RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 12 novembre 2021, la Corte di appello di Messina ha confermato la sentenza del Tribunale di Messina del 28 aprile 2021, con la quale B.F. era stato condannato, alla pena di un anno di reclusione, con concessione del beneficio della sospensione condizionale, per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000art. 5, poiché, nella qualità di erede di quota della (Omissis) s.n.c. in liquidazione, al fine di evadere le imposte sui redditi, non presentava, pur essendovi obbligato, in relazione all'anno di imposta 2016, la relativa dichiarazione, realizzando un'evasione di Irpef pari ad Euro 128.653,00.
2. Avverso la sentenza l'imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si lamentano: la violazione degli artt. 530 c.p.p., e del D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 5, in relazione agli artt. 5 e 20-bis del D.P.R. n. 917 del 1986, sul rilievo che la Corte di appello ha erroneamente interpretato le citate norme ai fini della sussistenza dell'elemento oggettivo del reato; il vizio di motivazione, per contraddittorietà in merito alla sussistenza dell'elemento oggettivo del reato.
Si afferma, sul punto, che la contestazione rivolta all'imputato è fondata unicamente su un accordo transattivo, intervenuto tra i coeredi del de cuius e l'unico socio superstite, inerente alla liquidazione della quota societaria e alla sua successiva divisione. Secondo la difesa, da tale accordo non può desumersi che le somme contestate fossero state realmente percepite dall'imputato e va censurato il ragionamento operato dalla Corte territoriale, volto a considerare sussistente l'obbligo dichiarativo, in quanto si sarebbe affermato erroneamente che la liquidazione attenesse ad una quota di una società di persone e che, pertanto, rientrasse all'interno della fattispecie "differenza da recesso", la quale a sua volta - in forza del rinvio di cui all'art. 20-bis del D.P.R. n. 917 del 1986 - doveva soggiacere alla disciplina dei redditi di impresa di cui all'art. 5 dello stesso D.P.R. n., con conseguente tassabilità delle somme, indipendentemente dall'effettivo incasso delle stesse. La difesa dell'imputato non ritiene configurabile tale consequenzialità automatica - secondo cui ad ogni reddito di partecipazione è applicato il metodo di tassazione dei redditi di impresa di cui all'art. 5 richiamato - perché sostiene che la disciplina relativa alla tassabilità "per trasparenza" dei redditi di impresa si applichi solo a coloro i quali esercitano concretamente tale attività e non ai soggetti che ne sono del tutto estranei. Il diritto di credito vantato dagli eredi relativo alla liquidazione della quota appartenuta al loro dante causa dovrebbe essere tassato, quale reddito di partecipazione, non per competenza, ma per cassa, ovvero nel momento in cui si realizza l'ingresso delle somme all'interno della sfera giuridica degli eredi stessi.
2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si censura la mancanza dell'elemento psicologico del reato, che dovrebbe essere escluso in conseguenza della non prevedibilità dell'obbligo dichiarativo, per la complessità della materia e la mancanza di riferimenti normativi univoci in grado di scandire i termini, le modalità e le tempistiche della relativa dichiarazione, e in grado di enunciare chiaramente l'applicabilità dei principi tributari di cui all'art. 5 del D.P.R. n. 917 del 1986 anche a soggetti che non svolgono attività di impresa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di doglianza - con il quale si deduce l'erronea applicazione dell'art. 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000, sul rilievo che il reato di omessa dichiarazione dei redditi non sarebbe configurabile sul piano oggettivo, in quanto il patrimonio non risultava accresciuto dalla quota della società "(Omissis) di (Omissis) s.n.c.", già appartenente al dante causa dell'imputato, che non era stata trasmessa agli eredi, né risultava in concreto liquidata ed entrata nel complesso dei suoi rapporti attivi e passivi - è fondato, con conseguente assorbimento del secondo motivo, riferito al profilo soggettivo della responsabilità penale.
1.1. La Corte di appello di Messina afferma che il valore della quota pervenuto in via successoria al ricorrente concorreva a formare il reddito imponibile in virtù di "atto transattivo (a chiusura del contenzioso instaurato) formato davanti ad un notaio con il quale B.A., socio superstite e liquidatore della società, si era riconosciuto debitore verso gli eredi, tra i quali B.F., della somma di Euro 954.560,229, un terzo della quale costituiva quindi per il predetto un "reddito" soggetto ad IRPEF in termini tributari". Da tale pacifica situazione di fatto la sentenza impugnata fa discendere che "il valore fissato consensualmente nel 2016 (dopo che la successione si era aperta nel 2008) tra il socio liquidatore e gli eredi era immediatamente esigibile e deve ritenersi tassabile indipendentemente dalla prova della effettiva percezione", in attuazione delle previsioni degli artt. 5 e 20 del D.P.R. n. 917 del 1986. Secondo i giudici di merito, dunque, sarebbe irrilevante l'ipotesi di una liquidazione ancora non compiuta, perché smentita dal contenuto dell'atto transattivo, dal quale non si evincono limiti temporali o modali alla effettiva immediata esigibilità delle somme, che rientravano perciò nella base imponibile da dichiarare all'Amministrazione finanziaria. In altri termini, l'atto di transazione costituiva elemento obiettivo da cui dedurre le condizioni della certezza in ordine alla sussistenza e della determinabilità in ordine all'ammontare del diritto di credito, entrato definitivamente nel patrimonio del ricorrente.
1.2. La ricostruzione in diritto operata dalla Corte di merito non può essere condivisa.
Ai sensi dell'art. 2284 c.c., a seguito della morte del socio, e quindi dello scioglimento del rapporto sociale che faceva capo al defunto, i soci superstiti devono procedere alla liquidazione della quota agli eredi. In alternativa, i predetti soci, qualora lo preferiscano, possono decidere di sciogliere direttamente la società e, in tal caso, le spettanze agli eredi saranno regolate nell'ambito della generale procedura di liquidazione dell'intera società. Infine, i soci superstiti possono continuare la società con gli eredi del socio defunto, sempre che questi vi consentano, mediante la stipula di un accordo di continuazione. La morte del socio non determina, conseguentemente, la trasmissione della sua quota agli eredi, ma la trasformazione ope legis nel corrispondente importo pecuniario di cui diventano creditori gli eredi e debitrice la società. Ai sensi dell'art. 2289 c.c., nel termine di sei mesi dalla morte del dante causa gli eredi dovranno vedersi attribuita dalla società una somma di danaro che rappresenti il valore della quota di partecipazione che faceva capo al de cuius e che dovrà essere calcolata sulla base della situazione patrimoniale della società stessa, quale risultante al momento in cui si è verificato lo scioglimento del rapporto sociale, dovendosi, comunque tenere conto degli utili e delle perdite relativi alle operazioni in corso. L'operazione di liquidazione della quota, già di pertinenza del socio defunto, secondo i criteri fissati dall'art. 2289 c.c. e', quindi, un procedimento contabile conseguente al già verificatosi scioglimento della società relativamente al predetto socio defunto. Il diritto dell'erede ha per oggetto fin dal primo momento un importo pecuniario, corrispondente al valore della quota, mentre il patrimonio sociale rimane immutato, sorgendo a carico della società solo l'obbligo di corrispondere il valore della quota. Del patrimonio ereditario, dunque, entra a far parte esclusivamente il valore della partecipazione sociale del de cuius, che poi, attraverso l'attività di liquidazione, si concretizza in un eventuale credito.
Nell'ambito del delineato quadro normativo, secondo la giurisprudenza di legittimità, la morte del socio comporta l'estinzione del rapporto partecipativo e l'insorgenza in capo agli eredi, che non assumono la qualità di soci, di un diritto di credito alla liquidazione della quota già spettante al defunto (Cass. civ., Sez. 5, ord. n. 1216 del 21/01/2021, Rv. 660241; Sez. 5, n. 31589 del 04/12/2019, Rv. 656106). E si è anche affermato che, in tema di redditi prodotti in forma associata, qualora nel corso dell'esercizio sociale di una società di persone si verifichi lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio, i redditi della società non possono essere a quest'ultimo addebitati "pro quota" ai sensi e per gli effetti dell'art. 5 del D.P.R. n. 917 del 1986, operando la cd. imputazione "per trasparenza" solo con riferimento a colui che è socio al momento della approvazione del rendiconto - e non già al socio uscente ed a quello subentrante attraverso una ripartizione proporzionale in funzione del rispettivo periodo di partecipazione alla società - dovendosi, infatti, tenere presente che una siffatta semplicistica ripartizione non corrisponde necessariamente alla produzione del reddito sociale nei vari periodi e che, secondo i principi civilistici (cui la disciplina tributaria coerentemente si uniforma), il diritto agli utili nelle società di persone matura solo con l'approvazione del rendiconto (Sez. 5, ord. n. 27830 del 31/10/2018, Rv. 651410).
La giurisprudenza di legittimità esclude, dunque, l'equiparazione dell'erede del socio al socio stesso; con la conseguenza che l'applicazione all'erede del cosiddetto principio di trasparenza, secondo cui i redditi sociali sono tassabili in capo al socio indipendentemente dall'effettivo incasso, non può essere automaticamente estesa all'erede.
L'istituto è regolato - per quanto qui rileva - dall'art. 5, comma 1, del D.P.R. n. 917 del 1986, a norma del quale "I redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili". A tale disposizione si affianca quella del successivo art. 20-bis. (Redditi dei soci delle società personali in caso di recesso, esclusione, riduzione del capitale e liquidazione), secondo cui, "Ai fini della determinazione dei redditi di partecipazione compresi nelle somme attribuite o nei beni assegnati ai soci o agli eredi, di cui all'art. 17, comma 1, lettera I), si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dell'art. 47, comma 7, indipendentemente dall'applicabilità della tassazione separata". Il richiamato art. 17, comma 1, lettera I), assoggetta a tassazione separata i "redditi compresi nelle somme attribuite o nel valore normale dei beni assegnati ai soci delle società indicate nell'art. 5 nei casi di recesso, esclusione e riduzione del capitale o agli eredi in caso di morte del socio, e redditi imputati ai soci in dipendenza di liquidazione, anche concorsuale, delle società stesse, se il periodo di tempo intercorso tra la costituzione della società e la comunicazione del recesso o dell'esclusione, la deliberazione di riduzione del capitale, la morte del socio o l'inizio della liquidazione è superiore a cinque anni". Secondo l'art. 47, comma 7, "Le somme o il valore normale dei beni ricevuti dai soci in caso di recesso, di esclusione, di riscatto e di riduzione del capitale esuberante o di liquidazione anche concorsuale delle società ed enti costituiscono utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l'acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate".
Il complesso di tali disposizioni conferma la conclusione già raggiunta nel senso della non equiparazione dell'erede al socio ai fini dell'applicazione del principio di trasparenza. Il richiamato art. 20-bis, si limita, infatti, ad affermare che possono esservi redditi di partecipazione compresi nelle somme attribuite o nei beni assegnati agli eredi, mentre l'art. 17, comma 1, lettera I), precisa che tali somme attribuite o beni assegnati sono quelli che derivano dalla morte del socio delle società di cui all'art. 5, applicando il regime della tassazione separata, sulla base del criterio di computo fissato dal successivo art. 47, comma 7. E' questa sola la portata dell'equiparazione tra socio ed erede, mentre le norme citate nulla prevedono quanto all'estensione, alla posizione dell'erede, del regime della trasparenza applicabile al socio. Deve dunque ritenersi che la tassazione del reddito dell'erede avvenga secondo gli ordinari criteri di cassa e, dunque, sia legata all'effettiva percezione del reddito stesso e non alla semplice titolarità di un diritto di credito verso la società, anche se liquido ed esigibile. E d'altra parte risponde a ragionevolezza la non applicazione del principio di trasparenza ad un soggetto, come l'erede, che non ha mai partecipato alla gestione della società.
2. Da quanto precede consegue, in relazione alla fattispecie in esame, che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perché non può essere ritenuto sussistente il contestato reato di omessa dichiarazione, sulla base della semplice esistenza di un atto di transazione con il quale la quota del socio deceduto viene liquidata pro parte a favore dell'imputato erede, senza che vi sia prova dell'effettivo incasso della somma liquidata.
P.Q.M
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.
Così deciso in Roma, il 06 dicembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 01 marzo 2023