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Estorsione: la minaccia silente con metodo mafioso consente il concorso tra l’aggravante di estorsione e quella di associazione mafiosa

Estorsione

Cassazione penale sez. II, 18/04/2024, n.21616

In tema di estorsione, nel caso in cui il metodo mafioso si concretizzi in una minaccia "silente", posta in essere da soggetto appartenente ad un'associazione di tipo mafioso ed evocativa della capacità criminale del sodalizio, l'aggravante di cui all'art. 628, comma 3, n. 3, c.p, richiamata dall'art. 629, comma 2, c.p., può concorrere con quella di cui all'art. 416-bis.1 c.p., sotto il profilo dell'utilizzo del metodo mafioso, posto che la prima è volta a punire la maggiore pericolosità dimostrata, in concreto, dall'associato dedito anche alla consumazione di rapine ed estorsioni, mentre la seconda sanziona la maggiore capacità intimidatoria della condotta, realizzabile anche dal non è associato.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Caltanissetta confermava la condanna: - di Ar.Ma., Fi.Gi. e Vi.Gi. per il reato di estorsione, aggravata dal ricorso all'uso del metodo mafioso e dalla finalità di agevolare l'associazione mafiosa agente nel territorio di L, consumata ai danni di Co.An.; - del solo Vi.Gi. per il reato di tentata estorsione aggravata dal ricorso all'uso del metodo mafioso e dal fine di agevolare l'associazione mafiosa agente nel territorio di L, ai danni di Mu.Sa., gestore della discoteca "Giuiix", evento non verificatosi per cause indipendenti dalla volontà dell'agente. 2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore di Ar.Ma. che deduceva: 2.1. violazione di legge (art. 629 cod. pen.) e vizio di motivazione in ordine la conferma di responsabilità per l'estorsione ai danni di Co.An.: si deduceva che l'assoluzione in appello di Zi.Or., ipotetico mandante dell'attività estorsiva, funzionale ad impedire alla vittima di aprire un negozio di ottica (in concorrenza con quello di Zi.Or.) renderebbe illogica la conferma della condanna; mancherebbe anche la prova della sussistenza delle minacce e del profitto ingiusto; 2.2. violazione di legge (artt. 416-bis 1 e art. 628, comma 3, n. 3) cod. pen.) e vizio di motivazione in ordine al riconoscimento della aggravante del metodo mafioso: si deduceva che Co.An. aveva avuto la "consapevolezza della mafiosità" della richiesta avanzata da Fi.Gi. solamente a distanza di un anno dalla sua realizzazione; si deduceva, inoltre, che l'aumento di pena relativo all'aggravante del metodo mafioso si risolveva nella duplicazione dell'aggravamento correlato al riconoscimento dell'aggravante prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3) cod. pen.; 2.3. violazione di legge (artt. 81, 133 cod. pen.) e vizio di motivazione in relazione all'aumento per la continuazione, ritenuto eccessivo. 3. Ricorreva per cassazione anche il difensore di Fi.Gi. e Vi.Gi. che, con ricorsi in larga misura omogenei, deduceva: 3.1. vizio di motivazione: la sentenza di primo grado sarebbe carente di motivazione autonoma in quanto si sarebbe basata su una memoria del pubblico ministero che conteneva non solo le evidenze probatorie derivanti dalle intercettazioni, ma anche la valutazione delle stesse; il vizio era stato dedotto con la prima impugnazione, ma la Corte d'appello non aveva fornito alcuna risposta alla doglianza; 3.2. violazione di legge e vizio di motivazione (secondo e terzo motivo) in ordine alla valutazione di attendibilità di Co.An.: lo stesso stato considerato "parzialmente" inattendibile in ragione delle discrasie tra quanto dichiarato e quanto emerso in relazione alla perimetrazione temporale dei fatti in contestazione, al fatto che aveva negato di essere entrato in affari con un malavitoso catanese, oltre che per essere stato smentito dai testi della difesa; tali valutazioni renderebbero illogica la valutazione di credibilità della parte del narrato posto a sostegno della conferma di responsabilità dei ricorrenti; la conferma della responsabilità di Fi.Gi. e Vi.Gi. sarebbe stata effettuata in violazione della regola di valutazione de "l'al di là di ogni ragionevole dubbio"; inoltre, con riguardo a Vi.Gi., non sarebbe stato considerato che nel 2012 lo stesso si trovava in detenzione domiciliare; 3.3. violazioni di legge e vizio di motivazione (quarto motivo) con riferimento al capo c) ovvero alla tentata estorsione per la quale è stato condannato Vi.Gi.: la conferma della responsabilità sarebbe basata sulla valorizzazione delle dichiarazioni di Mo.An. ritenuto attendibile nonostante le numerose contraddizioni nelle quali era ripetutamente incorso; si ribadiva che Vi.Gi. nel 2012 si trovava in detenzione domiciliare, condizione incompatibile con la consumazione del reato; 3.4. violazione di legge (art. 416-bis 1 cod. pen.) e vizio di motivazione in ordine al riconoscimento dell'aggravante del metodo mafioso, che costituirebbe una duplicazione sanzionatoria rispetto alla contestazione di partecipazione all'associazione mafiosa per la quale sia Fi.Gi., che Vi.Gi. erano stati condannato con sentenza passata in giudicato; 4.5. violazione di legge (art. 133 cod. pen.) e vizio di motivazione in relazione alla definizione del trattamento sanzionatorio: per entrambi i ricorrenti la pena avrebbe dovuto essere più mite, tenuto conto delle modalità del fatto e della personalità dei ricorrenti. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso proposto nell'interesse di Ar.Ma. è inammissibile. 1.1. Il primo motivo di ricorso non supera la soglia di ammissibilità in quanto, fondandosi sulla ipotetica incompatibilità dell'assoluzione di Zi.Or. con la condanna dei ricorrente sulla insussistenza sia della minaccia, che dell'ingiusto profitto si risolve nella richiesta di una rivalutazione integrale del compendio probatorio, che è esclusa dal perimetro che circoscrive la competenza del giudice di legittimità. In materia di estensione dei poteri della Cassazione in ordine alla valutazione della legittimità della motivazione si riafferma che la Corte di legittimità non può effettuare alcuna valutazione di "merito" in ordine alla capacità dimostrativa delle prove, o degli indizi raccolti, dato che il suo compito è limitato alla valutazione della tenuta logica del percorso argomentativo e della sua aderenza alle fonti di prova che, ove si ritenessero travisate devono essere allegate - o indicate - in ossequio al principio di autosufficienza (tra le altre: Sez. 6 n. 13809 del 17/03/2015,0., Rv. 262965). Deve essere altresì affermato che le intercettazioni non possono essere rivalutate in sede di legittimità se non nei limiti del travisamento, che deve essere supportato da idonea allegazione: si riafferma cioè che in sede di legittimità è possibile prospettare un'interpretazione del significato di un'intercettazione "diversa" da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza di travisamento della prova, ossia nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale e la difformità risulti decisiva ed incontestabile (Sez. 3, n. 6722 del 21/11/2017 - dep. 12/02/2018, Di Maro, Rv. 272558; Sez. 5, n. 7465 del 28/11/2013 - dep. 17/02/2014, Napoleoni e altri, Rv. 259516). La valutazione della credibilità dei contenuti delle conversazioni captate è infatti un apprezzamento di merito che investe il significato e, dunque la capacità dimostrativa della prova, sicché la sua critica è ammessa in sede di legittimità solo ove si rileva una illogicità manifesta e decisiva della motivazione o una decisiva discordanza tra la prova raccolta e quella valutata. 1.2. Nel caso in esame la Corte d'appello, con motivazione completa e persuasiva, evidenziava che non vi era alcun collegamento tra la conferma della condanna di Ar.Ma. e l'assoluzione di Zi.Or. La decisione assolutoria derivava dalla diversa valutazione della capacità dimostrativa delle intercettazioni e dalla valorizzazione delle dichiarazioni di Co.An., che aveva escluso ogni tipo di partecipazione di Zi.Or. all'attività estorsiva. Inoltre, contrariamente a quanto dedotto, era emersa con chiarezza la sussistenza di minacce -agite con il ricorso all'uso del metodo mafioso - in quanto sia Ar.Ma. che Vi.Gi. avevano prospettato alla vittima la a possibilità di incendiare il negozio il giorno della inaugurazione, oppure di sottrarre tutta la merce in vendita dopo l'apertura. La ricostruzione dei fatti effettuata dalla Corte conferma quella del tribunale e chiarisce come Fi.Gi., capo del sodalizio mafioso agente nel territorio di L, si fosse attivato per estorcere il pizzo ad Co.An., avvalendosi anche del concorso di Ar.Ma. e Vi.Gi., che avevano concretamente posto in essere l'azione intimidatoria (pag. 11 della sentenza impugnata). Si rileva infine che è stato provata anche la sussistenza del "profitto" dell'azione estorsiva, anche escluso il coinvoigimento di Zi.Or.: l'azione prevaricatrice posta in essere era infatti, come ricostruito efficacemente dalla sentenza impugnata, pacificamente diretta a consentire al gruppo capeggiato da Fi.Gi. di esercitare un efficace controllo del territorio e, dunque, ad accrescere il capitale criminale del gruppo e la sua intrinseca forza di intimidazione (pag. 11 della sentenza impugnata). Tale ricostruzione si fonda su una logica interpretazione sia dei contenuti delle intercettazioni, che delle dichiarazioni rese da Co.An., anche nel corso del giudizio d'appello. La motivazione della sentenza impugnata non si presta ad alcuna censura in questa sed. 1.3. Le contestazioni riferite all'aggravante prevista dall'art. 416-bis 1 cod. pen. sono manifestamente infondate. 1.3.1. Con riferimento al metodo mafioso ed alla dedotta necessità che la vittima "percepisca" l'aggravamento dell'intimidazione correlato al ricorso all'uso del metodo mafioso il collegio riafferma che ai fini della configurabilità della circostanza aggravante in esame è necessario l'effettivo ricorso, nell'occasione delittuosa contestata, al metodo mafioso, il quale deve essersi concretizzato in un comportamento "oggettivamente idoneo" ad esercitare sulle vittime del reato la particolare coartazione psicologica evocata dalla norma menzionata e non può essere desunto dalla mera reazione delle stesse vittime alla condotta tenuta dall'agente (Sez. 2, n. 45321 del 14/10/2015, Capuozzo, Rv. 264900 - 01; Sez. 6, n. 28017 del 26/05/2011, Mitidieri, Rv. 250541; Sez. 1, n. 14951 del 06/03/2009, Izzo, Rv. 243731; Sez. 6, n. 21342 del 02/04/2007, Mauro, Rv. 236628). 1.3.2. Con riferimento alla possibilità di riconoscere contestualmente sia l'aggravante prevista dall'art. 628, comma 3), n. 3), cod. pen., che quella del ricorso al metodo mafioso il collegio intende riaffermare, in primo luogo, che in tema di rapina ed estorsione, la circostanza aggravante del ricorso all'uso del metodo mafioso, può concorrere con quella di cui all'art. 628, comma terzo, n. 3, richiamata dall'art. 629, comma secondo, cod. pen., in quanto la prima presuppone l'accertamento che la condotta sia stata commessa con modalità di tipo mafioso, non essendo necessario che l'agente appartenga al sodalizio criminale, mentre la seconda si riferisce alla provenienza della violenza o minaccia da soggetto appartenente ad associazione mafiosa, senza che sia necessario accertare, in concreto, le modalità di esercizio di tali violenza e minaccia, né che esse siano state attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall'appartenenza all'associazione mafiosa (Sez. 1, n. 4088 del 06/02/2018, dep. 2019, Poerio, Rv. 275131 - 02; Sez. 5, n. 2907 del 23/10/2013, dep.2014, Cammarota, Rv. 258464; Sez. 6, n. 27040 del 22/01/2008, Aparo, Rv. 241008; Sez. 2, n. 20228 del 23/05/2006, D'Angelo, Rv. 234651 - 01; Sez. 2, n. 510 del 07/12/2011 dep. 2012, Vincitore, Rv. 251769; Sez. U., n. 10 del 28/03/2001 Cinalli, Rv. 218378). Le due aggravanti si distinguono anche in ordine alla loro natura: la circostanza prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3) è, infatti, di natura "soggettiva" in quanto, come prevede l'art. 70 cod. pen., riguarda le "condizioni" personali dell'autore del reato (che in questo caso sono connotate dall'appartenenza ad un'associazione mafiosa). L'aggravante del ricorso all'uso del metodo mafioso è, invece, un'aggravante "oggettiva" e riguarda le modalità di estrinsecazione del reato (sulla natura oggettiva di tale aggravante tra le altre: Sez. 4, n. 5136 del 02/02/2022, Arlotta, Rv. 282602). Tanto premesso il collegio ritiene che le due circostanze concorrano, anche nel caso in cui, come quello di specie, le minacce siano state agite attraverso l'evocazione della capacità criminale dell'associazione mafiosa da persona che a quella associazione "appartiene", e che fa valere tale condizione di appartenenza a scopo intimidatorio. Tale affermazione si pone in consapevole contrasto con quanto affermato nella sentenza n.39836/23, secondo cui "nel caso della minaccia "silente", (...) ad essere rilevante è esclusivamente il dato della appartenenza del soggetto - che realizza la minaccia - alla consorteria mafiosa, posto che la capacità intimidatoria è correlata alla sola appartenenza. Se ciò consente (...) l'applicazione della circostanza aggravante di cui all'art.628, comma 3 n.3, cod. pen., altrettanto non può dirsi per l'avvenuto utilizzo del metodo mafioso (art.416-bis 1) che richiede una ulteriore esternazione funzionale alla semplificazione delle modalità commissive del reato. Dunque, nel particolare caso della "minaccia silente", la applicazione dell'aggravante specifica di cui all'art. 628 comma 3 n.3 esclude la contemporanea applicazione dell'aggravante di cui all'art.416-bis 1 cod. pen." (Sez. 1, n. 39836 del 19/04/2023, PG, Rv. 285059). Tale interpretazione parte dal presupposto - qui non condiviso - che la ratio dell'aggravante prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3) cod. pen. risieda "nel surplus della "capacità intimidatoria" ricollegabile alla provenienza qualificata della condotta intimidatoria", "non potendosi aderire alla tesi di un aggravamento derivante da una mera condizione soggettiva" (Sez. 1, n. 39836 del 19/04/2023, cit.). E che, di fatto, sovrappone la ratio dell'aggravante prevista dall'art. 628, comma 3 n. 3), a quella del ricorso all'uso metodo mafioso: quest'ultima sicuramente identificabile nella scelta di ritenere più grave un'azione caratterizzata da maggiore capacità intimidatoria. Il collegio ritiene, al contrario, che la ratio dell'aggravante soggettiva prevista dall'art, 628, comma 3, n. 3 cod. pen. debba essere rinvenuta nel fatto che il delitto posto in essere da chi appartiene ad un'associazione mafiosa manifesti la "maggiore pericolosità individuale" dell'agente, il quale, oltre ad appartenere ad una consorzio mafioso , consuma anche rapine ed estorsioni. Ad essere "colpita" dall'aggravante prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3 cod. pen., non è, dunque, la maggiore capacità intimidatoria della condotta, ma, invece, il fatto che la condotta sia agita da un soggetto che manifesta una allarmante pericolosità individuale, in quanto è già "appartenente" ad un sodalizio mafioso. Così inquadrata la ratio dell'aggravante dell'appartenenza all'associazione mafiosa, deve rilevarsi come la stessa non possa entrare in conflitto con quella del ricorso all'uso del metodo mafioso. Quando la minaccia è agita attraverso l'implicito richiamo al capitale criminale dell'associazione mafiosa effettuato da chi sia partecipe, l'appartenenza al sodalizio - in astratto non necessaria per configurare l'aggravante - "può" essere utilizzata per raggiungere lo scopo predatorio, aggravando la capacità intimidatoria della condotta. Si tratta di uno strumento che può essere attivato in via eventuale: l'associato non deve, infatti fare necessariamente ricorso all'uso del metodo mafioso. Sul punto è chiarificatore il passaggio della sentenza delle Sezioni Unite "Cinalli" in cui si osserva che "l'associato non sempre e necessariamente pone in essere, neppure nell'ambito di una rapina o di un estorsione rientranti nel programma comune, il comportamento (in allora) previsto dall'art. 7 d.l. 203/91" (Sez. U., n. 10 del 28/03/2001, Cinaiii, Rv. 218378). La "facoltativi" del ricorso all'uso del metodo mafioso da parte dell'associato che consuma rapine ed estorsioni conferma la non sovrapponibilità della circostanza prevista dall'art. 416-bis 1 cod. pen., che sanziona le modalità con cui viene consumato il reato (ovvero il ricorso al metodo mafioso), con quella che sanziona il fatto che il delitto sia consumato da un appartenete all'associazione, ovvero da chi ha una posizione soggettiva che esprime la sua specifica, individuale, maggiore pericolosità. Si afferma pertanto che (a) l'aggravante soggettiva prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3) cod. pen. è funzionale a punire la maggiore pericolosità dimostrata, in concreto, dall'associato impegnato "anche" nella consumazione di rapine ed estorsioni, mentre l'aggravante oggettiva del ricorso all'uso del metodo mafioso sanziona la maggiore capacità intimidatoria della condotta (che, in ipotesi, può essere agita anche da chi non è associato), (b) che tale diversità di ratio e natura consente di ritenere che le due aggravanti possano concorrere, anche nel caso in cui il metodo mafioso si concretizzi nella minaccia c.d. "silente", agita attraverso l'evocazione della capacità criminale dell'associazione mafiosa alla quale l'autore appartiene. 1.3.3. Nel caso in esame la Corte di appello in coerenza con tali indicazioni ermeneutiche (a) rilevava la sussistenza sia dell'aggravante del metodo mafioso che di quella agevolativa, riconosciuta, quest'ultima, nella direzione dell'azione criminale all'accrescimento del potere del gruppo mafioso facente capo a Fi.Gi., (b) rilevava - tra l'altro - che l'azione intimidatoria aveva avuto un concreto e visibile effetto nei confronti di Co.An., che aveva deciso di andare a lavorare altrove (come lo stesso dichiarato in Corte d'appello: pag. 11 della sentenza impugnata); (c) rilevava, infine anche la sussistenza della circostanza attiva prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3) cod. pen. legittimamente ritenuta coesistente con quelle previste dall'art. 416-bis 1 cod. pen. (pag. 12 della sentenza impugnata. 1.4. L'ultimo motivo, che contesta il difetto di motivazione in relazione alla definizione degli aumenti per la continuazione, è manifestamente infondato. Invero la doglianza si risolve nella critica all'esercizio della discrezionalità utilizzato nella definizione dell'intero trattamento sanzionatorio, dato che l'aumento per la continuazione è stato effettuato ponendo in continuazione il reato per cui si procede con quelli giudicati con sentenza irrevocabile. In punto di quantificazione della pena si riafferma che i giudici di merito godono di un ampio margine di discrezionalità che deve essere esercitato nel rispetto dei parametri previsti dall'art. 133 cod. pen. Il collegio rileva che, nel caso in esame, la motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio risulta ineccepibile in quanto priva di illogicità manifeste ed aderente alle emergenze processuali. La graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure con il richiamo aila gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 dei 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243 - 01; Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Ferrario, Rv. 259142, Sez. 2, n. 12749 del 19/03/2008 - 2008, Gasparri e altri, Rv. 239754). Peraltro, nel caso in esame, la Corte d'appello ha espresso con motivazione chiara le ragioni dell'esercizio del suo potere discrezionale nell'inflizione dell'aumento per la continuazione, rilevando come la pena fosse equa, proporzionata alla gravità del fatto per cui si procede; e come non fossero elementi emersi elementi positivi per concedere il beneficio delle circostanze attenuanti generiche (pag. 13 della sentenza impugnata). 2. Il ricorso proposto nell'interesse di Fi.Gi. e Vi.Gi. è inammissibile. 2.1. Il primo motivo di ricorso non super la soglia di ammissibilità in quanto contesta un difetto di motivazione relativamente a vizio dedotto in modo generico con l'appello. Il collegio riafferma che il vizio di mancanza di motivazione, ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., sussiste solo quando le argomentazioni addotte dal giudice a fondamento dell'affermazione di responsabilità dell'imputato siano prive di completezza in relazione a "specifiche doglianze" formulate con i motivi di appello, dotate del requisito della decisività (Sez. 5, n. 6746 del 13/12/2018 dep. 2019, Curro, Rv. 275500, Sez. 5, n. 2916 del 13/12/2013, dep. 2014, Dall'Agnoia, Rv. 257967; Sez. 6, n. 35918 dei 17/06/2009, Greco, Rv. 244763). Nel caso in esame con gli appelli veniva solo evidenziato come la sentenza di primo grado riportasse ampi stralci di intercettazioni, ponendo i contenuti captati a fondamento della condanna, senza che vi fosse una esplicita doglianza in ordine alla carenza di autonomia della motivazione offerta dal tribunale. La genericità della doglianza non ha generato in capo al giudice di appello alcun onere motivazionale, sicché nessuna censura può essere rivolta alla sentenza impugnata che, peraltro, ha effettuato un accurato vaglio del materiale probatorio posto a sostegno della condanna, come risulta dalle conferme selettive delle decisioni assunte in primo grado. 2.2. Con riguardo alle contestazioni relative alla valutazione frazionata delle dichiarazioni di Co.An., il collegio riafferma che è legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa, purché il giudizio di inattendibilità, riferito soltanto ad alcune circostanze, non comprometta per intero la stessa credibilità del dichiarante ovvero non infici la plausibilità delle altre parti del racconto (Sez. 6 n. 20037 del 19/03/2014, L., Rv. 260160; Sez. 6 n. 3015 del 20/12/2010, dep. 2011, Farruggia, Rv. 249200). 2.2.1. Nel caso in esame non si rinviene alcun vizio dell'apparato motivazionale posto a sostegno della conferma di responsabilità. La Corte di appello ha fatto buon governo delle indicazioni fornite dalla Cassazione in materia di valutazione delle dichiarazioni della vittima. Invero la Corte di merito ha rilevato i profili di criticità del dichiarato di Co.An. (pag. 9 della sentenza impugnata), ritenendo, tuttavia, che gli stessi non incidessero sulla credibilità dei contenuti accusatori relativi alle posizioni di Fi.Gi. e Vi.Gi. Si evidenziava infatti che Co.An. non aveva mai indicato che Zi.Or. avesse concorso all'attività estorsiva e rilevava che lo stesso, invece, era stato sempre coerente nell'indicare la responsabilità dei ricorrenti. Ma quel che più rileva è che la conferma della credibilità dei contenuti accusatori tratti dalle dichiarazioni di Co.An. si rinviene non solo nella coerenza della narrazione, ma anche nelle plurime, convergenti ed univoche conferme esterne derivanti dalle intercettazioni, che costituiscono la fonte di prova decisiva per la conferma della responsabilità dei ricorrenti (pag. 11 della sentenza impugnata). La motivazione della sentenza impugnata non si presta, pertanto, ad alcuna censura in questa sede. 2.3. Con riferimento al rispetto della regola di valutazione de "l'al di là di ogni ragionevole dubbio" ed alla sua deducibilità in sede di legittimità, il collegio ribadisce che alla Cassazione non è consentita l'interpretazione diretta della capacità dimostrativa della prove, che spetta solo ai giudici di merito, ma solo la valutazione della tenuta logica della motivazione offerta in ordine a tale interpretazione. Ebbene, la motivazione deve rispettare le regole di valutazione previste dal codice, tra le quali, è compresa, nel caso di condanna anche quella del rispetto del "criterio generalissimo" del superamento di ogni "ragionevole dubbio", ovvero del parametro ° indicato dal legislatore del 2006 come guida ineludibile per il giudizio che si risolve in una condanna, la cui matrice costituzionale è stata rinvenuta nella presunzione di innocenza (cosi: Sez. U., n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269786; Sez. U., n. 14800 del 21/12/2017 - dep. 2018, Troise, Rv. 272430). La rilevanza di tale criterio impone uno sforzo interpretativo per assegnare allo stesso una configurazione positiva e riconoscibile. L'importazione nel nostro codice della formula dell"'oltre ogni ragionevole dubbio" (ovvero della regola b.a.r.d., acronimo dell'inglese "beyond any reasonable doubt") è stata effettuata con le c.d. riforma del giusto processo (legge n. 46 del 2006), orientata a rafforzare la struttura accusatoria del rito anche attraverso l'importazione di alcuni elementi del processo anglossassone e, segnatamente di quello nordamericano. Nel processo statunitense la esortazione a giudicare "oltre ogni ragionevole dubbio" fa parte delle instructions che il giudice deve impartire alla giuria, che decide con verdetto immotivato: si tratta pertanto di una raccomandazione che, in quell'ordinamento non ha alcun controllabile precipitato nella motivazione. Dopo l'importazione della formula nel tessuto codicistico italiano la dottrina prevalente ha collegato il criterio alla presunzione di non colpevolezza contenuta nell'art. 27, comma 2, della Carta fondamentale, trovando autorevole conferma nella giurisprudenza delle Sezioni unite (Sez. U., n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269786; Sez. U., n. 14800 del 21/12/2017 - dep. 2018, Troise, Rv. 272430). La dottrina ha ritenuto altresì che il criterio valutativo in questione segni il superamento del principio del principio del "libero convincimento del giudice" e, quindi, della necessità che la condanna sia fondata sulla valorizzazione delle prove assunte in contraddittorio le quali, per rispettare il canone valutativo, devono avere un capacità dimostrativa sufficiente a neutralizzare la valenza antagonista delle tesi alternative. Condividendo tale apprezzabile tentativo di positivizzazione della "formula b.a.r.d." il collegio ritiene che il criterio in questione non possa tradursi nella valorizzazione di uno "stato psicologico" del giudicante, invero soggettivo ed imperscrutabile, ma sia indicativo della necessità che il giudice effettui un serrato confronto con gli elementi emersi nel corso della progressione processuale e, nei casi in cui decida su un'impugnazione a struttura devolutiva, anche con gli argomenti di critica proposti dall'appellante oltre che con le ragioni poste a sostegno della prima decisione. È essenziale cioè che, per il rispetto della regola, siano valutate le tesi antagoniste proposte dalia difesa, attraverso una valorizzazione diffusa del principio del contraddittorio non solo durante la formazione della prova ma anche nella fase decisoria. Tanto chiarito, il collegio riafferma che il mancato rispetto di tale regola non può essere tradotto, in sede di legittimità, nella invocazione di una diversa valutazione delle fonti di prova. Non ogni "dubbio" sulla ricostruzione probatoria fatta propria dalla Corte di merito sì traduce infatti in una "illogicità manifesta", essendo necessario che sia rilevato un vizio logico che incrini, in modo severo, la tenuta della motivazione, evidenziando una frattura logica non solo "manifesta", ma anche "decisiva", in quanto essenziale per la tenuta del ragionamento giustificativo della condanna. Si ritiene, cioè, che il parametro di valutazione indicato nell'art. 533 cod. proc. pen. che richiede che la condanna sia pronunciata solo se è fugato ogni "dubbio ragionevole" opera in modo diverso nella fase di merito rispetto a quella di legittimità: solo innanzi alla giurisdizione di merito tale parametro può essere invocato per ottenere una valutazione alternativa delle prove; diversamente in sede di legittimità tale regola rileva solo nella misura in cui la sua inosservanza si traduca in una manifesta illogicità del tessuto motivazionale. In sintesi: la "regola b.a.r.d." (acronimo anglosassone: "beyond any reasonable doubt") in sede di legittimità rileva solo se la sua violazione si risolve in una illogicità manifesta e decisiva del tessuto motivazionale; e può rinvenirsi nella omessa valutazione delle "tesi alternative" solo ove queste sia allegate e ragionevoli, ovvero trovino conforto nella logica e nelle emergenze processuali, non potendo il dubbio fondarsi su un'ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, P., Rv. 281647 - 04 (Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, D'Urso e altri, Rv. 270108). 2.3.1. Nel caso in esame la regola "b.a.r.d" risulta pienamente rispettata dalla Corte territoriale. Non emergono, infatti, lacune motivazionali o contraddizioni nel percorso argomentativo tracciato per confermare la responsabilità dei ricorrenti. Anche perché non sono emerse tesi alternative giustificative delle condotte contestate, che non siano state adeguatamente vagliate dai giudici dei precedenti gradi di giudizio. 2.4. Il quarto motivo di ricorso che contesta la conferma della condanna per tentata estorsione - reato per il quale è stato condannato solo Vi.Gi. - non supera la soglia di ammissibilità in quanto si risolve nella richiesta di rivalutare la capacità dimostrativa delle prove. Contrariamente a quanto dedotto, la Corte di appello rilevava come le emergenza probatorie raccolte indicassero chiaramente la colpevolezza di Vi.Gi., tenuto conto del fatto che le attendibili dichiarazioni di Mu.Sa. si saldavano sia con quelle di Mo.An., che con i contenuti dei dialoghi intercettati, convergendo nell'indicare in modo non equivoco che Vi.Gi. avesse, con minaccia tipicamente mafiosa, richiesto somme di denaro a Mu.Sa. e che questi si fosse rifiutato di corrisponderle. Si rileva, infine, che il tema della compatibilità della condotta contestata con la detenzione domiciliare di Vi.Gi. è stato introdotto solo in sede di legittimità: lo stesso, pertanto, non può essere scrutinato, poiché il motivo è stato proposto in violazione dell'art. 606, comma 3, cod. proc. pen. 2.5 La doglianza relativa alla compatibilità del riconoscimento dell'aggravante e prevista dall'art. 416- bis 1 cod. pen. con la condanna per la partecipazione ad associazione mafiosa è manifestamente infondato. Il collegio riafferma che, ai fini della configurabilità dell'aggravante dell'utilizzazione del metodo mafioso, non occorre che sia dimostrata o contestata l'esistenza di un'associazione per delinquere, essendo necessario solo che la violenza o la minaccia assumano la veste propria della violenza o della minaccia mafiosa, ossia di quella ben più penetrante, energica ed efficace che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici ed efferati delitti (tra le altre Sez. 2, n. 32564 del 12/04/2023, Bisogni, Rv. 285018 - 02). Non esiste dunque alcun nesso tra partecipazione ad associazione mafioso e utilizzo del metodo mafioso: l'aggravante può essere riconosciuta anche se non risulta provata la sussistenza dell'associazione e concerne condotte delittuose diverse dalla partecipazione all'associazione, condotta quest'ultima che può essere riconosciuta anche a chi abbia offerto un contributo alla vita associativa che non abbia richiesto il ricorso all'uso del metodo mafioso. 2.6. Le doglianze in ordine al trattamento sanzionatorio proposte con l'ultimo motivo non superano la soglia di inammissibilità in quanto manifestamente infondate. Si richiama sul punto la giurisprudenza citata al cap. 1.4. Nel caso in esame, come già rilevato in occasione dell'esame della posizione di Ar.Ma., la Corte territoriale ha offerto una persuasiva, ed esaustiva, motivazione in ordine alle ragioni dell'esercizio della discrezionalità nella definizione del trattamento sanzionatorio (che anche in questo caso veniva quantificato attraverso l'aumento per la continuazione relazione a condanna già passata in giudicato). La motivazione, che si fonda sulla valutazione della gravità della condotta, della personalità dei ricorrenti, e sulla complessiva equità dell'aumento inflitto, non si presta ad alcuna censura in questa sede (pag. 13 della sentenza impugnata). 2. Alla dichiarata inammissibilità dei ricorsi consegue, per il disposto dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che si determina equitativamente in euro tremila. Condanna, inoltre, gli imputati in solido alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Co.An., che - tenuto conto dei parametri vigenti - liquida in complessivi euro 3686,00 oltre accessori di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibili il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, gli imputati in solido alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Co.An., che liquida in complessivi euro 3686,00 oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il giorno 18 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.
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