuta nel giugno 2017 con l'avv. F. che aveva contestato la fondatezza dell'assunto dei P. reagendo in modo scomposto. Infine, a sostegno della ricostruzione a base dell'accusa sono correttamente considerate le dichiarazioni rese nel corso del processo di primo grado dallo stesso D. di aver informato nel 2014 l'avv. F. del recupero di parte del suo credito nei confronti dei fratelli P. (v. pg. 31 della sentenza impugnata con riferimento a pg. 31 della prima sentenza). Non vale a disarticolare l'incensurabile valutazione in fatto la censura al richiamo alla violazione dei doveri professionali del ricorrente volta - da un lato - a rilevare l'incompatibilità dell'eventuale profilo colposo con quello doloso sotteso alle condotte in contestazione e dall'altro, più radicalmente - ad avallare la pretesa legittima sua ignoranza della pregressa conclusione della transazione svizzera. Si tratta di una censura generica rispetto alla predetta ricostruzione fattuale che ha giustificato del tutto correttamente la consapevolezza da parte del ricorrente della pregressa transazione, designando il richiamo agli oneri deontologici la appropriata considerazione della specifica qualificazione professionale del F. per anni costantemente al fianco delle società creditrici e dei loro titolari, proprio in relazione ai rapporti di credito-debito con i fratelli P. in sede civile e in sede penale. Come pure non inficia la motivazione la fallacia dell'assunto in ordine alla ulteriore prova a sostegno della consapevolezza della estinzione del debito, desunta dalla sentenza di appello n. 6921 del 13 ottobre 2015 circa la integrale estinzione del danno dovendosi convenire sulla sua apoditticità, rinvenendosi in essa la revoca della concessione delle provvisionali in favore delle parti civili ritenuta erronea rispetto alla intervenuta condanna specifica al risarcimento del danno (v. pg. 8 della sentenza del 13 ottobre 2015). Quanto detto a proposito della consapevolezza da parte del F. della estinzione dei crediti insinuati al fallimento, a maggior ragione vale per il D. protagonista, attraverso il difensore avv. Guidicelli che lo assisteva, della transazione svizzera la cui decisiva valenza non può essere certamente inficiata dalla generica deduzione secondo la quale gli importi della transazione sono stati versati sul conto del predetto difensore. E' poi inattaccabile dal punto di vista logico - a riprova della sua adesione alla operazione illecita materialmente curata dal suo difensore - la considerazione che fa leva sull'essere stato autore del mandato conferito all'avv. F. per l'incasso degli assegni del fallimento, risultando generica la deduzione dell'irrilevanza di questa condotta rispetto al reato già consumato. 3. Le censure mosse con il secondo motivo di entrambi i ricorsi del D. e del F., riguardante la considerazione della sentenza di legittimità emanata nell'incidente cautelare riguardante il sequestro degli assegni emessi dal fallimento, la configurabilità del reato di cui all'art. 232 L. Fall. e la sua consumazione, possono essere unitariamente considerate. Si tratta di censure manifestamente infondate. Correttamente la sentenza impugnata ha rigettato le doglianze difensive in appello volte ad escludere rilievo alla decisione resa - nell'ambito della procedura incidentale relativa al sequestro 10 degli assegni circolari emessi dalla curatela fallimentare in favore delle società Iniziative Immobiliari 2005 s.r.l. e (Omissis) - da Sez. 5, n. 27165 del 27/03/2018, F.. Invero, la decisione impugnata ha correttamente rilevato che - in ragione del rito adottato - sullo stesso sostrato fattuale alla base della decisione resa in sede incidentale non incideva la successiva formulazione dell'accusa in sede di rinvio a giudizio, avendosi riguardo aì medesimi assegni (v. pg. 11 della sentenza impugnata). Del tutto pertinente alla vicenda in esame rimane, quindi, il principio di diritto affermato in sede di legittimità, designando - anche per questo verso - la manifesta infondatezza degli assunti difensivi. Secondo la richiamata decisione di legittimità ai fini della consumazione del delitto di cui all'art. 232, comma 1, L. Fall., è necessaria la presentazione di una domanda di ammissione al passivo fallimentare che abbia i requisiti di ammissibilità previsti dall'art. 93, L. Fall. e che sia altresì corredata dalla documentazione giustificativa del credito vantato, idonea a perfezionare l'inganno, mentre rimane penalmente irrilevante la mera presentazione di una domanda di insinuazione contenente una semplice "dichiarazione", sprovvista di qualsivoglia documentazione del credito preteso. Ha condivisibilmente spiegato questa decisione che "Il delitto di cui all'art. 232, comma 1, L. Fall., punisce "chiunque, fuori dei casi di concorso in bancarotta, anche per interposta persona, presenta domanda di ammissione al passivo del fallimento per un credito fraudolentemente simulato". Come osservato in dottrina, la ratio dell'incriminazione è quella di tutelare l'interesse della massa dei creditori "a che i crediti insinuati siano veridici e reali, evitando che dalla proposizione di crediti simulati venga ad essere diminuita o annullata la possibilità di soddisfacimento dei crediti effettivi". Proprio l'utilizzazione della clausola di esclusione "fuori dei casi di concorso in bancarotta", rende evidente che la fattispecie di cui all'art. 232, comma 1, L. Fall., risponde all'esigenza di apprestare un'efficace tutela penale contro le condotte fraudolente poste in essere da soggetti diversi dall'imprenditore fallito ovvero da chi rivesta una delle qualità indicate nell'art. 223, comma 1, L. Fall., in pregiudizio della par condicio creditorum. Per l'integrazione di tale fattispecie di reato e', dunque, necessario presentare una domanda di ammissione al passivo fallimentare per un credito "fraudolentemente simulato". Si tratta, pertanto, di stabilire, innanzitutto, che cosa si debba intendere per "credito simulato". Al riguardo, tenuto altresì conto della ratio della disposizione in esame, deve ritenersi simulato ogni preteso diritto di credito, oggetto della domanda di ammissione al passivo da parte del soggetto attivo del reato, non corrispondente alla realtà giuridica da esso formalmente rappresentata e, quindi, in quanto tale, idoneo ad incidere negativamente sul regolare soddisfacimento delle ragioni del ceto creditorio in sede di riconoscimento dei rispettivi diritti di credito e di ripartizione dell'attivo fallimentare. Rientrano, pertanto, in tale categoria, non solo tutti i casi di c.d. "simulazione assoluta", in cui manchi del tutto il diritto di credito, ma anche i casi di c.d. "simulazione relativa", in cui la falsa rappresentazione della realtà giuridica rappresentata dal diritto di credito vantato è solo parziale, ma decisiva per creare le condizioni (apparenti) per consentirne l'ammissione al passivo fallimentare. Come esemplificato in dottrina, sono questi i casi: 1) del credito effettivamente esistente, ma di cui non è titolare il soggetto attivo del reato, che, nel presentare la domanda di ammissione, si sostituisce al creditore effettivo, il quale ha, invece, rinunciato ad insinuare il proprio credito, senza cederlo; 2) della domanda di ammissione al passivo di un credito ordinario, che viene fatto apparire falsamente come privilegiato; 3) del credito che viene insinuato per un'entità quantitativamente superiore a quella effettiva; 4) della domanda di ammissione al passivo di un credito estinto, che venga presentato come ancora esigibile (in tal senso, altresì, Sez. 5, n. 7620 del 24/10/2016, dep. 2017, Zoppo, non massimata). Non basta, tuttavia, che il credito sia simulato, occorrendo, come si è evidenziato, che si tratti di un credito "fraudolentemente simulato". Occorre, in altri termini, per integrare l'elemento oggettivo del delitto in esame, un quid pluris rispetto alla semplice simulazione, che si traduce ontologicamente nella presentazione di una domanda di ammissione ideologicamente falsa nella misura in cui si fonda su di una pretesa creditoria non corrispondente alla realtà, vale a dire una condotta (come, ad esempio, la produzione di documentazione relativa al diritto di credito), che sia idonea a perfezionare l'inganno". Cosicché del tutto correttamente è stato individuato dalla sentenza impugnata quale momento consumativo di reati di cui ai capi a e c la produzione nel 2017 da parte dell'avv. F. dei titoli di credito in originale in uno alla mendace dichiarazione di attualità dei crediti in essi rappresentati, non rilevando l'interpretazione dei decreti di ammissione dei crediti a riguardo della riserva ivi espressa rispetto al canone legale che presiede alla ammissione del credito e, in ogni caso, tenuto conto della concludente richiesta da parte della curatela di produzione degli assegni in originale per procedere alla relativa liquidazione. 4. Il terzo motivo del ricorso nell'interesse di F.G. attiene alla qualificazione delle condotte sub b e d. Il motivo, in quanto fondato, si estende alla posizione del coimputato. 4.1. La sentenza impugnata ha condiviso la prospettazione accusatoria sula base dell'orientamento di legittimità secondo il quale la responsabilità dell'autore mediato ex art. 48 c.p. si configura anche in relazione ai reati cosiddetti propri in cui la qualifica del soggetto attivo è presupposto o elemento costitutivo della fattispecie criminosa. Pertanto, risponde di peculato anche l'estraneo che, traendo in inganno il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, si appropri per tramite di questi di una cosa dagli stessi posseduta per ragioni del loro ufficio (Sez. 6, n. 4411 del 01/03/1996, Menia Bagatin, Rv. 204775) ed affermando, nel caso di specie, la realizzazione degli elementi necessari alla fattispecie in ragione della indiscutibile qualifica di pubblico ufficiale del giudice delegato e del curatore fallimentare, così come della loro disponibilità del bene oggetto di appropriazione. Secondo la sentenza, l'appropriazione è stata resa possibile dall'autorizzazione del Giudice delegato e del Curatore fallimentare a causa dell'induzione in errore operata dall'imputato, ovverossia con il mantenimento della domanda di ammissione al passivo e deposito degli assegni in originale, non residuando spazi di colpa in capo ai pubblici ufficiali, i quali hanno agito secondo l'ordinaria diligenza. Invero - secondo la sentenza impugnata - è corrispondente alli id quod plerumque accidit la condotta del curatore fallimentare e del giudice delegato che autorizzano il pagamento dinanzi a titoli di credito originario, richiamando l'orientamento secondo il quale risponde di peculato mediante induzione in errore, ex artt. 48-314 c.p., e non di truffa aggravata, il pubblico ufficiale, preposto all'organo competente all'istruttoria della pratica ed alla predisposizione del provvedimento finale, che, inducendo in errore il consiglio di amministrazione di un ente sulla legittimità della delibera di spesa, ne ottiene l'approvazione con conseguente erogazione a taluni dipendenti di compensi di importo superiore a quello dovuto (Sez. 6, n. 10762 del 01/02/2018, Gambino, Rv. 272761). 4.2. Questo Collegio non condivide la qualificazione dell'accusa di cui ai capi b e d nell'ambito della fattispecie di cui agli artt. 48-314 c.p. in quanto non può ascriversi al pubblico ufficiale ingannato dalla condotta decettiva dell'extraneus il fatto tipico dell'appropriazione di cui all'art. 314 c.p., essendo l'extraneus autore diretto di una condotta truffaldina ai danni, nella specie, del fallimento in relazione al cui patrimonio i pubblici ufficiali (curatore e giudice delegato) - indotti in errore - compiono, secondo la prevista procedura, l'atto di disposizione patrimoniale in favore dell'agente consistente nella liquidazione dei crediti relativamente simulati insinuati al fallimento. 4.3. Deve essere sgomberato il campo dalla dedotta indisponibilità da parte del curatore fallimentare dei beni del fallimento medesimo - posta a base del ricorso del F. - dovendosi invece affermare in capo al predetto il possesso giuridico di tali beni. E' conclusione che consegue a quanto affermato da Sez. U n. 45936 del 26 settembre 2019, Mantova Petroli secondo la quale sussiste la legittimazione del curatore del fallimento alla impugnazione dei provvedimenti dispositivi o confermativi del sequestro riconoscendogli la disponibilità autonoma e giuridicamente tutelata del bene. A tal proposito le S.U. hanno argomentato che "una disponibilità rispondente a queste caratteristiche è senza dubbio esistente in capo al curatore rispetto ai beni del fallimento. Come disposto dall'art. 42, comma 1, L. Fall., "la sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento". La disponibilità di tali beni, da quel momento, si trasferisce dal fallito agli organi della procedura fallimentare. Di essi, il curatore è incaricato dell'amministrazione della massa attiva nella prospettiva della conservazione della stessa ai fini della tutela dell'interesse dei creditori, come indiscutibilmente affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 17749 del 17/12/2018, dep. 2019, Casa di cura Trusso s.p.a., Rv. 275453; Sez. 5, n. 48804 del 09/10/2013, Fallimento Infrastrutture e Servizi, Rv. 257553); ed in questa veste, l'art. 43 L. Fall. gli attribuisce la rappresentanza in giudizio dei rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento (Sez. 2 civ., n. 11737 del 15/05/2013, Rv. 626734). La giurisprudenza civilistica qualifica esplicitamente il curatore come detentore dei beni del fallimento (Sez. 2 civ., n. 16853 del 11/08/2005, Rv. 585055). E si tratta senz'altro di una detenzione qualificata, anche per il carattere pubblicistico della funzione per la quale la stessa è attribuita. La stessa sentenza Uniland ammette la natura pubblica della figura del curatore nella gestione dei beni del fallimento; e su questo aspetto è concorde con quanto già affermato nella sentenza Focarelli, peraltro richiamando consolidati principi civilistici (Sez. 1 civ., n. 2570 del 06/03/1995, Rv. 490929), in ordine alla qualificazione del curatore come organo che esercita una pubblica funzione nell'ambito dell'amministrazione della giustizia. La disponibilità dei beni del fallimento, di cui il curatore è titolare, è dunque riconosciuta dall'ordinamento e oggetto di una posizione giuridicamente autonoma nell'esercizio dei poteri di amministrazione e di rappresentanza in giudizio che al curatore sono per quanto detto conferiti. Ed è sulla base di queste considerazioni che la giurisprudenza di legittimità, del resto, ha espressamente ricondotto la posizione del curatore a quella della persona avente diritto alla restituzione dei beni sequestrati, ai fini della previsione di cui all'art. 322-bis c.p.p. (Sez. 2, n. 24160 del 16/05/2003, Sajeva, Rv. 227479)". 4.4. Quanto al tema della qualificazione giuridica condivisa dalla sentenza impugnata, il Collegio è consapevole del diversificato approccio ermeneutico a riguardo. Di questo risulta una ampia disamina in Sez. 6, Gambino che ha anche rilevato il contrasto in sede di legittimità e in dottrina in ordine alla applicabilità della fattispecie induttiva ex art. 48 c.p. al reato di peculato osservando che "in linea generale, secondo la giurisprudenza di legittimità, l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 9, va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (così, tra le tante, Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, Campanile, Rv. 260154, nonché Sez. 6, n. 39010 del:10/04/2013, Baglivo, Rv. 256595). Occorre però esaminare - prosegue la sentenza - se, e in quale misura, ai fini della configurabilità dell'una o dell'altra fattispecie, rilevi la disposizione di cui all'art. 48 c.p., in forza della quale "se l'errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall'altrui inganno (...) del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l'ha determinata a commetterlo"... Secondo un diffuso orientamento della giurisprudenza di legittimità, è configurabile il delitto di peculato, anche in applicazione dell'art. 48 c.p., quando l'atto finale del procedimento di spesa è emesso da pubblici ufficiali indotti in errore dai pubblici agenti che si sono occupati di istruire la fase istruttoria (così Sez. 6, n. 39039 del 15/04/2013, Malvaso, Rv. 257096, nonché, in precedenza, cfr.: Sez. 6, n. 2064 del 13/01/1984, Forino, 92; Sez. 6, n. 139 del 08/11/1971, dep. 1972, Bianco, Rv. 119841; Sez. 6 n. 186 del 28/01/1970, Chiarantaretto, Rv. 114961). Questo orientamento trova conferma in diverse pronunce, alcune recenti, altre risalenti, che, pur non richiamando esplicitamente la disposizione di cui all'art. 48 c.p., hanno ravvisato la configurabilità del delitto di peculato in relazione a procedure di spesa in cui il pubblico agente al quale era riferibile il provvedimento finale era in buona fede e le condotte fraudolente erano poste in essere dai funzionari istruttori della pratica.(...) Inoltre, la configurabilità del peculato ex art. 48 c.p. è stata ritenuta anche nei confronti di soggetto privo di qualifica pubblicistica che, traendo in inganno il pubblico agente, si appropri per tramite di questi di una cosa dal medesimo posseduta per ragioni di ufficio (cfr. Sez. 6, n. 4411 del 01/03/1996, Menia Bagatin, Rv. 204775).(...) Altro indirizzo interpretativo della giurisprudenza, pur senza evocare espressamente l'applicabilità o l'inapplicabilità della disposizione di cui all'art. 48 c.p. in relazione alla fattispecie di peculato, si pone dichiaratamente in contrasto con la soluzione accolta dalle pronunce sopra citate (cfr., specificamente, Sez. 6, n. 31243 del 04/04/2014, Currao, Rv. 260505). Secondo questo indirizzo, l'art. 314 c.p. "sanziona l'abuso del possesso, e colpisce in particolare il "tradimento" di fiducia del soggetto al quale l'ordinamento ha conferito la possibilità di disporre in autonomia della cosa affidatagli"; di conseguenza, se occorre acquisire atti dispositivi mediante "un'attività decettiva fondata sulla frode", emerge "per un verso come non vi sia stato pieno affidamento dell'amministrazione nei confronti dell'interessato, e per altro verso come manchi l'abuso del possesso da parte del funzionario infedele (sussistendo invece l'abuso della funzione)". In questa ipotesi, pertanto, ad avviso di questo orientamento, il reato configurabile è quello di truffa aggravata a norma dell'art. 61 c.p., n. 9, (...). In dottrina, il tema dell'applicabilità dell'art. 48 c.p. alla fattispecie di peculato ha dato luogo ad opinioni diverse. Secondo un diffuso indirizzo, la disposizione appena citata, sebbene in linea generale deve ritenersi consentire l'applicazione della disciplina del reato cd. proprio nei confronti dell'estraneo anche quando ili soggetto dotato della qualifica soggettiva necessaria agisce senza colpevolezza, non opererebbe quando a costituire l'offesa all'interesse tutelato concorre un particolare disvalore di condotta, per la cui realizzazione è necessaria la dolosa partecipazione di un soggetto qualificato. Muovendo da questa premessa, alcuni Studiosi sostengono che in tutti i reati contro la pubblica amministrazione è necessaria la dolosa partecipazione del soggetto qualificato. Altri Autori, però, pur condividendo la premessa indicata, ritengono non integralmente condivisibile tale conclusione, e, con specifico riferimento al peculato, rilevano che la soluzione dipende dall'individuazione dell'interesse tutelato: sviluppando questa prospettiva, vi è chi afferma che la risposta sarà positiva o negativa a seconda che si ritenga che nel delitto previsto dall'art. 314 c.p. l'interesse protetto sia soltanto il patrimonio della pubblica amministrazione o anche il dovere di lealtà del pubblico ufficiale, e chi, ancor più nettamente, esclude l'esistenza di ostacoli alla combinazione tra le disposizioni di cui agli artt. 48 e 314 c.p. se detto interesse debba individuarsi nel patrimonio, "o anche nel patrimonio", della pubblica amministrazione. Altra opinione, invece, reputa che l'art. 48 c.p. avrebbe una specifica funzione incriminatrice e consentirebbe di affermare comunque la responsabilità del decipiens quando la mancanza di dolo in capo all'autore materiale della condotta illecita derivi dall'inganno". All'esito della disamina, la sentenza Gambino ritiene "configurabile il delitto di peculato, anche a norma dell'art. 48 c.p., quando il denaro o l'altra cosa mobile è nella disponibilità giuridica concorrente di più pubblici ufficiali, ed uno di essi se ne appropria inducendo in errore gli altri, pure se questi ultimi siano i soggetti competenti ad emettere l'atto finale del procedimento... in quanto... nelle cd. "procedure complesse", come appunto le ordinarie procedure di spesa pubblica, la disponibilità giuridica del bene - che costituisce, in alternativa al possesso, il presupposto della condotta rilevante a norma dell'art. 314 c.p. - è frazionata dall'ordinamento giuridico tra più organi, e, quindi, tra più persone fisiche. Questo frazionamento non può ritenersi escludere la configurabilità del delitto di peculato, poiché l'art. 314 c.p. indica come presupposto della condotta illecita "il possesso o comunque la disponibilità" del bene, ma non anche l'esclusività di tale possesso o di tale disponibilità", cosicché, conclude, il pubblico agente che "co-detiene" la disponibilità giuridica della cosa mobile, anche quando induce in errore gli altri pubblici ufficiali con concorrenza competente sulla stessa, al fine di appropriarsene, abusa comunque della propria già esistente disponibilità in ordine al bene". 5. Ritiene questo Collegio che il principio espresso dalla risalente Sez. 6, Menia Bagatin non tiene conto della successiva riflessione giurisprudenziale né declina il principio espresso secondo la concreta fattispecie in esame, mentre quello espresso da Sez. 6, Garnbino, pure posto a base della sentenza impugnata, non costituisce una attualizzazione della predetta decisione e non pertiene alla fattispecie oggetto del presente procedimento facendo riferimento alla compartecipazione di un pubblico ufficiale alla procedura a seguito della quale è compiuto l'illecito atto dispositivo richiamando un compossesso del bene da parte dello stesso soggetto inducente in errore colui che pone in essere l'atto dispositivo. Del resto, ritiene questo Collegio, non è condivisibile l'argomentare della richiamata decisione quando correla la fattispecie induttiva al compossesso da parte del soggetto pubblico inducente che, di per sé, fonda la condotta appropriativa, non necessitando il richiamo alla fattispecie di cui all'art. 48 c.p.. 5.1. In ogni caso, diversa è la fattispecie all'esame di questa Corte in cui il soggetto agente consegue il bene soltanto per la condotta decettiva posta in essere nei confronti degli organi del fallimento. Al soggetto agente, in questo caso, non può ascriversi alcun compossesso giuridico dei beni del fallimento, né diretto né mediato, secondo il principio di diritto già affermato da Sez. 6, Currao secondo la quale è configurabile il delitto di truffa, aggravato ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 9, e non quello di peculato quando l'atto che in concreto produce l'effetto di appropriazione si inserisce in una procedura articolata, nella quale più soggetti sono chiamati ad intervenire e l'agente infedele, per ottenere il trasferimento della cosa nella sua materiale e personale disponibilità, deve ricorrere ad una condotta decettiva che gli procuri il compimento di atti di disposizione aventi natura costitutiva la cui adozione compete a terzi. A tal proposito la decisione ha ricordato che "la differenza di fondo fra i due illeciti risiede nel fatto che nel delitto 3ì peculato il possesso e la disponibilità del denaro per determinati fini istituzionali è un antecedente della condotta incriminata, mentre nella truffa l'impossessamento della cosa è l'effetto della condotta illecita. E' al rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri, dall'altra, che deve aversi riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l'illecita appropriazione da parte dell'agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata. A differenziare le due figure criminose, conclusivamente, non rileva tanto la precedenza cronologica o la contestualità della frode rispetto alla condotta appropriatìva, bensì il modo col quale il funzionario infedele acquista il possesso del denaro o del bene costituente l'oggetto materiale del reato: il momento consumativo della truffa coincide con il conseguimento del possesso a cagione dell'inganno e quale diretta conseguenza di esso, il che significa appropriazione immediata e definitiva del denaro o della res a vantaggio personale dell'agente; il peculato presuppone il legittimo possesso (disponibilità materiale o giuridica), per ragione dell'ufficio o del servizio, del denaro o della res, che l'agente successivamente fa propri, condotta quest'ultima che, anche se eventualmente caratterizzata da aspetti di fraudolenza, non esclude la configurabilità del delitto di cui all'art. 314 c.p., fatte salve le ulteriori ipotesi di reato eventualmente concorrenti" (Sez. 6, n. 5447 del 04/11/2009, Rv. 246070; nello stesso senso, in seguito, Sez. 6, n. 39010 del 10/04/2013, Rv. 256595; Sez. 6, n. 41599 del 17/07/2013 Rv. 256867; in precedenza, Sez. 6, n. 35852 del 06/05/2008, Rv. 241186; Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997, Rv. 211009; Sez. 6, n. 1675 del 28/11/1995, Rv. 204772; Sez. 6, n. 11902 del 11/05/1994, Rv. 200200; Sez. 6, n. 2439 del 19/09/1990, Rv. 186548; Sez. 6, n. 3039 del 22/03/1989, Rv. 183538)". Si pone nell'alveo di tale orientamento il principio di recente affermato secondo il quale non integra il delitto di peculato la condotta del consigliere regionale che, senza avere la disponibilità di fondi per il funzionamento del gruppo consiliare, ottenga rimborsi gravanti sul fondo del gruppo di appartenenza per spese non rimborsabili, potendo configurare il reato ex art. 314 c.p. solo la condotta appropriativa di denaro di cui il pubblico ufficiale abbia la disponibilità diretta (Sez. 6, n. 40595 dei 02/03/2021, Bernardini Manes, Rv. 282742 - 01) che ha inteso ribadire "la interpretazione strettamente letterale dell'art. 314 c.p.: la norma non riguarda qualsiasi forma di appropriazione realizzata dal pubblico ufficiale, ma solo quella che abbia ad oggetto cose che possano definirsi quali possedute dall'agente. Tale possesso/disponibilità è un presupposto necessario per qualificare come peculato l'appropriazione che, di per sé sola, è un elemento equivoco poiché caratterizza anche altri delitti", affermandosi che la "disponibilità" rilevante ai fini del peculato spetta soltanto a chi ha un "potere di firma" e non si estende a chi si limita ad inserire nel procedimento "dati" necessari per giustificare il trasferimento del denaro stesso". 5.2. Il principio affermato dall'orientamento esposto con riferimento alla qualità pubblicistica del soggetto agente, a maggior ragione, trova applicazione quando - come nel caso all'esame di questo Collegio - questi, estraneo alla funzione pubblicistica, solo con la frode entra in possesso del bene altrui, di cui ha la disponibilità il pubblico ufficiale in ragione del suo ufficio. La fattispecie di cui all'art. 48 c.p., invero, si ricollega a quella precedente dell'art. 47 c.p. che disciplina l'errore di fatto che, secondo un orientamento consolidato, esime dalla punibilità nel caso in cui cade su un elemento materiale del reato, consistendo in una difettosa percezione o in una difettosa ricognizione della percezione che alteri il presupposto del processo volitivo, indirizzandolo verso una condotta viziata alla base (Sez. 6, n.. 24605 del 03/04/2003, Mazzarella, Rv. 225569 - 01). Secondo l'art. 48 c.p. "se l'errore sul fatto costituente reato è determinato dall'altrui inganno, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l'ha determinata a commetterla", ponendosi sul piano dell'elemento soggettivo e non su quello oggettivo, non potendosi in ragione di tale previsione trasferire in capo al decipiens la funzione pubblicistica e invenire la correlata appropriazione, che necessariamente presuppone un abuso della funzione, nella specie insussistente. Pertanto, commette il reato di truffa colui che, mediante artifici e raggiri, induce in errore il curatore fallimentare ed il giudice delegato al fallimento in ordine al trasferimento del bene di cui questi hanno la disponibilità in ragione del proprio ufficio, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto. Cosicché i fatti rubricati sub capi b e d devono essere qualificati ai sensi dell'art. 640 c.p., aggravati dall'art. 61 c.p., n. 7 in relazione alle rilevanti somme indicate (cfr. Sez. 2, n. 15999 del 18/12/2019, dep. 2020, Saracino, Rv. 279335 - 01). 6. Non può essere accolta la dedotta improcedibilità per i reati sub b e d, così riqualificati, per mancanza della querela. Invero, i reati così aggravati risultavano procedibili di ufficio e alla sopravvenuta disposizione del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, art. 2, comma 1, lett. o), decorrente dal 30 dicembre 2022 ex art. 6 del D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, che ha escluso per la riconosciuta aggravante la procedibilità di ufficio, non consegue la improcedibilità dei reati in ragione della intervenuta costituzione di parte civile del fallimento. Invero, posto che il curatore fallimentare è legittimato a proporre querela quale detentore qualificato dei beni del fallimento (Sez. 5, n. 34802 del 24/04/2019, Santoro, Rv. 276646 - 01), in tema di reati divenuti procedibili a querela a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la manifestazione della volontà punitiva da parte della persona offesa può essere implicitamente desunta, nei processi in corso, dall'avvenuta costituzione di parte civile o dalla riserva di costituirsi parte civile (Sez. 3, n. 19971 del 09/01/2023, Antonelli, Rv. 284616 - 011. 7. Il quarto motivo del ricorso nell'interesse di F.G. è infondato, anche con riferimento alla intervenuta riqualificazione dei reati di cui ai capi b e d. Il ricorrente ha dedotto il bis in idem tra le condotte di cui ai capi a e c, da un lato, e quelle di cui ai capi b e d, dall'altro, invocando la medesimezza del fatto materiale e di un'unica condotta nelle rispettive fattispecie. E' noto che il bis in idem sostanziale concerne le ipotesi di qualificazione normativa multipla di un medesimo fatto, e, mediante il criterio regolativo della specialità (artt. 15 e 18 e 84 c.p.), fonda la disciplina del concorso apparente di norme, vietando che uno stesso fatto sia attribuito giuridicamente due volte alla stessa persona. Con Sez. U n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799 - 01 è stato autorevolmente affermato che, ai fini della preclusione connessa al principio "ne bis in idem", l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. Inoltre, è stato affermato che nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall'art. 15 c.p., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l'implicita valutazione di correlazione tra le norme, effettuata dal legislatore (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668 - 01). Come condivisibilmente osservato da Sez. 5, n. 1363 del 25/10/2021, dep. 2022, Abdurahmanovic Seid, Rv. 282536 - 01, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 200 del 2016, nell'affermare il criterio dell'idem factum, ai fini della valutazione della medesimezza del fatto storico oggetto di nuovo giudizio, ha chiarito che l'affrancamento dall'inquadramento giuridico del fatto non implica l'affrancamento dai criteri normativi di individuazione del fatto. Il criterio dell'idem factum, afferma la Consulta, non può essere inteso nell'accezione ristretta alla sola condotta (azione od omissione), in quanto la stessa giurisprudenza della Corte EDU non è consolidata in tal senso, anche per l'approccio casistica che la connota, e in quanto la scelta sul perimetro dell'idem factum "e' di carattere normativo", perché "ognuna di esse è compatibile con la concezione dell'idem factum" (Corte Cost., n. 200 del 2016, p. 4). In particolare, sul rilievo (...) secondo cui l'idem factum dovrebbe essere individuato in ragione soltanto dell'azione o dell'omissione, trascurando evento e nesso di causalità, la Corte Costituzionale ha affermato che la tesi è errata: "Il fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l'accezione che gli conferisce l'ordinamento, perché l'approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitario dal contenuto necessario. Fatto, in questa prospettiva, è l'accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell'inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un'addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi. Non vi e', in altri termini, alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa all'azione o all'omissione, e non comprenda, invece, anche l'oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente. E' chiaro che la scelta tra le possibili soluzioni qui riassunte è di carattere normativo, perché ognuna di esse è compatibile con la concezione dell'idem factum. Questo non significa che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto comportino il riemergere dell'idem legale. Esse, infatti, non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico. Ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell'accadimento naturalistico che l'interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto. Nell'ambito della CEDU, una volta chiarita la rilevanza dell'idem factum, è perciò essenziale rivolgersi alla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, per comprendere se esso si restringa alla condotta dell'agente, ovvero abbracci l'oggetto fisico, o anche l'evento naturalistico" (Corte Cost., n. 200 del 2016, p. 4). Proprio confrontandosi con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la Corte Costituzionale ha escluso che l'idem factum venisse delimitato con riferimento esclusivo alla condotta: "Ne' la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, né le successive pronunce della Corte EDU recano l'affermazione che il fatto va assunto, ai fini del divieto di bis in idem, con esclusivo riferimento all'azione o all'omissione dell'imputato. A tal fine, infatti, non possono venire in conto le decisioni vertenti sulla comparazione di reati di sola condotta, ove è ovvio che l'indagine giudiziale ha avuto per oggetto quest'ultima soltanto (ad esempio" sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia)"; conclude, sul punto, la Consulta, evidenziando che: "Certo è che, perlomeno allo stato, la giurisprudenza Europea, che "resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l'ha originata" (sentenza n. 236 del 2011), non permette di isolare con sufficiente certezza alcun principio (sentenza n. 49 del 2015), alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p., ove si escluda l'opzione compiuta con nettezza a favore dell'idem factum (questa sì, davvero espressiva di un orientamento sistematico e definitivo). In particolare, non solo non vi è modo di ritenere che il fatto, quanto all'art. 4 del Protocollo n. 7, sia da circoscrivere alla sola condotta dell'agente, ma vi sono indizi per includere nel giudizio l'oggetto fisico di quest'ultima, mentre non si può escludere che vi rientri anche l'evento, purché recepito con rigore nella sola dimensione materiale" (Corte Cost., n. 200 del 2016, p. 5). Nel sottolineare che l'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, secondo paragrafo, permette la riapertura del processo penale, quando è prevista dall'ordinamento nazionale, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di inficiare la sentenza passata in giudicato, la Corte Costituzionale ribadisce che "allo stato la Convenzione impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest'ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell'agente" (Corte Cost., n. 200 del 2016, p. 6). Sulla nozione di idem factum, la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata nell'affermare che, ai fini della preclusione connessa al principio del "ne bis in idem", l'identità del fatto sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, da considerare in tutti i suoi elementi costitutivi sulla base della triade condotta-nesso causale-evento, non essendo sufficiente la generica identità della sola condotta (Sez. 2, n. 52606 del 31/10/2018, Biancucci, Rv. 275518; in senso analogo, Sez. 5, n. 50496 del 19/06/2018, Bosica, Rv. 274448; Sez. 3, n. 30034 del 16/03/2021, Callegher). Nella specie, mentre la fattispecie di cui all'art. 232, comma 1, L. Fall. individua un reato di pericolo arrestandosi il fatto tipico perseguito alla formulazione della domanda di ammissione al fallimento, quella di truffa individua un reato di danno che contempla l'ulteriore evento del conseguimento del profitto da parte dell'agente con corrispondente danno per la procedura fallimentare. Cosicché alcun rapporto di specialità può ravvisarsi tra le due fattispecie di reato tale da giustificare l'applicazione dell'art. 15 c.p., dovendosi per tali ragioni dissentire con l'opposta conclusione di Sez. 5, n. 25836 del 22/07/2020, Morreale, Rv" 279467) che ha ascritto al reato fallimentare anche il conseguimento del credito insinuato in base non già alla comparazione astratta delle fattispecie ma considerando la concreta imputazione elevata nel caso. 8. La sentenza impugnata deve quindi essere annullata, previa riqualificazione dei fatti di cui ai capi b e d ai sensi degli artt. 640 c.p. e art. 61 c.p., n. 7, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano per la rideterminazione della pena. 9. Ai sensi dell'art. 624 c.p.p. deve essere dichiarata la irrevocabilità della sentenza in ordine alla responsabilità penale degli imputati. 10. Il ricorso della parte civile è inammissibile in quanto manifestamente infondato rispetto al corretto rilievo da parte della sentenza impugnata dell'effettivo danno patrimoniale e non patrimoniale patito dalla parte civile, considerando il mancato incasso dei titoli rilasciati dal fallimento, così implicitamente escludendo rilievo alla mera eventualità a sostegno della impugnazione sull'esito del ricorso in cassazione sulla revocazione del credito ammesso. 11. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente parte civile al pagamento delle spese processuali e della somma che si stima equo determinare in Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Riqualificati i fatti di cui ai capi b e d ai sensi dell'art. 640 e 61 c.p., n. 7, annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Milano per la rideterminazione della pena. Visto l'art. 624 c.p.p. dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine all'affermazione della responsabilità penale degli imputati. Dichiara inammissibile il ricorso della parte civile che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 5 luglio 2023. Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2023
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