RITENUTO IN FATTO
Ma.Gi., per il tramite del proprio procuratore speciale, impugna la sentenza in data 15/11/2023 della Corte di appello di Potenza, che ha confermato la sentenza in data 20/06/2019 del Tribunale di Lagonegro, che lo aveva condannato per il reato di estorsione.
Deduce:
1. Vizio di motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione. Mancanza dell'elemento oggettivo del reato.
Il ricorrente premette che con specifico motivo di appello aveva dedotto la possibilità che nel caso di specie si configurasse una causa di giustificazione alla condotta dell'imputato, da rinvenirsi nel suo stato d'indigenza.
Lamenta, dunque, che la Corte di appello ha rigettato il motivo facendo un laconico rinvio alla sentenza di primo grado, del tutto carente dei requisiti legittimanti la motivazione per relationem.
Aggiunge che la Corte di appello ha erroneamente ritenuto che la richiesta di denaro fosse stata accompagnata da violenza e/o da minacce nei confronti della nonna (Li.Ro.) e della madre (Le.Do.), là dove, invece, la richiesta avveniva in maniera pacifica.
Le due donne e la badante della Li.Ro. (Fo.Ca.) - specifica il ricorrente - hanno dichiarato che il denaro veniva richiesto perché Ma.Gi. non lavorava e non poteva sopravvivere, così che veniva sollecitato lo spirito solidaristico e anche il dovere giuridico degli ascendenti ad aiutare il discendente che non disponga dei mezzi di prima necessità.
Si aggiunge ancora che le donne davano delle somme di denaro spontaneamente, senza coartazione e al solo fine di aiutare Ma.Gi.
Assume che la Corte di appello si è adagiata sulla sentenza di primo grado, con una motivazione per relationem priva di considerazione in merito al caso concreto e agli argomenti sviluppati con l'atto di appello.
2. Vizio di motivazione in relazione alla mancanza dell'elemento soggettivo del reato di estorsione.
Secondo il ricorrente, Ma.Gi. agiva ritenendo di fare valere un proprio diritto, fondato sull'obbligo giuridico dei famigliari di fornire i mezzi di sussistenza ai discendenti che se ne trovino privi. Osserva che tale stato d'indigenza era noto alle due donne che, infatti, elargivano spontaneamente delle piccole somme di denaro a Ma.Gi. affinché provvedesse ai propri bisogni.
Da ciò - secondo la difesa - si evince l'assenza dell'elemento psicologico o, comunque, la configurabilità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e non quello di estorsione.
3. Vizio di motivazione in relazione ai mezzi di prova posti a base dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione.
A tale riguardo si ribadisce che la Corte di appello ha rigettato con un apodittico rinvio per relationem il motivo di appello con cui si censurava la valutazione delle prove.
Osserva, dunque, come il giudice di primo grado abbia valutato in maniera illogica e contraddittoria il compendio probatorio, non considerando che la madre di Ma.Gi. aveva dichiarato che dava i soldi al figlio per aiutarlo e che l'imputato non aveva mai usato la forza fisica, non mettendole mai le mani addosso.
Quanto alle dichiarazioni rese dalla nonna di Ma.Gi., acquisite mediante lettura, in quanto nel frattempo deceduta, la difesa assume che la donna era affetta da demenza che compromettevano le capacità cognitive e, con esse, l'attendibilità del suo racconto.
Si assume la violazione del ragionevole dubbio.
4. Vizio di motivazione per l'esclusione della causa di non punibilità di cui all'art. 649 cod. pen.
Secondo la difesa, la Corte di appello ha rigettato con motivazione frettolosa il motivo con cui si deduceva la sussistenza della causa di non punibilità di cui all'art. 649 cod. pen., in quanto non applicabile ai reati di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione, in ciò contraddicendo la sentenza di primo grado che – invece - l'aveva escluso sul presupposto che Ma.Gi. aveva fatto ricorso alla forza fisica.
Si sostiene, dunque, che ricorrono i presupposti richiesti dall'art. 649 cod. pen., in quanto - per come emerge dalle testimonianze - Ma.Gi. non ha fatto ricorso alla forza fisica o, comunque, non si era raggiunta la prova certa a tale riguardo, con la conseguente prevalenza del principio in dubio pro reo.
5. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla recidiva, reiterata e specifica.
Secondo il ricorrente la recidiva è stata ritenuta sulla base di un automatismo temporale che non ha tenuto conto del fatto che la precedente estorsione risaliva al 2006 e che l'imputato ha agito perché bisognoso e con modalità minacciose, ma mai violente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile perché propone questioni non consentite in sede di legittimità e perché manifestamente infondato.
1.1. La manifesta infondatezza attiene alla diffusamente dedotta illegittimità della motivazione della sentenza della Corte di appello, che si sostiene sia stata assunta per relationem, sulla base di un acritico rinvio alla sentenza di primo grado.
L'assunto difensivo non trova riscontro nella lettura della sentenza impugnata, dove si rinviene una specifica e autonoma risposta ai motivi di gravame, pur accompagnata dalla condivisione alle argomentazioni del giudice di primo grado, rimarcando come l'atto d'impugnazione si collocasse ai limiti dell'ammissibilità, per la sua connotazione meramente reiterativa delle medesime questioni esposte davanti al tribunale e da questo risolte con motivazione approfondita e conforme ai principi di diritto regolanti la materia delle questioni trattate.
A fronte di una tale evenienza, questa Corte ha già avuto di affermare che "Nel giudizio di appello, è consentita la motivazione "per relationem" alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall'appellante non contengano elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata", (Sez. 2, Sentenza n. 30838 del 19/03/2013, Autieri, Rv. 257056-01; Sez. 4, Sentenza n. 38824 del 17/09/2008, Raso, 14/10/2008, Rv. 241062-01).
2. Tutti i restanti motivi d'impugnazione sono la pedissequa riproduzione dei motivi di gravame, puntualmente risolti dalla Corte di appello.
La Corte di appello, invero, ha spiegato:
a) che non poteva ritenersi configurata una causa di giustificazione nella condotta violenta di chi pretenda l'adempimento di un'obbligazione naturale, in ciò richiamando la sentenza di questa Corte, n. 3498 del 30/11/2018 (Sez. 2, dep. il 2019, D., Rv. 274897-01).
Con il primo motivo d'impugnazione il ricorrente non insiste sulla sussistenza di una causa di giustificazione, ma sostiene che il caso in esame è affatto diverso, atteso che la richiesta di denaro è avvenuta pacificamente e la dazione è stata spontanea, così che mancherebbero sia l'elemento oggettivo, sia l'elemento soggettivo del reato;
b) tale obiezione viene poi ulteriormente ribadita con il secondo e con il terzo motivo d'impugnazione che - oltre a essere meramente e pedissequamente reiterativi degli identici motivi esposti con l'atto di appello - offrono un'interpretazione difensivamente orientata delle emergenze processuali, trascurando di considerare i plurimi elementi evidenziati nella doppia sentenza conforme, convergenti nel senso che le richieste erano senz'altro accompagnate da violenza e da minacce.
In tal senso, invero, convergevano le dichiarazioni di Li.Ro., di Le.Do. e di Fo.Ca.
L'assunto difensivo secondo cui le richieste di denaro erano pacifiche e le dazioni di denaro erano spontaneamente elargite dalle donne si fonda sulla estrapolazione e sull'isolamento di singoli frammenti di dichiarazioni, con cui viene di fatto eluso ogni reale confronto con il compendio probatorio, unitariamente e complessivamente valutato dai giudici.
I giudici della doppia sentenza conforme, inoltre, hanno dato risposta alla deduzione difensiva circa le capacità cognitive della nonna di Ma.Gi., osservando come la stessa - ancorché ammalata e allettata - risultasse vigile, orientata nel tempo e nello spazio e in grado di valutare fatti e circostanze.
Il ricorrente resiste a tali argomentazioni sulla base di mere congetture che vogliono ricavare una indimostrata perdita delle capacità cognitive sul solo dato dell'età della donna.
c) Quanto alla qualificazione giuridica del fatto, sarà sufficiente evidenziare come non si rinvenga alcuna norma che ponga a carico degli ascendenti un obbligo di mantenimento in favore di un discendente adulto, ultraquarantenne, non convivente, come nel caso in esame.
Da ciò discende che manca in radice ogni possibilità di ricondurre il fatto all'ipotesi dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, mancando un preteso diritto astrattamente azionabile in giudizio.
Quanto all'asserito convincimento di Ma.Gi. di far valere il proprio diritto al mantenimento, va osservato che tale assunto è rimasto al livello di mera deduzione astratta, visto che la difesa non ha mai allegato elementi concreti, idonei a provare l'assunto.
d) Quanto, alla possibilità di ritenere configurata la causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 649 cod. pen., la Corte di appello ha correttamente menzionato l'orientamento di questa Corte, cui intende darsi seguito, in forza del quale "I reati consumati di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione sono esclusi dall'area di applicabilità della previsione dell'art. 649 cod. pen., pur se posti in essere senza violenza alle persone, bensì con la sola minaccia. (In motivazione, la Corte ha precisato che la causa di non punibilità per "ogni altro diritto contro il patrimonio" commesso con minaccia alle persone si applica solo alle ipotesi diverse da quelle nominativamente previste, rispetto alle quali non è richiamata la distinzione tra minaccia e violenza", (Sez. 6, Sentenza n. 26619 del 05/04/2018, Rv. 273557-01; Sez. 2, Sentenza n. 28141 del 15/06/2010, Stefoni, Rv. 247937-01).
La motivazione, diversamente da quanto assunto dal ricorrente, non risulta in contrasto con la motivazione del giudice di primo grado, che ha rigettato la relativa istanza osservando che i fatti erano commessi con violenza.
La motivazione cui ha fatto ricorso la Corte di appello, invero, assorbe le ragioni addotte dal Tribunale, in quanto di portata più ampia, escludendo in radice la possibilità di ritenere configurata la causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 649 cod. pen. in relazione al reato di cui all'art. 629 cod. pen. anche quando commessi con la sola minaccia e non con violenza.
Peraltro, nel caso in esame, le estorsioni sono state esercitate anche con violenza sulle persone, visto che le stesse vittime del reato hanno riferito come le reiterate (plurime) condotte di Ma.Gi., fossero state talora accompagnate da spintoni e da schiaffi.
Il ricorrente sostiene che gli spintoni e lo strattonamento non costituiscono violenza fisica.
Già il tribunale ha evidenziato come tale assunto costituisca solo un'interpretazione soggettiva della difesa circa la nozione di violenza, laddove – invece - l'esercizio di una forza fisica - di qualunque natura - rientra appieno nella nozione di violenza.
A ciò si aggiunga che – inoltre - la difesa sostiene che le estorsioni si sono realizzate con la sola minaccia perché lo strattonamento e la spinta non costituiscono violenza, trascurando di considerare che Ma.Gi. ha anche schiaffeggiato la nonna in alcune occasioni.
Anche in questo caso, dunque, le deduzioni risultano parziali, difensivamente orientate e prive di riscontro con la motivazione intesa unitariamente considerata.
e) con riguardo alla recidiva, infine, la Corte di appello e il tribunale hanno evidenziato che i precedenti penali - plurimi e non risalenti - rimarcano l'accentuata pericolosità derivante dall'ulteriore commissione del reato in esame, così facendo corretta applicazione del principio di diritto a mente del quale ai fini della rilevazione della recidiva, intesa quale sintomo di un'accentuata pericolosità sociale dell'imputato e non come mera descrizione dell'esistenza a suo carico di precedenti penali per delitto, la valutazione del giudice non può fondarsi esclusivamente sulla gravità dei fatti e sull'arco temporale della loro realizzazione, ma deve esaminare in concreto, in base ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen., il rapporto esistente tra il fatto per cui si procede e le precedenti condanne, verificando se e in qual misura la pregressa condotta criminosa sia indicativa di una perdurante inclinazione al delitto, che abbia influito quale fattore criminogeno per la commissione del reato "sub iudice", (Sez. 2 - , Sent.)
3. Va, dunque, rilevato come tutti i motivi di ricorso si risolvano in una valutazione delle risultanze processuali alternativa a quella ritenuta dai giudici di merito e, in quanto tale, non è scrutinabile in sede di legittimità, atteso che il compito demandato dal legislatore alla Corte di cassazione - per quanto qui d'interesse - non è quello di stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione dei fatti, quello di condividerne la giustificazione. Il compito del giudice di legittimità è quello di verificare la conformità della sentenza impugnata alla legge sostanziale e alla processuale, cui si aggiunge il controllo sulla motivazione che, però, è restrittivamente limitato alle ipotesi tassative della carenza, della manifesta illogicità e della contraddittorietà. Con l'ulteriore precisazione che la carenza va identificata con la mancanza della motivazione per difetto grafico o per la sua apparenza; che l'illogicità deve essere manifesta - ossia individuabile con immediatezza - e sostanzialmente identificabile nella violazione delle massime di esperienza o delle leggi scientifiche, ossia quando sono disancorate da criteri oggettivi di valutazione, e trascendono in valutazioni soggettive e congetturali, insuscettibili di verifica empirica; la contraddittorietà si configura quando la motivazione si mostri in contrasto - in termini di inconciliabilità assoluta - con atti processuali specificamente indicati dalla parte e che rispetto alla struttura argomentativa abbiano natura portante, tale che dallo loro eliminazione derivi l'implosione della struttura argomentativa impugnata.
Nulla di tutto ciò si rinviene nel motivo in esame, visto che la Corte di appello ha fatto ricorso a una motivazione adeguata, logica e non contraddittoria nel dare risposta ai quesiti svolti con l'atto di gravame e oggi pedissequamente reiterati con il ricorso, senza alcun reale confronto con le argomentazioni della sentenza impugnata.
Tanto vale a rilevare il vizio di aspecificità, che si configura non solo nel caso della indeterminatezza e genericità, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 comma 1 lett. c), all'inammissibilità (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, Rv. 268823; Sez. 2, Sentenza n. 11951 del 29/01/2014 Rv. 259425, Lavorato; Sez. 4, 29/03/2000, n. 5191, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, 30/09/2004, n. 39598, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, 03/07/2007, n. 34270, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 3, 06/07/2007, n. 35492, Tasca, Rv. 237596).
4. Quanto esposto porta alla declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione, cui segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 9 ottobre 2024.
Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2024.