RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione in relazione alle condotte commesse fino al 20 marzo 20010 e, per l'effetto, ha ridotto la pena inflitta a F.G.A., in relazione al reato di peculato (art. 314 c.p.), a quella di anni tre e mesi tre di reclusione; ha ridotto l'importo della confisca a Euro settemila e l'importo della provvisionale liquidata in Euro ventimila, comprensiva della somma già attribuita, in favore della parte civile Comune di Lazise.
F.G.A. è stato riconosciuto responsabile del reato di peculato perché, messo comunale incaricato del prelievo del denaro dai parcometri comunali, quindi incaricato di pubblico servizio, si era reiteratamente appropriato del denaro provento dei parcheggi medesimi.
2. Con i motivi di ricorso, sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il ricorrente denuncia:
2.1. erronea applicazione della legge penale con riferimento alla ritenuta qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio, già esclusa dalla giurisprudenza proprio con riferimento agli addetti alla riscossione dei pedaggi dei parcheggi e non configurabile tenuto conto del fatto che il F. si occupava di operazioni meramente manuali (il prelievo degli incassi; la pezzatura e suddivisione di monete e banconote) e provvedeva alla redazione di una "semplice distinta", impropriamente valorizzata dalla Corte di appello che ha sottolineato come tale compilazione "era compiuta dal F. in presenza e corresponsabilità dell' A.", responsabile della gestione dei parcheggi comunali, e, quindi, in funzione di mero ausilio di quella di tale dirigente;
2.2. erronea applicazione della legge penale ai fini della qualificazione del fatto come delitto di peculato piuttosto che delitto di truffa (ex art. 640 c.p., comma 2, n. 1 e art. 61 c.p., n. 9) o furto aggravato (art. 624 c.p. e art. 625 c.p., n. 2).
3. Il ricorso è stato trattato con procedura scritta, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8, in relazione al D.L. 22 giugno 2023, n. 75, art. 17 che ha previsto la trattazione cd. cartolare del giudizio per le impugnazioni proposte sino al quindicesimo giorno successivo al 31 dicembre 2023.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi generici e manifestamente infondati.
I motivi di ricorso, infatti, sono riproduttivi di profili di censura, sia sulla qualifica soggettiva dell'imputato che sulla condotta di appropriazione, già vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dalla Corte di appello e, prima ancora, dal Tribunale sulla scorta della ricostruzione del fatto non contestata con il ricorso. Stante la inammissibilità del ricorso e, quindi, la sua inidoneità a dare luogo ad un valido rapporto di impugnazione, ne consegue che è irrilevante la prescrizione del reato intervenuta, per una parte delle condotte, in epoca successiva alla pronuncia della sentenza impugnata (Sez. Un., n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266).
2. Il ricorrente, onde escludere la qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio, richiama una risalente sentenza di questa Corte (Sez. 6, n. 9880 del 27/05/1998, Prigitano, Rv. 213046) che, secondo la prospettazione difensiva, sarebbe perfettamente calzante alla fattispecie in esame perché relativa all'addetto a un servizio di riscossione del pedaggio per la sosta di autovetture in un parcheggio automatizzato di una azienda comunale in quanto impiegato addetto allo svolgimento di semplici mansioni d'ordine, implicanti elementari nozioni tecniche e interamente predefinite.
2.1. L'art. 358 c.p. attribuisce, come noto, la qualifica di incaricato di pubblico servizio a coloro che, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio, attribuzione che presuppone l'accertamento in concreto dell'attività svolta dall'agente, essendo insufficiente a tal fine la mera sussistenza della qualifica di pubblico dipendente e dovendosi ritenere necessario che tale attività non si concreti in semplici mansioni di ordine o si esaurisca in attività di prestazione d'opera meramente materiale.
Ai fini della qualificazione dell'agente come incaricato di pubblico servizio si rende, pertanto, necessaria una duplice verifica consistente nella specifica analisi e ricostruzione delle attività e mansioni in concreto svolte dall'agente e, in negativo, quella che, attività e mansioni svolte non si concretino in mere mansioni d'ordine ovvero nella prestazione di un'opera meramente materiale che si identifica con quelle attività che caratterizzate dalla mancanza di poteri decisionali ovvero dall'assenza di qualsivoglia margine di discrezionalità, e che, perciò, si esauriscono nello svolgimento di compiti semplici, materiali o di pura esecuzione.
Facendo corretta applicazione di tali criteri, la Corte di appello ha ritenuto che l'imputato era incaricato della esecuzione di compiti non meramente materiali consistenti nella raccolta del denaro e delle matrici degli scontrini generati dai parcometri; nel conteggio e pezzatura delle somme prelevate e nella compilazione di una distinta di versamento che attestava la corrispondenza tra le matrici degli scontrini e l'incasso.
2.2. Diversamente dalla fattispecie esaminata nella sentenza richiamata quale precedente, l'attività dell'imputato non consisteva in una mera attività materiale (quale la riscossione dell'importo del ticket), ma si sviluppava attraverso attività che comportavano il conteggio e la pezzatura delle somme prelevate dai parcometri con la redazione di una distinta di versamento, distinta che si inseriva nel procedimento amministrativo volto ad accertare l'importo dell'incasso che l'imputato aveva prelevato.
I compiti dell'imputato non si esaurivano, pertanto, nelle mere operazioni di pezzatura e formazione dei sacchetti distinti e numerati secondo il valore (operazioni, queste, che sono effettivamente surrogabili con strumenti tecnici, quali le macchinette conta denaro)dovendo, invece, egli stesso attestare, attraverso la distinta, la corrispondenza di queste somme agli incassi che aveva prelevato, operazione che solo l'imputato (e non anche l' A. che interveniva in una fase successiva cioè in sede di redazione dei conteggi cd. ufficiali) poteva certificare essere avvenuta in relazione ad uno specifico importo che veniva poi riportato nella contabilità e che costituiva un passaggio essenziale del procedimento di contabilizzazione: deve, pertanto, escludersi che l'imputato svolgesse mere operazioni materiali o meramente esecutive, non connotate da discrezionalità.
3. Quanto al secondo motivo di ricorso, non è controverso che l'imputato si era appropriato degli incassi riscossi escogitando il sistema dell'inserimento nelle macchinette parcometro di una scheda "CPU" non dialogante, in sostituzione di quella originale, dialogante con il server, installato negli uffici comunali, al quale, in tempo reale o in differita (in caso di interruzione del collegamento e successivo ripristino), veniva segnalata l'operazione di incasso che pertanto veniva annotata (anche) in remoto.
Secondo la ricostruzione sviluppata nelle sentenze di merito, l'imputato era intervenuto manualmente sui parcometri, spegnendoli intenzionalmente e prelevando la scheda originale sostituita da una scheda pirata non programmata per la trasmissione dei dati e, quindi, incassando tutto il denaro inserito dagli utenti durante tutto il periodo in cui la scheda pirata era stata in funzione. Erano stati accertati, nel periodo dal 2008 al 2013, oltre mille spegnimenti, spesso in concomitanza con prelievi a cura dell'imputato delle somme, regolarmente registrate e versate: spegnimenti che erano stati ritenuti funzionali alla collocazione delle cd. schede pirata, due delle quali effettivamente sequestrate presso gli uffici comunali.
3.1 Nel ricorso si sostiene che il discrimen con il delitto di peculato, rispetto al reato di truffa, è ravvisabile nell'allestimento di artifici e raggiri allo scopo di conseguire l'illecito impossessamento della somma, condotta che ricalca quella dell'imputato che sovrapponeva alle attività che avrebbe dovuto svolgere (lo "scassettamento" ufficiale e autorizzato) quella, del tutto eccentrica, di spegnimento del sistema con estrazione della scheda dialogante e l'inserimento della scheda pirata finalizzata, per un verso, a procurarsi o conseguire l'illecito profitto facendo entrare il denaro inserito nella sua sfera di esclusivo dominio e, per altro verso, ad impedire che il denaro entrasse nel possesso o nella disponibilità della pubblica amministrazione. Senza questi artifici e raggiri, che, in tesi, inducevano in errore il Comune in relazione agli effettivi incassi del parcheggio, che non venivano censiti, l'imputato non avrebbe avuto la disponibilità del denaro, trattandosi di condotte "a monte" dell'attività delittuosa, prodromiche e strumentali a carpire il possesso delle somme e non di condotte finalizzate ad occultare l'illecita appropriazione o disponibilità in ragione del servizio.
3.2 Ora, la giurisprudenza ha ben chiarito che la distinzione tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 9, va individuata con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo il peculato quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi, invece, la truffa aggravata quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018, Pieretti, Rv. 274282). Per maggiore chiarezza si e', inoltre, precisato che nelle ipotesi di peculato le condotte di falsificazione documentale o gli artifici costituiscono un "post factum" non punibile in quanto compiuti per conseguire un risultato ulteriore finalizzato all'occultamento o al perfezionamento della materiale appropriazione della "res" (Sez. Sentenza n. 10569 del 05/12/2017, dep. 2018, Alfieri, Rv.273395).
Facendo corretta applicazione di tali coordinate al caso in esame, la Corte di appello (cfr. pag. 12) ha ritenuto che la sostituzione operata dal F. della scheda "CPU" dialogante con altra muta, cioè l'artificiosa sostituzione della scheda che registrava il pagamento eseguito dall'utente, non incidesse sul possesso del denaro o, meglio, non fosse finalizzata ad ottenere il possesso, quanto, invece, a celare l'impossessamento poiché F. era l'unico incaricato di prelevare il denaro dei parchimetri, denaro che diventa pubblico non appena immesso nella cassetta che compone il parchimetro. L'operazione che l'imputato compiva, conclude la sentenza impugnata, era sempre la medesima autorizzata, sia nel caso di installazione di scheda cd. dialogante, sia nel caso di installazione di scheda cd. muta: ritiro del denaro pubblico, laddove l'artificio aveva il solo scopo di celare al Comune l'esistenza di parte (riferito alla frazione di tempo) del denaro già versato dagli automobilisti nei parcometri, e consentirne l'appropriazione.
Si tratta di una modalità di condotta che non è sussumibile neppure nel delitto di furto aggravato, poiché l'imputato aveva la detenzione del denaro immesso nei parcometri dagli automobilisti, sicché egli aveva operato, intascandone una parte, l'inversione del titolo giuridico, sostituendosi al proprietario pubblico.
Non e', pertanto, fondato l'assunto della difesa, là dove fa derivare dalla qualificazione del fatto la erronea mancata sussunzione della condotta nel delitto di furto, dovendosi ritenere, invece, corretta l'affermazione della natura pubblica del denaro immesso nel parchimetro dagli utenti poiché l'imputato, essendo addetto alla sua manutenzione, se ne è appropriato utilizzando la sostituzione delle schede originali con quelle pirata e la distruzione degli scontrini emessi nel periodo cd. buio per "coprire" l'appropriazione che aveva realizzato.
4. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende che si reputa equo determinare come in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2023.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2023