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Reati contro il patrimonio

Usura: sull'aggravante dello stato di bisogno

Usura: sull'aggravante dello stato di bisogno

Cassazione penale sez. II, 01/10/2013, n.709

In tema di usura, lo stato di bisogno in cui deve trovarsi la vittima per integrare la circostanza aggravante di cui all'art. 644, comma 5 n. 3 c.p. può essere di qualsiasi natura, specie e grado e può quindi derivare anche dall'aver contratto debiti per il vizio del gioco d'azzardo, non essendo richiesto dalla norma incriminatrice che il predetto stato presenti connotazioni che lo rendano socialmente meritevole.

Norme di riferimento

Art. 216 legge fallimentare -Bancarotta Fraudolenta

È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che:

1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;

2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

La stessa pena si applica all'imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.

È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.

Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La Corte d'appello di Lecce, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale della stessa città in composizione monocratica, che in data 22 giugno 2011 aveva dichiarato l'odierno ricorrente colpevole di usura continuata (fatti commessi in (OMISSIS)), condannandolo alla pena ritenuta di giustizia. 2. Avverso tale provvedimento, l'imputato (con l'ausilio di un difensore iscritto nell'apposito albo speciale) ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1: 1 - inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 644 c.p. come sostituito dalla L. n. 108 del 1996, nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e violazione dell'art. 192 c.p.p. (lamentando l'inadeguatezza degli elementi valorizzati in motivazione ai fini dell'affermazione di responsabilità, la vaghezza delle dichiarazioni della p.o. nel ricostruire date ed importi asseritamente caratterizzanti il denunciato rapporto usurario, e conseguentemente la non configurabilità di un vantaggio usurario, non essendo documentata la necessaria sproporzione tra le reciproche prestazioni); 2 - inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 644 c.p. come sostituito dalla L. n. 108 del 1996, nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (lamentando questa volta l'insussistenza del necessario stato di bisogno, avendo il L. avuto bisogno di denaro in quanto dedito al gioco d'azzardo). Ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata con ogni conseguente statuizione. 3. All'odierna udienza pubblica, dopo il controllo della regolarità degli avvisi di rito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, e questa Corte Suprema ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è, nel suo complesso, infondato e va, pertanto, rigettato. 1. E' necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di legittimità, delineati dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, che, a parere di questo collegio, la predetta novella non ha comportato la possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un'indagine sul discorso giustificativo della decisione finalizzata a sovrapporre una propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare l'adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sottolineare il suo convincimento. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali può, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il cd. travisamento della prova, purchè siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato. 1.1. L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, poi, deve risultare di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere tuttora condivise, Cass. pen., Sez. un., n. 24 del 24 novembre 1999, Spina, rv. 214794; Sez. un., n. 12 del 31 maggio 2000 n. 12, Jakani, rv. 216260; Sez. un., n. 47289 del 24 settembre 2003, Petrella, rv. 226074). A tal riguardo, devono tuttora escludersi la possibilità di "un'analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti, nonchè i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi" (Cass. pen., sez. 6, n. 14624 del 20 marzo 2006, Vecchio, rv. 233621; conforme, sez. 2, n. 18163 del 22 aprile 2008, Ferdico, rv. 239789), e la possibilità per il giudice di legittimità di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass. pen., sez. 6, n. 27429 del 4 luglio 2006, Lobriglio, rv. 234559; sez. 6, n. 25255 del 14 febbraio 2012, Minervini, rv. 253099). 1.2. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), intenda far valere il vizio di "travisamento della prova" (consistente nell'utilizzazione di un'informazione inesistente o nell'omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisività nell'ambito dell'apparato motivazionale sottoposto a critica) deve, inoltre, a pena di inammissibilità (Cass. pen., sez. 1, n. 20344 del 18 maggio 2006, Salaj, rv. 234115; sez. 6, n. 45036 del 2 dicembre 2010, Damiano, rv. 249035): (a) identificare specificamente l'atto processuale sul quale fonda la doglianza; (b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata; (c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonchè dell'effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento; (d) indicare le ragioni per cui l'atto invocato asseritamente inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato. 1.2.1. In proposito, può ritenersi ormai consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, il principio della cd. "autosufficienza del ricorso", inizialmente elaborato dalle Sezioni civili di questa Corte Suprema. Valorizzando dapprima la formulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (a norma del quale le sentenze pronunziate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per Cassazione: "(...) 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio"; la disposizione stabilisce attualmente, all'esito delle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, che le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione "(...) 5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti"), ed attualmente la formulazione (introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006) dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a norma del quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità: "(...) 6) la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda"), si è osservato che il ricorso per cassazione deve ritenersi ammissibile in generale, in relazione al principio dell'autosufficienza che lo connota, quando da esso, pur mancando l'esposizione dei motivi del gravame che era stato proposto contro la decisione del giudice di primo grado, non risulti impedito di avere adeguata contezza, senza necessità di utilizzare atti diversi dal ricorso, della materia che era stata devoluta al giudice di appello e delle ragioni che i ricorrenti avevano inteso far valere in quella sede, essendo esse univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene riferito circa il contenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che ad essa vengono rivolte (Cass. civ. sez. 2, 2 dicembre 2005, n. 26234, rv. 585217; sez. lav., 17 agosto 2012, n. 14561, rv. 623618). Tenuto conto dei principi e delle finalità complessivamente sottesi al giudizio di legittimità, si è ritenuto che "la teoria dell'autosufficienza del ricorso elaborata in sede civile debba essere recepita e applicata anche in sede penale con la conseguenza che, quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti specificamente indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato già dedotto in precedenza), posto che anche in sede penale - in virtù del principio di autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato - deve ritenersi precluso a questa Corte l'esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all'evidenza dalla stessa articolazione del ricorso" (Cass. pen., sez. 1, 18 marzo - 22 aprile 2008, n. 16706, rv. 240123; sez. 1, 22 gennaio - 12 febbraio 2009, n. 6112, rv. 243225; sez. 5, 22 gennaio - 26 marzo 2010, n. 11910, rv. 246552, per la quale è inammissibile il ricorso per cassazione che deduca il vizio di manifesta illogicità della motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto, così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze; sez. 6, 8-26 luglio 2010, n. 29263, rv. 248192, per la quale il ricorso per cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto è alla stessa precluso; sez. 2, 20 marzo - 27 giugno 2012, n. 25315, rv. 253073, per la quale in tema di ricorso per cassazione, è onere del ricorrente, che lamenti l'omessa o travisata valutazione dei risultati delle intercettazioni effettuate, indicare l'atto asseritamene affetto dal vizio denunciato, curando che esso sia effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità o anche provvedendo a produrlo in copia nel giudizio di cassazione). 1.3. Il giudice di legittimità ha, ai sensi del novellato art. 606 c.p.p., il compito di accertare (Cass. pen., sez. 6, n. 35964 del 28 settembre 2006, Foschini ed altro, rv. 234622; sez. 3, n. 39729 del 18 giugno 2009, Belloccia ed altro, rv. 244623; sez. 5, n. 39048 del 25 settembre 2007, Casavola ed altri, rv. 238215; sez. 2, n. 18163 del 22 aprile 2008, Ferdico, rv. 239789): (a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra individuati); (b) la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve essere tale da disarticolare l'intero ragionamento del giudicante o da determinare almeno una complessiva incongruità della motivazione); (c) l'esistenza di una radicale incompatibilità con l'iter motivazionale seguito dal giudice di merito e non di un semplice contrasto (non essendo il giudice di legittimità obbligato a prendere visione degli atti processuali anche se specificamente indicati, ove non risulti detto requisito); (d) la sussistenza di una prova omessa o inventata, e del cd. "travisamento del fatto", ma solo qualora la difformità della realtà storica sia evidente, manifesta, apprezzabile ictu oculi ed assuma anche carattere decisivo in una valutazione globale di tutti gli elementi probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non è sindacabile in sede di legittimità se non manifestamente illogico e, quindi, anche contraddittorio). 1.4. Anche il giudice d'appello non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell'impugnazione, giacchè le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione effettuata (per tutte, Cass. pen., sez. 6, n. 1307 del 26 settembre 2002, dep. 14 gennaio 2003, Delvai, rv. 223061). 1.4.1. In presenza di una doppia conforma affermazione di responsabilità, va, peraltro, ritenuta l'ammissibilità della motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell'effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall'appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate. In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicchè le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Cass. pen., sez. 2, n. 1309 del 22 novembre 1993, dep. 4 febbraio 1994, Albergamo ed altri, rv. 197250; sez. 3, n. 13926 del 1 dicembre 2011, dep. 12 aprile 2012, Valerio, rv. 252615). 1.5. Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione "oltre ogni ragionevole dubbio", presente nel testo novellato dell'art. 533 c.p.p. quale parametro cui conformare la valutazione inerente all'affermazione di responsabilità dell'imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell'icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale. Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacchè, in precedenza, il "cagionevole dubbio" sulla colpevolezza dell'imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2, sicchè non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da essere già stata adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema - per tutte, cfr. Cass. pen., Sez. un., n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, rv. 222139 -, e solo successivamente recepita nel testo novellato dell'art. 533 c.p.p.), secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell'imputato (cfr. Cass. pen., sez. 2, n. 19575 del 21 aprile 2006, Serino ed altro, rv. 233785; sez. 2, n. 16357 del 2 aprile 2008, Crisiglione, rv. 23979; sez. 2, n. 7035 del 9 novembre 2012, dep. 13 febbraio 2013, De Bartolomei ed altro, rv. 254025). 1.6. La giurisprudenza di questa Corte Suprema è, inoltre, orientata nel senso dell'inammissibilità, per difetto di specificità, del ricorso presentato prospettando vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa (Cass. pen., sez. 6, n. 32227 del 16 luglio 2010, T., rv. 248037: nella fattispecie il ricorrente aveva lamentato la "mancanza e/o insufficienza e/o illogicità della motivazione" in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari posti a fondamento di un'ordinanza applicativa di misura cautelare personale; conforme, sez. 6, n. 800 del 6 dicembre 2011, dep. 12 gennaio 2012, Bidognetti ed altri, rv. 251528). Invero, l'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili per "mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame"; la disposizione, se letta in combinazione con l'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), (a norma del quale è onere del ricorrente "enunciare i motivi del ricorso, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta") evidenzia che non può ritenersi consentita l'enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente di specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a una pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata. Il principio è stato più recentemente accolto anche da questa sezione, a parere della quale "E' inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso nel quale siano prospettati vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se le censure siano riferite alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a più di uno tra tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della motivazione oggetto di gravame" (Sez. 2, n. 31811 dell'8 maggio 2012, Sardo ed altro, rv. 254329). Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità, il che rende il ricorso inammissibile. 1.7. Infine, secondo altro consolidato orientamento di questa Corte Suprema (per tutte, Sez. 4, sentenza n. 15497 del 22 febbraio - 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. 6, sentenza n. 34521 del 27 giugno - 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), è inammissibile per difetto di specificità il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al più con l'aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti. 1.8. Alla luce di queste necessarie premesse va esaminato l'odierno ricorso. 2. Il primo motivo è generico e manifestamente infondato. 2.1. Se, da un lato, il ricorrente non documenta alcun travisamento, dall'altro la Corte di appello, con rilievi esaurienti, logici, non contraddittori, e pertanto incensurabili in questa sede, ha compiutamente indicato (f. 5 ss.) le ragioni poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità, con rilievi cui il ricorrente non ha opposto alcunchè di decisivo, se non una personale rivisitazione dei fatti di causa, in parte fondata su proprie ed indimostrate congetture. 3. Il secondo motivo è infondato. 3.1. Questa Corte Suprema (Sez. 2, sentenza n. 43713 dell'11 novembre - 10 dicembre 2010, CED Cass. n. 248974) ha già chiarito che, in tema di usura, lo stato di bisogno va inteso non come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo che, limitando la volontà del soggetto, lo induca a ricorrere al credito a condizioni usurarie, non assumendo alcuna rilevanza nè la causa di esso, nè l'utilizzazione del prestito usurario. Si è anche precisato (Sez. 2, sentenza n. 40526 del 12 ottobre - 8 novembre 2005) CED Cass. n. 232667) che lo stato di bisogno in cui deve trovarsi la vittima può essere di qualsiasi natura, specie e grado, e quindi può essere determinato anche da debiti contratti per il vizio del gioco d'azzardo, non essendo richiesto dalla norma incriminatrice alcun requisito. 3.2. Ed invero, lo stato di bisogno oggi integrante circostanze aggravante speciale del delitto di usura (art. 644, comma 5, n. 3), ed in precedenza (prima delle modifiche introdotte dalla L. n. 108 del 1996) necessario ai fini dell'integrazione della stessa materialità del reato di usura, consiste, sotto il profilo soggettivo, in una particolare condizione psicologica, da qualsiasi causa determinata, in presenza della quale il soggetto passivo subisce una limitazione nella volontà di autodeterminazione, mentre, sotto il profilo obiettivo, esso può essere di qualsiasi natura, specie e grado, e può essere indifferentemente determinato da cause incolpevoli oppure da prodigalità od altre colpe inescusabili, e quindi, tra l'altro, può derivare anche dalla necessità di soddisfare un vizio (come quello del gioco d'azzardo), non essendo richiesto dalla norma incriminatrice alcun requisito di meritevolezza del bisogno considerato. Non a caso, sia pure in riferimento alla precedente formulazione dell'art. 644 c.p., la Relazione al progetto definitivo del codice penale osservava che, nel delitto di usura, "non vi è ragion di avere riguardo alla moralità del soggetto passivo, giacchè si punisce non per tutelare i privati interessi di costui, ma per reprimere, nell'interesse pubblico, l'usura che non cessa di essere tale solo perchè esercitata a danno, anzichè di uno sventurato, d'un prodigo o di un vizioso". L'art. 644 c.p. ha, quindi, voluto colpire il disvalore di una condotta considerata dal legislatore come una grave forma di parassitismo, causa di vero e proprio allarme in una società civile, ed è per questo che non può e non deve rilevare la causa che ha determinato il bisogno e la relativa menomazione psicologica persegue; d'altro canto, l'usuraio è considerato persona socialmente nociva, che non cessa di essere tale quale che sia la natura o la causa del bisogno del creditore. Lo stato di bisogno della vittima dell'usura (prima necessario ai fini dell'integrazione tout court della materialità del reato; oggi previsto come mera circostanza aggravante speciale) sussiste, pertanto, anche quando l'offeso abbia inteso insistere negli affari al di fuori di ogni razionale criterio imprenditoriale, o coltivare un proprio vizio, come quello del gioco. Va, conclusivamente, affermato il seguente principio di diritto: "In tema di usura, lo stato di bisogno in cui deve trovarsi la vittima (attualmente integrante la circostanza aggravante speciale di cui all'art. 644 c.p., comma 5, n. 3) può essere di qualsiasi natura, specie e grado, e può, quindi, derivare anche dall'aver contratto debiti per il vizio del gioco d'azzardo, non essendo richiesto dalla norma incriminatrice che il predetto stato presenti connotazioni che lo rendano socialmente meritevole". 3.3. A tale principio si è correttamente conformata la Corte di appello nel ritenere sussistente la circostanza aggravante speciale de qua. Le statuizioni accessorie. 4. L'integrale rigetto del ricorso comporta, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 4.1. L'imputato va anche condannato alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, liquidabili come da dispositivo. 4.1.1. In proposito, ritiene il collegio che le spese debbano essere liquidate secondo i nuovi parametri introdotti dal D.M. 20 luglio 2012, n. 140. Invero, come chiarito dalla Corte Suprema di Cassazione (Sez. un. civ., sentenza n. 17405 del 2012), in tema di spese processuali, agli effetti del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 41, il quale ha dato attuazione al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorchè tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione omnicomprensiva di "compenso" la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata. E' pur vero che, ai sensi della ancora successiva L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 10, "Oltre al compenso per la prestazione professionale, all'avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfettarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6 unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive". Il citato comma 6 della medesima disposizione stabilisce che "i parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell'art. 1, comma 3, si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge". Tuttavia, non risultando ancora emanato il decreto di cui alla L. n. 247 del 2012, art. 13, citato comma 6, la disposizione di cui al comma 10 del medesimo art. di legge deve ritenersi allo stato in concreto non operante. 4.1.2. Vanno, in proposito, affermati i seguenti principi di diritto: "In tema di spese processuali, agli effetti del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 41, il quale ha dato attuazione al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorchè tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione omnicomprensiva di "compenso" la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata"; "In tema di spese processuali, non risultando ancora emanato il decreto di cui alla L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 6, cui è devoluta la determinazione della misura massima per il rimborso delle spese forfettarie, la disposizione di cui al medesimo art. 13, comma 10 - che reintroduce la previsione del rimborso delle predette spese, in passato denominate "spese generali" -, deve ritenersi allo stato in concreto non operante". 4.1.3. Le spese sostenute dalla parte civile costituita vanno, pertanto, liquidate come da dispositivo, con riguardo ai soli compensi, in difetto della documentazione di esborsi rimborsabili; non è dovuto il rimborso di spese "forfettarie" o "generali"; sono dovuti gli accessori di legge (IVA e CPA). P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione di quelle sostenute in questo grado dalla parte civile L.V. liquidate in euro duemila per compensi oltre accessori come per legge. Così deciso in Roma, nella udienza pubblica, il 1 ottobre 2013. Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2014
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