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Estorsione: violazione della libertà negoziale costituisce ingiusto profitto con danno al contraente-vittima

Estorsione

Cassazione penale sez. II, 04/07/2024, n.27764

Integra il reato di estorsione la condotta di chi, ingerendosi in un affare altrui, costringe il contraente-vittima ad una prestazione in violazione della propria autonomia e libertà negoziale. In tal caso, infatti, anche laddove la pretesa sia in qualche modo riferibile al patto originario (che nel caso in esame ne costituisce soltanto l'occasione), l'elemento dell'ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Ar.Ad., a mezzo del difensore di fiducia, ricorre avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli del 4 aprile 2023 con cui è stata confermata la condanna alla pena di anni otto di reclusione inflitta al ricorrente con sentenza del Tribunale di Napoli, in ordine al reato di concorso (con Ri.Ci.) in estorsione aggravata dalle persone riunite e dal metodo mafioso (con esclusione della recidiva contestata) ai danni di De.St. e Ra.Ni. Il ricorso è affidato ad otto motivi. 1.1. Con il primo motivo si deduce l'inosservanza degli arti:. 195, comma 4, e 203 cod. proc. pen., violazione dell'art. 191 cod. proc. pen. e vizio della motivazione (travisamento della prova) con riguardo alla testimonianza del Ra.Ni. e al contenuto delle intercettazioni telefoniche. Si lamenta che il giudice del merito abbia utilizzato, ai fini dell'affermazione di responsabilità, elementi non utilizzabili, quali informazioni assunte da fonte confidenziale e sommarie informazioni raccolte dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini (il riferimento è a quelle acquisite dalla persona offesa De.St.) su cui aveva riferito al processo il teste di p.g. Ru.. Né, al riguardo, potevano assumere rilievo le intercettazioni telefoniche a cui pure si era fatto riferimento, il cui contenuto era stato travisato non contenendo alcun riferimento utile alla vicenda de quo, emergendo un mero rapporto di conoscenza tra i due coimputati dovuto verosimilmente ad una collaborazione lavorativa nella compravendita di auto non affatto incompatibile con la condizione debitoria del primo verso il secondo: anzi dalle stesse intercettazioni risultava che, mentre era in corso la commercializzazione degli assegni rilasciati dalla società facente capo alle persone offese (che, per gran parte, sarebbero stati destinati a far fronte alla pretesa estorsiva), non vi fosse stato alcun contatto telefonico tra i due coimputati. La sentenza, poi, era contraddittoria in quanto aveva ignorato che secondo il racconto del Ra.Ni., il ricorrente aveva un debito di denaro nei confronti del Ri.Ci. e quest'ultimo, con la richiesta di denaro rivoltagli, avrebbe inteso recuperare il suo credito verso l'Ar.Ad. 1.2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione ed erronea applicazione dell'art. 629 cod. pen. con riguardo agli elementi integrativi di fattispecie (minaccia ed intimidazione delle vittime) e vizio di motivazione con riguardo alla testimonianza delle persone offese. Difettava l'indicazione del male ingiusto prospettato alle vittime che non poteva essere ravvisato nella richiesta del Ri.Ci. di corrispondere la maggior somma ritenuta giusta per il valore di mercato del locale commerciale oppure la restituzione di quanto da già versato, non traducendosi in una compressione della libertà negoziale. Né sul punto poteva valere il ragionamento del giudice del merito che aveva ravvisato tale limitazione nella circostanza dell'abusiva ingerenza del coimputato in un affare altrui. Né dalle testimonianze delle vittime - delle quali si riporta uno stralcio -emergeva lo stato di paura a cui pure si era fatto riferimento, avendo entrambe escluso di avere subito un'estorsione o di essere stati intimiditi e minacciati. Il timore che emergeva dalle dichiarazioni del Ra.Ni. - il cui contenuto era stato travisato - era solo quello derivante dall'alea propria delle attività imprenditoriali che nulla aveva a che vedere con le conseguenze emotive dovute a condotte minacciose tipiche del reato di estorsione. 1.3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell'art. 629 cod. pen. nella parte in cui si ritiene integrato l'ingiusto profitto e vizio di motivazione, nonché mancata assunzione di una prova decisiva consistente nelle dichiarazioni di Ra.Ni., commercialista che aveva seguito la vendita dell'attività commerciale e della madre della persona offesa De.St. Si lamenta di avere svalutato - sul rilievo dell'assenza di data certa e della sottoscrizione da parte degli acquirenti - la portata difensiva della scrittura privata depositata dall'imputato che dimostrava che l'importo pattuito per la vendita era di gran lunga superiore a quello individuato dalla Corte di merito. Del resto, la stessa persona offesa aveva dapprima confermato che l'importo pattuito era di 30.000,00 Euro e che, comunque, pur non ricordando con precisione, non avendo preso parte alla redazione della scrittura privata o alla trattativa per la cessione del locale, aveva riferito che la trattativa era stata condotta da suo fratello Ra.Ni. e dalla madre di De.St. Ciò avrebbe dovuto indurre la Corte d'Appello a disporre, ai sensi dell'art. 603 cod. proc. pen., l'esame dei due testimoni. E tanto più a fronte di due ipotesi alternative che avevano caratterizzato la vendita del locale: cessione del locale con le attrezzature per un corrispettivo di Euro 18.000,00 oppure del locale con la licenza, per l'importo ben superiore di Euro 40.000,00. 1.4. Con il quarto motivo si deduce il vizio dì motivazione con riguardo al diniego di riqualificare il fatto nell'alveo dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, stante l'assenza di prova sul carattere ingiusto della richiesta avanzata dall'imputato e di qualsiasi valutazione sull'atteggiamento psicologico tenuto da quest'ultimo. Si lamenta l'errata valutazione prospettica del motivo di appello posto dalla difesa: la Corte di merito aveva escluso la derubricazione assumendo l'assenza di prova dell'esistenza del credito che il coimputato avrebbe vantato, mentre la difesa faceva leva sulla possibilità che il ricorrente avesse agito nella convinzione di far valere un suo diritto in ragione degli accordi intervenuti tra le parti o secondo giustizia, soprattutto alla luce del fatto che al momento delle visite dell'imputato presso il ristorante non era stato ancora versato neppure l'importo complessivo dei 18.000,00 Euro che, secondo l'accusa, corrisponderebbe a quello pattuito, le dichiarazioni dei testi non erano precise sulla discrasia tra l'importo dovuto e quello richiesto, le persone offese non avevano partecipato alla trattativa o alla sottoscrizione del contratto. 1.5. Con il quinto motivo si lamenta il vizio di motivazione e travisamento della prova e del fatto con riguardo alle testimonianze delle persone offese in ordine all'aggravante speciale di cui all'art. 416-bis.l cod. pen. L'esclusione dell'aggravante speciale sotto il profilo dell'agevolazione di un'organizzazione di stampo camorristico sul rilievo che nessuno degli imputati risultasse inserito in un sodalizio di tal fatta ovvero fosse stato mai condannato per il delitto di cui all'art, 416-bis cod. pen., mal si conciliava con il riconoscimento del metodo, contraddittoriamente ricondotto all'esistenza e all'influenza di un clan camorristico per essere l'incontro avvenuto nella roccaforte del clan Ap. e che vi avrebbero partecipato personaggi intranei a detta compagine. Peraltro, il riferimento all'intimidazione derivante dal carattere notorio della fama sinistra degli Ap. era smentito dalle dichiarazioni dei testi, i quali avevano sempre negato di essere a conoscenza dell'esistenza di un'organizzazione camorristica nella zona e di essere stati intimiditi dalle modalità dell'incontro. 1.6. Con il sesto motivo si deduce la mancanza di motivazione in ordine al riconoscimento dell'aggravante delle persone riunite di cui al cpv. dell'art. 629 cod. pen. Si lamenta l'assenza di disamina del relativo motivo di appello (il terzo) con cui la difesa aveva censurato l'esistenza dell'aggravante. 1.7. Con il settimo motivo si denuncia l'erronea applicazione dell'art. 56 cod. pen. e vizio di motivazione. La Corte di merito aveva fatto riferimento, per asseverare l'ipotesi consumata, alla consegna dell'assegno, quale titolo di credito, non avvedendosi che si trattava di un assegno post datato che aveva alla base un accordo sul differimento della messa all'incasso, al cui rilascio non conseguiva alcuna deminutio patrimoni, da ravvisarsi al momento dell'incasso. Si segnala, poi, come la stessa sentenza impugnata a pag. 11 qualifichi il fatto come tentata estorsione. 1.8. Con l'ottavo motivo si deduce la violazione dell'art. 62-bis in riferimento all'art. 133 cod. pen. e motivazione apparente. Si era escluso il rilievo circostanziale degli indici difensivi sull'errato rilievo che si fosse fatto riferimento soltanto allo stato di incensuratezza dell'imputato, a fronte, invece, dell'indicazione di plurimi elementi favorevoli 2. Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto procuratore generale Flavia Alemi, con requisitoria del 19/96/2024, sul rilievo della manifesta infondatezza dei motivi, ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso va rigettato essendo i motivi non fondati e/o manifestamente infondati. 1-2-3-4. I primi quattro motivi di ricorso, attinenti alla sussistenza del reato estorsivo e alla corretta qualificazione giuridica del fatto, possono trattarsi congiuntamente e risultano infondati. Anzitutto va escluso che la Corte di merito abbia fondato l'affermazione di responsabilità su elementi di prova inutilizzabili. Dalla lettura delle sentenze di merito si ricava che il riferimento a quanto appreso da fonte confidenziale e al contenuto delle sommarie informazioni di una delle persone offese è esclusivamente dettato dalla necessità di spiegare l'origine dell'indagine e le ragioni che hanno poi portato la p.g. ad approfondire la vicenda relativa alla cessione, in favore del ricorrente, dell'attività commerciale di cui erano titolari De.St. e Ra.Ni. La prova di colpevolezza è stata, invece, ricavata dalle convergenti dichiarazioni delle persone offese su aspetti decisivi della vicenda negoziale che, alla luce della documentazione acquisita e delle indagini svolte su cui ha riferito il teste di p.g., hanno consentito di attribuire valenza estorsiva alla pretesa di una maggior somma esatta dagli imputati rispetto a quella inizialmente concordata tra le parti. Peraltro, avendo la polizia giudiziaria il potere-dovere di sviluppare le indagini sulla base di quanto appreso, non solo restano validi ed utilizzabili nel processo i risultati dell'attività investigativa così compiuta, ma deve considerarsi pienamente legittimo che il teste di p.g., nel corso della sua testimonianza, riferisca sulle circostanze che hanno condotto alle investigazioni e ai successivi sviluppi, così consentendo al giudice e alle parti di avere un quadro completo delle indagini e delle fonti di prova acquisite, anche al fine della verifica della genuinità delle relative acquisizione e dell'esercizio dei poteri istruttori agli stessi riconosciuti dall'ordinamento processuale. Ciò premesso, nessun vizio di legittimità è dato rinvenire nella motivazione della sentenza impugnata riguardo alla riconducibilità della vicenda nell'alveo della fattispecie estorsiva. Il giudice del merito, infatti, è correttamente partito dal dato costituito dall'accordo già concluso dalle persone offese con l'imputato avente ad oggetto la cessione da parte dell'Ar.Ad. dell'attività commerciale denominata "Pub Oxford", al prezzo di Euro 18.000,00. Quanto al contenuto dell'intesa si è precisato che, pur dinanzi alla prospettazione di una differente opzione di acquisto che prevedeva anche l'ipotesi della cessione del pub unitamente alla licenza ad un prezzo maggiore (per Euro 40.000,00), le persone offese si orientarono per l'acquisto della sola attività commerciale, in quanto erano già titolari, con la loro società, di licenza per il commercio. Da ciò ne consegue l'assenza di causale della successiva richiesta del coimputato di ottenere una somma di gran lunga maggiore e l'infondatezza della prospettazione che vuole ricondurre la vicenda alla differente ipotesi dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Anche se il ricorrente avesse messo in vendita il pub allo scopo di recuperare denaro per estinguere un debito vantato nei confronti del coimputato Ri., l'intervento di quest'ultimo nella vicenda - volto a mutarne le condizioni contrattuali - non avrebbe avuto alcuna lecita causale, in quanto, al di là dell'assenza di prova dell'esistenza di un credito da quest'ultimo vantato nei confronti del ricorrente, il Ri. non era parte di quell'accordo negoziale che, come detto, si era concluso ad altre condizioni. Con la conseguenza che la valenza liberatoria che la difesa assegna al dichiarato della p.o. (P.M.: "allora perché si è sentito costretto a dare questi soldi? Ra.Ni.: perché loro dicevano che Ar.Ad. gli doveva questi soldi e che il ristorante era pure loro") non varrebbe ad escludere l'estorsione. Del resto, una volta che le persone offese avevano aderito all'ipotesi negoziale base che non prevedeva la cessione pure della licenza, in quanto già ne disponevano tramite altra società che avrebbe rilevato l'attività (tanto che gli assegni furono tratti sul conto di quest'ultima), una ricostruzione che ancora sin dall'inizio la fissazione dì un prezzo così elevato non solo si pone in contrasto con quanto riferito dalle persone offese e gli accertamenti di p.g., ma risulta illogica alla luce anche delle cadenze temporali che registrano successivi pagamenti non coerenti con la misura dell'acconto già versato rispetto a quanto poi esagito. Peraltro, nessuna prova è stata allegata a conferma che l'imputato, pressato dai debiti vantati dal coimputato, si sia determinato a svendere la sua attività commerciale, salvo poi esigere - tramite il coimputato - una somma maggiore corrispondente al valore di mercato (dato anche questo indimostrato) di quanto oggetto di cessione. In tale contesto, pertanto, non sconta alcuna illogicità la motivazione della sentenza impugnata nell'avere disatteso il rilievo della documentazione della difesa che avrebbe dovuto dimostrare la conclusione tra le parti di un accordo più ampio di quello avente ad oggetto la sola cessione dell'attività commerciale. E tanto a prescindere dal rilievo, del tutto logico e confacente al regime probatorio dei contratti, dell'assenza di prova certa che detta scrittura privata sia mai intervenuta tra le parti, non risultando sottoscritta dalle persone offese e priva di data certa. Posta, quindi, l'assenza di causale della maggior somma pretesa, i giudici di merito risultano anche avere indicato una serie di convergenti elementi che avvalorano l'ipotesi estorsiva. Anzitutto, l'emissione degli ulteriori assegni si registra allorché vi è l'intromissione, priva di una valida ragione economica, del coimputato. Questi, poi, viene indicato come uno dei capi del clan Ap.; inoltre, si precisa che la richiesta conseguì ad una convocazione del Ra.Ni. al cospetto del Ri.Ci. e di altre persone armate, presso un'abitazione sita in un complesso edilizio che costituisce, notoriamente, la roccaforte del suddetto clan. Si tratta di modalità volte a corredare la richiesta proprio di quel metus che accompagna l'estrinsecazione del potere mafioso che al Ri.Ci. viene riconosciuto esercitare sul territorio. Con la conseguenza che privi di decisivo rilievo risultano i riferimenti difensivi al dichiarato della stessa p.o., la quale afferma di essersi ivi recato senza alcuna coartazione e che il Ri.Ci., nel corso del colloquio, abbia utilizzato toni garbati, trattandosi logicamente di una convocazione cui la p.o. non avrebbe potuto sottrarsi, in circostanze di luogo e di fatto ("in presenza di tre o quattro scagnozzi", così pag. 9), dimostrative dell'assenza di alcuna parità, per come confermato non solo dalla circostanza che il Ra.Ni. abbia comunque ammesso di avere avuto paura e il Ri.Ci. affermato che i soldi erano loro, ma soprattutto dal successivo adempimento svincolato, come detto, da valida causale. I giudici di merito, pertanto, risultano avere fatto corretta applicazione del principio di diritto affermato dalla Corte di legittimità, secondo cui integra il reato di estorsione la condotta di chi, ingerendosi in un affare altrui, costringe il contraente-vittima ad una prestazione in violazione della propria autonomia e libertà negoziale. In tal caso, infatti, anche laddove la pretesa sia in qualche modo riferibile al patto originario (che nel caso in esame ne costituisce soltanto l'occasione), l'elemento dell'ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune (Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana, Rv. 258168 - 01; Sez. 5, n. 9429 del 13/10/2016, dep. 2017, Mancuso, Rv. 269364 - 01, Sez. 2, n. 12434 del 19/02/2020, Di Grazia, Rv. 278998 - 01). In tale ambito, altrettanto correttamente si è escluso che l'imputato non fosse animato dal dolo estorsivo. I giudici di merito, infatti, con motivazione congrua ed aderente alle circostanze di fatto per come ricostruite sulla scorta di elementi di merito non scrutinabili in questa sede, hanno attribuito al ricorrente un ruolo concorsuale nella ingiusta pretesa avanzata dal coimputato (il quale risulta destinatario anche di uno degli assegni al riguardo emessi), essendosi attivato a tale fine, mediante condotte materiali consistite nel presentarsi ripetutamente presso il ristorante delle persone offese per esigere il "sovraprezzo" degli altri 22.000,00 Euro, "preparando il terreno alla successiva incursione del Ri.", presenziando all'incontro tra il coimputato ed il Ra.Ni., cui quest'ultimo partecipò per esservi stato convocato da persone presentatesi come "amici di Ar.Ad.", ossia dello stesso ricorrente (pag. 10). Del resto, l'avere approfittato dell'intervento sfornito di comprovata causale del Ri.Ci. al fine di regolare i rapporti con quest'ultimo non integrerebbe il dolo di esercizio arbitrario, in quanto la minaccia esercitata dal terzo è stata diretta ad ottenere una pretesa sfornita di qualsiasi tutela giuridica. Peraltro, per completezza, con riguardo al paventato travisamento del contenuto delle intercettazioni in cui sarebbe incorsa la Corte di merito nel ritenere - contrariamente a quanto avrebbe evidenziato il primo giudice secondo cui i dialoghi si riferirebbero soltanto ad incombenze di lavoro - che l'imputato operava come luogotenente in relazione agli affari del Ri.Ci. e che tali funzioni sarebbero state svolte anche in relazione alla cessione del pub, va osservato quanto segue: dalla lettura delle cinque pagine (non numerate) della sentenza di primo grado -richiamata da quella impugnata e le cui motivazioni costituiscono un unico corpo argomentativo ricorrendo l'ipotesi della ed. doppia conforme - dedicate alla trascrizione dei dialoghi (avvenuti in costanza di arresti domiciliari del Ri.Ci.), vi sono due passaggi seguiti dalle trascrizioni dei dialoghi in cui si precisa che "dalle telefonate che seguono emerge la frenetica attività posta in essere dall'Ar.Ad. in favore del coimputato che rappresenta un ulteriore conferma dell'interessamento di quest'ultimo in favore del primo nella vicenda legata alla cessione del pub" e che "gli assegni sono stati effettivamente consegnati a Ri.Ci. il quale li ha, a sua volta, commercializzati..". La censura, pertanto, si rivela aspecifica, omettendo il ricorrente di confrontarsi col contenuto della fonte di prova in relazione alla quale si denuncia il travisamento. 5. Il quinto motivo è infondato. Al riguardo, le sentenze di merito hanno fatto corretta applicazione del principio di diritto affermato dalla Corte di legittimità, secondo cui ricorre la circostanza aggravante dell'utilizzo del metodo mafioso, quando l'azione incriminata, posta in essere evocando la contiguità ad una associazione mafiosa, sia funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune (Sez. 2, n. 39424 del 9/09/2019, Pagnotta, 277222 - 01; Sez. 5, n. 14867 del 26/01/2021, Marciano, Rv. 281027 - 01). La circostanza che la vittima abbia espressamente riferito di essere stata costretta ad accettare la pretesa sulla scorta del mero dichiarato del Ri.Ci. che affermava che era creditore dell'imputato e che il ristorante era pure loro, dà ragionevolmente conto di come tale carica intimidatoria aggiuntiva sia stata anche percepita dalla p.o., la quale, al di là del tentativo di ridimensionare la vicenda, non risulta avere benché minimamente contrastato la richiesta, in aderenza con il dato, pure citato in sentenza, che nessuna denunzia venne presentata da entrambe le persone offese, costrette a riferire sull'accaduto soltanto perché stimolate dalla p.g. che era venuta a conoscenza dei fatti aliunde. Con la conseguenza che nessuna illogicità sconta la sentenza impugnata per avere ricondotto il tentativo delle persone offese di minimizzare i fatti ad un contegno espressivo del perdurante timore in loro indotto dalla figura del Ri.Ci., pericoloso leader del clan Ap.. La piena consapevolezza del ricorrente del proposito criminoso realizzato dal coimputato e l'essersi direttamente prestato a fungere da trait union alla disposta convocazione, anche in ragione del ruolo di luogotenente del Ri.Ci. che viene restituito dal compendio intercettivo, dà altresì conto della consapevolezza della circostanza, la quale, in virtù della natura oggettiva, si applica a tutti i concorrenti nel reato, ancorché le azioni di intimidazione e minaccia siano state materialmente commesse solo da alcuni di essi (Sez. 2, n. 32564 del 12/04/2023, Bisogni, Rv. 285018 - 01). Nessun rilievo, infine, assume la circostanza che i protagonisti della vicenda non annoverino condanna per la partecipazione ad organizzazione di stampo camorristico, trattandosi di condizione necessaria esclusivamente per la contestazione dell'aggravante di cui all'art. 629, comma 2, in relazione all'art. 628, comma 3, n. 3 cod. pen. 6. Il sesto motivo è manifestamente infondato. La sentenza impugnata risulta corredata da congrua motivazione, essendosi precisato a pag. 11 che - per come concordemente riferito dalle persone offese -la convocazione presso l'abitazione di Ri.Ci. venne effettuata da parte di soggetti terzi e che, nel corso della conversazione tra quest'ultimo ed il Ra.Ni., cui presenziava anche il ricorrente, erano presenti tre o quattro persone, sicché la pretesa estorsiva si è arricchita della simultanea presenza e del supporto di una molteplicità di individui, per come anche ricavato dal chiaro riferimento alle modalità della pretesa espressamente riferita dal Ri.Ci. con l'uso del plurale. Né può poi scindersi, come vorrebbe la difesa, l'incidenza causale della presenza dell'imputato rispetto a quella degli altri astanti ai fini dell'integrazione dell'aggravante. La presenza della persona offesa al cospetto del Ri.Ci. si deve, infatti, anche all'imputato, il quale, per come precisato dalla sentenza impugnata, aveva "arato il terreno" affinché ciò accadesse. 7. Il settimo motivo è infondato. Nel caso in esame, il pagamento di quanto preteso è avvenuto (nel caso del precedente di questa Corte indicato in sentenza e ripreso dalla difesa a sostegno dell'ipotesi tentata, vi era stato il rifiuto a consegnare assegni post datati). L'estorsione è stata ravvisata nella lesione della propria libertà negoziale; a nulla rileva, quindi, che il contraente-vittima sarebbe stato costretto ad un pagamento effettuato con un titolo illegale, privo di efficacia esecutiva. Peraltro, va evidenziato che, a norma dell'art. 31 del R.D. n. 1736/1933, la postdataziorie dell'assegno non determina di per sé la nullità del titolo bancario, ma solamente la nullità del patto di post-datazione, per contrarietà a norme imperative poste a tutela della buona fede e della regolare circolazione dei titoli di credito, permettendo così al creditore di esigere immediatamente il suo pagamento. 8. L'ottavo motivo è manifestamente infondato. L'assenza di precedenti penali non costituisce l'elemento fondante della motivazione, in quanto l'assenza di rilievo degli altri elementi indicati a corredo della concessione delle circostanze ex art. 62-bis cod. pen. da parte della difesa si rinviene nell'indicazione di elementi di disvalore del tutto continenti ed attinenti alla gravità del fatto ed alla capacità a delinquere in ragione delle modalità del fatto e della mancata restituzione di qualsiasi somma in favore della persona offese per come precisato dalla sentenza impugnata nella ricostruzione della valenza estorsiva della vicenda. 9. In conclusione, il ricorso va rigettato. Consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso, il 4 luglio 2024. Depositato in Cancelleria l'11 luglio 2024.
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