RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Napoli confermava la responsabilità di Za.Pa. per il reato di estorsione aggravata dal ricorso all'uso del metodo mafioso.
Si contestava allo stesso di avere costretto le persone offese a vendere al prezzo di sessantamila euro un terreno, che avrebbe dovuto essere destinato alla edificazione della loro abitazione.
2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore che deduceva:
2.1. violazione di legge (art. 629 cod. pen.) e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di estorsione: gli elementi raccolti non indicherebbero la sussistenza di una condotta minatoria, dato che non sarebbe stata rilevata nessuna condotta dalla quale, seppur implicitamente, potesse dedursi un atteggiamento riconducibile alla c.d. "minaccia ambientale";
2.2. violazione di legge (art. 581 cod. proc. pen., art. 610 cod. pen.) e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica della condotta, che avrebbe dovuto essere quella della violenza privata, improcedibile per carenza di querela; alla base della invocata qualificazione vi sarebbe l'assenza del danno, tenuto conto che il prezzo pagato dal ricorrente sarebbe congruo, in quanto superiore a quello che le persone offese avevano corrisposto per l'acquisto;
2.3. violazione di legge (art. 416-ò/s.l cod. pen.) e vizio di motivazione in ordine al riconoscimento dell'aggravante del ricorso all'uso del metodo mafioso: la circostanza sarebbe stata riconosciuta solo sulla base deirappartenenza" di Za.Pa. al clan dei C, senza identificare alcun comportamento idoneo ad integrare il ricorso all'uso del metodo mafioso; peraltro, considerato che era stata riconosciuta anche l'aggravante prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3) cod. pen., si sarebbe verificata una violazione del principio del ne bis idem in quanto il medesimo dato di fatto sarebbe stato posto a fondamento del riconoscimento di due distinte aggravanti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso deve essere rigettato.
1.1. Il primo motivo è infondato.
Il collegio riafferma che nell'estorsione contrattuale, che si realizza quando al soggetto passivo sia imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l'agente o con altri soggetti, l'elemento dell'ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente - vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, essendogli impedito di perseguire i propri interessi economici nel modo da lui ritenuto più opportuno (Sez. 2, n. 12434 del 19/02/2020, Di Grazia, Rv. 278998; Sez. 5, n. 9429 del 13/10/2016, dep. 2017, Mancuso, Rv. 269364 - 01; Sez. 6, Sentenza n. 46058 del 14/11/2008, Russo, Rv. 241924).
1.2. Nel caso ci si occupa, dunque, non assume rilevanza la (ipotetica) congruità del prezzo versato per l'acquisto del terreno estorto, quanto invece il fatto che lo stesso non sarebbe stato venduto, se non vi fosse stata l'azione intimidatrice - in concreto costrittiva - posta in essere dal ricorrente (come correttamente rilevato dalla Corte d'appello a pag. 4 della sentenza impugnata). Il "danno" del quale si contesta la sussistenza deriva dalla lesione dell'autonomia negoziale e non dalla vendita sottocosto del terreno (la Corte ha rilevato, comunque che al momento della vendita estorta, il valore del terreno era aumentato per il cambio di destinazione urbanistica: pag. 4 della sentenza impugnata).
Il riconoscimento del danno nella lesione dell'autonomia contrattuale degli offesi osta, dunque, all'accoglimento dell'invocata riqualificazione della condotta nel più lieve delitto di violenza privata.
2. E' infondato anche il secondo motivo, che contesta la motivazione sia nella parte in cui conferma la sussistenza dell'aggravante del ricorso all'uso del metodo mafioso, sia nella parte in cui ritiene che la stessa sia stata illegittimamente riconosciuta unitamente all'aggravante prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3) cod. pen. .
2.1. Quanto all'aggravante del ricorso all'uso del metodo mafioso il collegio riafferma che, in caso di estorsione, la stessa sussiste anche a fronte di un messaggio intimidatorio "silente", in quanto privo di un'esplicita richiesta, nei casi in cui la consorteria abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l'avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti violenti o minacciosi (Sez. 2, n. 51324 del 18/10/2023, Rizzo, Rv. 285669 - 01; Sez. 3, n. 44298 del 18/06/2019, Di Caprio, Rv. 277182; Sez. 2, n. 26002 del 24/05/2018, Pizzimenti, Rv. 272884; Sez. 2, n. 20187 del 03/02/2015, Gallo, Rv. 263570).
Il collegio ribadisce, cioè, che il ricorso al metodo mafioso, non deve necessariamente esteriorizzarsi in una maggiore e visibile "violenza" della condotta, potendo risolversi anche nella mera "evocazione" del capitale criminale della mafie storiche, che consente una "semplificazione" del comportamento costrittivo, dato che l'effetto intimidatorio si raggiunge attraverso la semplice - ed anche implicita o silente - evocazione della capacità criminale di consorzi mafiosi noti per la consumazione reiterata di efferati crimini contro la persona e non richiede lo spiegamento delle energie coercitive necessarie per rendere efficace una minaccia "ordinaria".
Si ritiene dunque che la minaccia che si risolva nell'evocazione dell'intervento di associazioni il cui capitale criminale è conosciuto, in quanto formatosi a causa della reiterazione di efferati crimini contro la persona ed il patrimonio, abbia capacità coercitiva anche se non si esprime attraverso comportamenti manifestamente costrittivi, dato che l'evocazione, anche implicita o silente, delle associazioni mafiose, specie se di natura storica, è di per sé idonea ad esplicitare una efficace capacità intimidatoria.
Nel caso in esame, in coerenza con tali indicazioni ermeneutiche, la Corte di appello confermava la sussistenza dell'aggravante dell'uso del metodo mafioso, che veniva individuato e riconosciuto nella minaccia implicita nell'assertiva richiesta agli offesi di vendere il terreno che gli stessi intendevano destinare alla costruzione della propria abitazione.
La Corte rilevava che, quanto più alta è la caratura criminale di chi esercita l'azione costrittiva, tanto più è sufficiente che siano proferite "poche parole per minacciare", senza il necessario ricorso a violenza o ad espressioni esplicite, tenuto conto che è la "caratura criminale nota al destinatario delle frasi che, di per sé, incute paura" (pag. 5 della sentenza impugnata).
2.2. Il motivo è infondato anche nella parte in cui deduce l'illegittimità del concorso dell'aggravante del ricorso all'uso del metodo mafioso con quella prevista dall'art. 628, comma terzo, n. 3) cod. pen., rinvenibile quando la violenza o la minaccia sono agite da chi "fa parte" dell'associazione mafiosa.
Sul punto il collegio intende riaffermare che in tema di rapina ed estorsione, la circostanza aggravante del ricorso all'uso del metodo mafioso, può concorrere con quella di cui all'art. 628, comma terzo, n. 3, richiamata dall'art. 629, comma secondo, cod. pen., in quanto la prima presuppone l'accertamento che la condotta sia stata commessa con modalità di tipo mafioso, non essendo necessario che l'agente appartenga al sodalizio criminale, mentre la seconda si riferisce alla provenienza della violenza o minaccia da soggetto appartenente ad associazione mafiosa, senza che sia necessario accertare, in concreto, le modalità di esercizio di tali violenza e minaccia, né che esse siano state attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall'appartenenza all'associazione mafiosa (Sez. 1, n. 4088 del 06/02/2018, dep. 2019, Poerio, Rv. 275131 - 02; Sez. 5, n. 2907 del 23/10/2013, dep.2014, Cammarota, Rv. 258464; Sez. 6, n. 27040 del 22/01/2008, Aparo, Rv. 241008; Sez. 2, n. 20228 del 23/05/2006, D'Angelo, Rv. 234651 - 01; Sez. 2, n. 510 del 07/12/2011 dep. 2012, Vincitore, Rv. 251769; Sez. U, n. 10 del 28/03/2001 Cinalli, Rv. 218378).
Le due aggravanti si distinguono anche in ordine alla loro natura: la circostanza prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3) è, infatti, di natura "soggettiva" in quanto, come prevede l'art. 70 cod. pen., riguarda le "condizioni" personali dell'autore del reato (che in questo caso sono connotate dall'appartenenza ad un'associazione mafiosa). L'aggravante del ricorso all'uso del metodo mafioso è, invece, un'aggravante "oggettiva" e riguarda le modalità di estrinsecazione del reato (sulla natura oggettiva di tale aggravante tra le altre: Sez. 4, n. 5136 del 02/02/2022, Arlotta, Rv. 282602).
Tanto premesso il collegio ritiene che le due circostanze concorrano, anche nel caso in cui, come quello di specie, le minacce siano state agite attraverso l'evocazione della capacità criminale dell'associazione mafiosa da persona che a quella associazione "appartiene", e che fa valere tale condizione di appartenenza a scopo intimidatorio.
Tale affermazione si pone in consapevole contrasto con quanto affermato nella sentenza n.39836/23, secondo cui "nel caso della minaccia "silente", (...) ad essere rilevante è esclusivamente il dato della appartenenza del soggetto - che realizza la minaccia - alla consorteria mafiosa, posto che la capacità intimidatoria è correlata alla sola appartenenza. Se ciò consente (...) l'applicazione della circostanza aggravante di cui all'art.628, comma 3 n.3, cod. pen., altrettanto non può dirsi per l'avvenuto utilizzo del metodo mafioso (art.416- bis. 1) che richiede una ulteriore esternazione funzionale alla semplificazione delle modalità commissive del reato. Dunque, nel particolare caso della "minaccia silente", la applicazione dell'aggravante specifica di cui all'art.628 comma 3 n.3 esclude la contemporanea applicazione dell'aggravante di cui all'art.416-bis cod. pen." (Sez. 1, n. 39836 del 19/04/2023, PG, Rv. 285059).
Tale interpretazione parte dal presupposto - qui non condiviso - che la ratio dell'aggravante prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3) cod. pen. risieda "nel surplus della "capacità intimidatoria" ricollegabile alla provenienza qualificata della condotta intimidatoria", "non potendosi aderire alla tesi di un aggravamento derivante da una mera condizione soggettiva" (Sez. 1, n. 39836 del 19/04/2023, cit.). E che, di fatto, sovrappone la ratio dell'aggravante prevista dall'art. 628, comma 3 n. 3), a quella del ricorso all'uso metodo mafioso: quest'ultima sicuramente identificabile nella scelta di ritenere più grave un'azione caratterizzata da maggiore capacità intimidatoria.
Il collegio ritiene, al contrario, che la ratio dell'aggravante soggettiva prevista dall'art, 628, comma 3, n. 3 cod. pen. debba essere rinvenuta nel fatto che il delitto posto in essere da chi appartiene ad una associazione mafiosa manifesti la "maggiore pericolosità individuale" dell'agente, il quale, oltre ad appartenere ad una consorzio mafioso , consuma anche rapine ed estorsioni. Ad essere "colpita" dall'aggravante prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3 cod. pen., non è, dunque, la maggiore capacità intimidatoria della condotta, ma, invece, il fatto che la condotta sia agita da un soggetto che manifesta una allarmante pericolosità individuale, in quanto è già "appartenente" ad un sodalizio mafioso.
Così inquadrata la ratio dell'aggravante dell'appartenenza all'associazione mafiosa, deve rilevarsi come la stessa non possa entrare in conflitto con quella del ricorso all'uso del metodo mafioso.
Quando la minaccia è agita attraverso l'implicito richiamo al capitale criminale dell'associazione mafiosa effettuato da chi sia partecipe, l'appartenenza al sodalizio - in astratto non necessaria per configurare l'aggravante - "può" essere utilizzata per raggiungere lo scopo predatorio, aggravando la capacità intimidatoria della condotta. Si tratta di uno strumento che può essere attivato in vìa eventuale: l'associato non deve, infatti fare necessariamente ricorso all'uso del metodo mafioso.
Sul punto è chiarificatore il passaggio della sentenza delle Sezioni Unite "Cinalli" in cui si osserva che "l'associato non sempre e necessariamente pone in essere, neppure nell'ambito di una rapina o di un estorsione rientranti nel programma comune, il comportamento (in allora) previsto dall'art. 7 d.l. 203/91" (Sez. U, r. 10 del 28/03/2001, Cinalli, Rv. 218378).
La "facoltatività" del ricorso all'uso del metodo mafioso da parte dell'associato che consuma rapine ed estorsioni conferma la non sovrapponibilità della circostanza prevista dall'art. 416-ò/s.l. cod. pen., che sanziona le modalità con cui viene consumato il reato (ovvero il ricorso al metodo mafioso), con quella che sanziona il fatto che il delitto sia consumato da un appartenete all'associazione, ovvero da chi ha una posizione soggettiva che esprime la sua specifica, individuale, maggiore pericolosità.
2.3. Si afferma pertanto che (a) l'aggravante soggettiva prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3) cod. pen. è funzionale a punire la maggiore pericolosità dimostrata, in concreto, dall'associato impegnato "anche" nella consumazione di rapine ed estorsioni, mentre l'aggravante oggettiva del ricorso all'uso del metodo mafioso sanziona la maggiore capacità intimidatoria della condotta (che, in ipotesi, può essere agita anche da chi non è associato), (b) che tale diversità di ratio e natura consente di ritenere che le due aggravanti possano concorrere, anche nel caso in cui il metodo mafioso si concretizzi nella minaccia c.d "silente", agita attraverso l'evocazione della capacità criminale dell'associazione mafiosa alla quale l'autore appartiene.
2.4. Pertanto non si rileva nessun vizio nella sentenza impugnata, che ha legittimamente riconosciuto il concorso delle due aggravanti.
2. Ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
Così deciso in Roma, il giorno 8 marzo 2024.
Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2024.
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