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Appello: se il giudice applica un pena inferiore alla media edittale non è tenuto ad una specifica motivazione

Appello

Cassazione penale sez. III, 15/06/2016, n.38251

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. S.P. ed R.A. ricorrono per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Bari, in riforma della sentenza emessa dal tribunale di Foggia, ha rideterminato la pena nei confronti di entrambi i ricorrenti nella misura di anni uno di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa per lo S. (escluse le aggravanti della recidiva e quella di cui all'art. 80 e ritenuta invece l'ipotesi di cui al D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5) e nella misura di anni sei e mesi due di reclusione ed Euro 28.000,00 di multa per il R. (ritenuta l'ipotesi di cui all'D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, con le attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva e ritenuta la continuazione tra i reati contestati). 2. Per l'annullamento dell'impugnata sentenza i ricorrenti, tramite i rispettivi difensori, sollevano i seguenti motivi di gravame, qui enunciati ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p. nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 2.1. A.R. affida l'impugnazione a tre motivi. 2.1.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione di legge con riferimento al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) c.p.p.). Sostiene che, con riferimento ai reati per i quali ha riportato la condanna, la quantità della sostanza stupefacente oggetto delle relative cessioni fosse oggettivamente modica (0,309 gr di cocaina per il reato di cui al capo G; 0,19 gr di cocaina per il reato di cui al capo G1; 0,4 gr di cocaina per il capo G8; 5,864 gr di cocaina per il reato di cui al capo H1; 0,845 g di cocaina per il reato di cui al capo 14), con la conseguenza che le dette cessioni di sostanza stupefacente appaiono certamente sussumibili nella previsione legislativa del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 per la esiguità sia numerica delle cessioni, sia per i dati ponderali, non comprendendosi la ragione per la quale in fattispecie simili o anche più gravi ai coimputati sia stata riconosciuto il fatto di lieve entità. 2.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la mancanza di motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)) in ordine al mancato riconoscimento dell'ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, sul rilievo che la Corte territoriale non ha motivato, neppure per relationem, il mancato riconoscimento della fattispecie di reato reclamata. 2.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la manifesta illogicità e la contraddittorietà della motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b)) in ordine mancato riconoscimento dell'ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, sul rilievo che la sentenza impugnata ha riconosciuto ad altri coimputati il fatto di lieve entità con riferimento a dati ponderali superiori alla somma delle dosi confezionabili dal ricorrente in ordine ai reati per i quali ha riportato condanna. 3. S.P. affida l'impugnazione ad un unico motivo con il quale lamenta l'erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 133 c.p.. Assume che la pena irrogata sarebbe eccessiva e che invece una pena mite era senza dubbio più consona alla personalità mostrata dall'imputato per il reato in ordine al quale ha riportato la condanna, non avendo peraltro la Corte territoriale tenuto conto dei criteri di cui all'art. 133 c.p.. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso di R.A. è fondato. 2. La Corte d'appello ha affermato che, nei confronti del R., non fosse applicabile l'ipotesi del fatto di lieve entità, di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, sul rilievo della sua più grave posizione desumibile dalle entità e dal numero dei fatti ascrittigli. Nel pervenire a tale conclusione, la Corte territoriale ha disatteso l'orientamento più volte espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale, in materia di sostanze stupefacenti, l'ipotesi del fatto di lieve entità non può essere legittimamente esclusa in ragione della reiterazione nel tempo di una pluralità di condotte di cessione della droga, giacchè in tal modo si prescinde da una valutazione di tutti i parametri dettati in proposito dal D.P.R. 9 ottobre 1990, art. 73, comma 5, n. 309 (Sez. 6, n. 21612 del 29 aprile 2014 Villari Rv. 259233), essendo stati precisato, a tale proposito, che la fattispecie del fatto di lieve entità di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 non è incompatibile con lo svolgimento di attività di spaccio di stupefacenti non occasionale ma continuativa, come si desume dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6, che, con il riferimento ad un'associazione costituita per commettere fatti descritti dall'art. 73, comma 5, rende evidente che è ammissibile configurare come lievi anche gli episodi che costituiscono attuazione del programma criminoso associativo (Sez. l', n. 39844 del 13 agosto 2015, Bannour, Rv. 264678). Sicchè, avuto riguardo alle quantità di stupefacente illegalmente detenuto e ceduto, come indicate nel capo di imputazione, anche in raffronto a comportamenti analoghi attribuiti ai coimputati, la cui condotta è stata invece sussunta nella fattispecie di reato meno grave, la sola reiterazione nel tempo delle condotte contestate al ricorrente non può valere a negare, di per sè, la sussistenza di più fatti di ridotta offensività. Tutto ciò tuttavia implica un accertamento di fatto che è riservato al giudice di merito e che, come in precedenza specificato in relazione ai principi di diritto enunciati, non può trovare giustificazione nella motivazione resa dalla Corte territoriale per negare la sussumibilità delle condotte attribuite al R. nell'ambito della fattispecie di reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5. Pertanto, assorbiti gli altri motivi, la sentenza impugnata va annullata, nei confronti di R.A., limitatamente alla configurabilità del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Bari che, sul punto, si atterrà ai principi di diritto in precedenza fissati. 3. E' invece inammissibile il ricorso proposto da S.P.. Il quale genericamente si duole del fatto che, tenuto conto dei criteri di cui all'art. 133 c.p., la pena irrogata nei suoi confronti poteva essere più mite. Sennonchè, nella commisurazione della pena, la Corte d'appello ha determinato la sanzione in concreto applicata al ricorrente (un anno di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa) assestandola in misura nettamente inferiore alla media edittale (due anni di reclusione ed Euro 5.164, 5) e molto più vicina al minimo edittale (sei mesi di reclusione ed Euro 1.032,00) e, in tal caso, l'irrogazione della pena non deve essere motivata in modo specifico o particolarmente ampio, in quanto la sua applicazione rappresenta il frutto di una valutazione intuitiva e globale operata dal giudice del merito in rapporto alla complessiva considerazione del fatto ed alla personalità dell'imputato (Sez. 3, n. 1571 del 10 gennaio 1986, Ronzan, Rv. 171948), con la conseguenza che, da un lato, l'irrogazione di una pena in misura intermedia tra minimo e massimo implica per ciò stesso un corretto uso del potere discrezionale del giudice, cosicchè, escludendo ogni abuso, non abbisogna di specifica motivazione e, dall'altro, che se il parametro valutativo è desumibile, come nella specie, dal testo della sentenza impugnata riguardata nel suo complesso argomentativo e non necessariamente nella parte destinata alla mera quantificazione della pena (nel caso di specie, la Corte di appello ha dato atto come l'imputazione riguardasse la cessione di grammi 51, 981 di hashish da cui erano ricavabili ben 2.079 dosi), la sentenza non può essere censurata per difetto di motivazione in ordine i criteri adottati per la commisurazione della pena, non potendosi radicare alcun vizio motivazionale in proposito quando il buon uso del potere discrezione del giudice si desume oggettivamente dal testo della sentenza impugnata. Tra l'altro, il ricorrente, tra quelli declinati dall'art. 133 c.p., non ha indicato alcun parametro che il Giudice del merito avrebbe dovuto valutare e che invece non ha valutato per un maggiore contenimento della misura della pena. Il motivo è dunque inammissibile perchè aspecifico, oltre ad essere, per le ragioni in precedenza espresse, manifestamente infondato. 4. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso dello S. debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di R.A., limitatamente alla configurabilità del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 e rinvia, sul punto, ad altra sezione della Corte di appello di Bari. Dichiara inammissibile il ricorso di S.P. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 15 giugno 2016. Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2016
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