RITENUTO IN FATTO
1.La Corte di appello di Bari confermava la responsabilità del D.N.A. per il reato di usura ai danni del C. (limitatamente alle condotte successive al novembre del 2005) infliggendo la pena di anni tre, mesi nove di reclusione ed Euro dodicimila di multa oltre alla pena accessoria dell'interdizione dei pubblici uffici per la durata di anni cinque; confermava la condanna della C.A. per il reato di riciclaggio alla pena di anni tre di reclusione ed Euro tremila di multa.
Preso atto della revoca della costituzione di parte civile la Corte eliminava le relative statuizioni.
2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore del D.N.A. che deduceva:
2.1. violazione di legge (art. 522 c.p.p.): sarebbe stato violato il divieto di correlazione tra accusa e sentenza; la Corte di appello, immutando illegittimamente il fatto contestato, avrebbe affermato la responsabilità del D.N. per una condotta non riconducibile all'usura legale, ma piuttosto ad una usura "in concreto", dato che alla dazione del denaro effettuata dal D.N. sarebbe corrisposta una restituzione in natura di materiale lapideo. La Corte di appello avrebbe illegittimamente rinvenuto ipotetici vantaggi usurai nella - indimostrata - dazione a prezzo di favore del materiale lapideo, riconducendo il plus-valore del materiale, in ipotesi lucrato dal D.N., agli interessi dell'usura legale.
In sintesi: nell'affermare che il debito era stato estinto con modalità differenti da quelle indicate nel capo di imputazione, ovvero tramite la cessione di materiale lapideo, la Corte di appello avrebbe inflitto una condanna per condotte non contestate, ledendo il diritto di difesa e producendo la nullità della sentenza.
2.2. Violazione di legge (art. 192,500,493 comma 3 c.p.p.) e vizio di motivazione: la motivazione sarebbe illogica e carente nella parte in cui valutava la attendibilità della progressione dichiarativa del C. (parte civile in allora).
Nel corso dell'audizione dibattimentale svoltasi l'11 marzo 2015 il C. ricostruiva il rapporto con il D.N. in modo differente da come la aveva descritta nel corso delle indagini. Peraltro in dibattimento C. aveva affermato che, nel corso delle indagini preliminari aveva detto "il vero", circostanza che, nella prospettiva del ricorrente, avrebbe reso utilizzabili le dichiarazioni pre-dibattimentali e provata la discontinuità della
progressione dichiarativa relativamente alla identificazione del nucleo centrale del rapporto usuraio.
2.3. Violazione di legge (art. 270 c.p.p.): sarebbe inutilizzabile la conversazione intercettata nell'ambito di diverso procedimento intercorsa tra i P. e lo S., che secondo la Corte d'appello fungerebbe da riscontro esterno alle dichiarazioni rese in dibattimento dal C.. L'inutilizzabilità deriverebbe dalla assenza della connessione qualificata prevista dall'art. 12 lettera a) c.p.p., l'unica che, nella lettura offerta dalle Sezioni unite nella sentenza emessa nel caso "Cavallo", consentirebbe l'importazione di intercettazioni da altro procedimento.
Si deduceva che il procedimento nel quale era stata disposte l'intercettazione "importata" riguardava reati di usura ascritti a soggetti diversi dal D.N. e dalla C., denunciati da tale G.N..
2.4. Violazione di legge e vizio di motivazione (art. 230 e ss e 501 c.p.p. si deduceva l'illegittimità (a) della mancata escussione del consulente di parte, (b) della mancata acquisizione della sua relazione (denegate all'esito della rinnovazione dibattimentale in appello della perizia), in quanto il tecnico di parte - contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito - aveva partecipato all'accertamento tecnico, inviando documentazione che veniva espressamente presa in carico dal perito.
La mancata escussione del tecnico di parte e l'omessa acquisizione della sua relazione avrebbero impedito la perfezione del contraddittorio sulla prova scientifica, ledendo il diritto di difesa.
2.5. Violazione di legge (art. 603 cod. proc. pen) e vizio di motivazione con riguardo alla mancata acquisizione in sede di rinnovazione del dibattimento in appello degli esiti delle indagini difensive. Si deduceva che mancherebbe ogni motivazione in ordine il rigetto della richiesta.
2.6. Violazione di legge (art. 644 c.p.): la sentenza impugnata, nel ricondurre alla categoria degli "interessi legali" il costo imputato in concreto ai materiali lapidei forniti dal C. al ricorrente, avrebbe operato un'arbitraria "monetizzazione" della prestazione in natura non riconducibile ai parametri indicati dalla normativa secondaria che integra l'art. 644 c.p..
La dazione di materiale lapideo, infatti, sarebbe un'operazione non assimilabile a quelle classificate nel decreto annuale del Mef ed effettuata in modo arbitrario, dato che non esisterebbero criteri predeterminati per legge per effettuarla.
In sintesi: si deduceva che l'impossibilità di rinvenire nella normativa secondaria una categoria di operazioni nella quale incasellare la restituzione del denaro con materiale lapideo escluderebbe che si possa parlare di sforamento delle soglie di interesse legale e quindi, che si verta in una fattispecie di usura propria.
2.7. Violazione di legge (art. 644 cod. pen) e vizio di motivazione: la natura usuraria del rapporto sarebbe stata ritenuta considerando la complessiva operazione di prestito laddove la legittimità dell'adempimento frazionato, in difetto di una pattuizione diversa, ai sensi dell'art. 1193 c.c., avrebbe dovuto essere valutato in relazione al segmento di prestito cui si riferiva l'adempimento. I tecnici che avevano effettuato la valutazione della natura usuraria del rapporto avrebbero invece effettuato un accorpamento del debito e dei pagamenti che avrebbe inquinato la valutazione del rapporto usuraio, anche tenuto conto del fatto che era stato escluso dal conteggio l'ultimo importo (di 47.500 Euro) erogato dal D.N..
2.8. Violazione di legge (art. 1194 c.c., art. 644 c.p.) ed omessa motivazione relativamente al calcolo del tasso soglia usuraio: la Corte di appello non avrebbe fornito alcuna motivazione in ordine alle allegazioni difensive con le quali era stato dedotto che i pagamenti in natura del C. avrebbero dovuto essere imputati prima agli interessi e poi al capitale; si deduceva che nel caso di usura mediante dazione, il frazionamento della condotta avrebbe imposto verifiche trimestrali e che nel capitale erogato sarebbe stata esclusa l'ultima tranche del prestito erogato.
2.9. Violazione di legge ed omessa motivazione in relazione alle allegazioni proposte con la prima impugnazione: si riduceva che nel conteggio relativo agli adempimenti della persona offesa sarebbero state considerate dazioni antecedenti al sorgere del prestito e successive alla sua presumibile estinzione; il che inquinerebbe il computo del tasso di interesse ed al superamento della soglia legale.
2.10. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al calcolo negli interessi usurai: si deduceva, tra l'altro, che a fronte della dichiarata ricezione di Euro 127.500 si operava una specificazione di sforamento della soglia solo per due erogazioni estrapolate dalla somma complessiva senza indicare il dies a quo e il dies ad quem della durata dei due prestiti; sarebbe stata altresì travisata la perizia nella parte in cui per questa affermava che, tenuto conto del prezzo di vendita dei materiali riferito dal C., e degli assegni corrisposti dal D.N. ai figli del C., per la seconda tranche di cambiali il tasso di interesse risultava essere negativo (- 5,34%). Si deduceva che tenuto conto del fatto che il C. gestiva di fatto una impresa intestata alla moglie, non si poteva pretendere che gli assegni fossero intestati alla "(OMISSIS)".
2.11. Omessa motivazione in ordine alle precise doglianze difensive avanzate con la prima impugnazione relativamente al metodo di calcolo degli interessi ipoteticamente usurai: si ribadiva che, in assenza di una precisa determinazione del tempo e dell'ammontare della prestazione di restituzione verrebbe meno l'attendibilità di ogni computo relativo al saggio di interesse.
2.12. Omessa motivazione in ordine alle doglianze avanzate con la prima impugnazione relativamente al calcolo del tasso di interesse medio ed alla individuazione della categoria delle operazioni di riferimento: si contestava la legittimità della riconduzione della somma data in prestito dalla categoria dei prestiti "superiori ai 5000 Euro" e la mancata valutazione degli interessi di mora, allegando che se fossero stati considerati avrebbero comportato un innalzamento della soglia tale da escluderne lo sforamento.
2.13. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla definizione del trattamento sanzionatorio: si deduceva che l'aggravante contestata era stata illegittimamente ritenuta tenuto conto del fatto che il C. non avrebbe svolto alcuna attività imprenditoriale; ancora: si deduceva l'illegittimità della decisione nella parte in cui non avrebbe fornito alcuna giustificazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche puntualmente invocate con l'atto d'appello. Infine, si deduceva il vizio di motivazione in ordine alla definizione del trattamento sanzionatorio, che sarebbe stato quantificato in misura superiore al minimo edittale senza adeguata motivazione.
3. Ricorreva anche il difensore della C., che deduceva:
3.1. Violazione di legge (art. 648 bis c.p.) e vizio di motivazione: si deduceva che non era stato dato riscontro alle doglianze avanzate con la prima impugnazione con le quali si era evidenziato che il consulente tecnico ( C.) avrebbe rilevato una coincidenza temporale tra i prelevamenti di denaro effettuati dal P. - assolto per il reato di usura - e l'accrescimento della disponibilità finanziaria della C., emergenze che renderebbero equivoco ed incerto che l'accrescimento patrimoniale contestato fosse derivato dall'usura ai danni del C.. A ciò si aggiungeva che dalla ricostruzione effettuata dalle due sentenze di merito risultava che C. consegnasse al D.N. (usuraio) materiali lapidei e non denaro: non poteva pertanto ritenersi che le dazioni "reali" effettuate dal C. confluissero, a fini dissimulatori, sui conti e nella cassetta di sicurezza della C..
Quanto emerso induceva a ritenere che il capo di imputazione elevato nei confronti della ricorrente si riferisse alla usura in danno del P., il che tuttavia costituiva un fatto nuovo, o perlomeno diverso, rispetto a quello contestato e produceva una nullità qualificabile come assoluta.
3.2. Violazione di legge (art. 648 bis c.p.) e vizio di motivazione: si riduceva che non era stata raggiunta la prova che il denaro versato sui libretti e conti della C. fosse riferibile come contestato all'usura consumata ai danni del C. tenuto conto che i vantaggi usurai riferibili al rapporto con il C. erano decisamente inferiori rispetto alle movimentazioni registrate; si allegava inoltre che l'evasione fiscale riferita alle società "(OMISSIS)" e "(OMISSIS)" risultava accertata ed era in grado di giustificare la convergenza di denaro sui conti della ricorrente.
3.3. Violazione di legge (art. 648 bis c.p.) e vizio di motivazione in ordine l'identificazione in capo alla ricorrente dell'elemento soggettivo del reato: si deduceva che non era dato comprendere come la ricorrente potesse decodificare la provenienza di "parte" del denaro che confluiva sui libretti, sul conto e nella cassetta di sicurezza come provento specifico dell'usura ai danni del C. tenuto conto delle somme che la stessa incassava come soda della "(OMISSIS)" e della accertata evasione fiscale riferibile a tale società.
3.4 Violazione di legge e vizio di motivazione: si ribadiva che non era stata fornita risposta alle precise doglianze avanzate con l'atto d'appello con le quali si era dedotto che non vi era prova che il denaro transitato nella disponibilità della C. fosse provento dell'usura e danni del C.; con specifico riguardo alla cassetta di sicurezza, peraltro, non era stata data risposta all'allegazione che deduceva l'inidoneità di tale forma di deposito a dissimulare la provenienza delittuosa del denaro.
3.5 Violazione di legge (640 bis c.p.) e vizio di motivazione in relazione alla confisca allargata sulla base dell'accertamento del reato "spia" del riciclaggio: si deduceva (a) in primo luogo che ai fini della valutazione relativa alla provenienza dei beni dovevano essere considerati anche i "redditi" non dichiarati a fini fiscali; (b) che il reato "spia" alla base del vincolo aveva natura episodica e, come tale, poteva essere considerato inidoneo fondare la presunzione di illecita accumulazione (Corte Cost. n. 33 del 2018); (c) in terzo luogo si deduceva la non operatività del divieto di giustificazione della sproporzione con i proventi derivanti da evasione fiscale in data anteriore all'entrata in vigore della novella che lo aveva introdotto; (d) da ultimo si deduceva che parte delle condotte di usura perpetrate ai danni del C. - reato presupposto del riciclaggio - erano prescritte il che avrebbe dovuto comportare la non confiscabilità del correlato profitto del reato presupponente, ovvero del riciclaggio contestato alla C..
3.6. Violazione di legge (art. 133 e 62 bis c.p.) e vizio di motivazione in relazione alla definizione del trattamento sanzionatorio, con specifico riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che non risulterebbe motivato adeguatamente.
4. L'avv. Alfredo Gaito nell'interesse di entrambi i ricorrenti depositava motivi aggiunti con i quali (a) deduceva l'indefettibile necessità di valutare le prove in contraddittorio nel corso di tutta la progressione processuale e di applicare alla decisione la regola b.a.R.D., confutando analiticamente le tesi alternative comunque proposte dalla difesa; (b) la mancata considerazione della circostanza - allegata dalla difesa - che il C. dal 2005 vendeva sottocosto a causa della crisi della sua attività, sicché il prezzo fatto al D.N. era "ordinario" e non dipendente dal preteso rapporto usuraio; (c) l'illegittimo vaglio di attendibilità della persona offesa che non avrebbe tenuto conto delle dichiarazioni predibattimentali, che sarebbero state acquisite con il consenso delle parti e, dunque, sarebbero pienamente utilizzabili.
5.L'avv. Francesco Farina nell'interesse de D.N. presentava motivi aggiunti con i quali contestava la rilevazione del superamento del tasso soglia che sarebbe stato effettuato (a) attraverso l'illegittima commistione di una usura "legale" con l'usura in concreto correlata alla dazione di materiali lapidei, (b) attraverso l'omissione della valutazione delle allegazioni difensive che avevano rilevato la necessità di verificare lo sforamento delle soglie, imputando i pagamenti prima agli interessi e poi al capitale nell'ambito di singoli trimestri.
6. L'avv. Mario Malcangi nell'interesse della C. con motivi aggiunti deduceva l'assenza dell'elemento soggettivo del riciclaggio correlato al fatto che la ricorrente era la coniuge del D.N., sicché il trasferimento di denaro si giustificava sulla base di cointeressenze nella gestione familiare e potevano essere configurate come controprestazioni per l'adempimento di obbligazioni giuridiche e naturali.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.II primo motivo di ricorso, proposto nell'interesse del D.N., con il quale si contestava il difetto di correlazione tra accusa e sentenza, è infondato.
In materia il collegio ribadisce che per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010 - dep. 13/10/2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. U, Sentenza n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619 - 01).
Nel caso in esame il collegio rileva (a) in primo luogo che il capo di imputazione fa espresso riferimento alla consulenza di C.V., depositata il 27 aprile 2009, che, a sua volta, faceva espresso riferimento alla consegna di materiale lapideo sottocosto come forma di adempimento dell'obbligazione ritenuta usuraia; (b) in secondo luogo che il tema dell'adempimento in natura dell'obbligazione di restituzione è stata "al centro" dell'accertamento processuale e che, su tale tema, si è sviluppato il contraddittorio (con i limiti che si indicheranno relativamente alla prova scientifica). Dunque non si rileva alcuna violazione del diritto di difesa: l'usura "in concreto" che il ricorrente deduce essere estranea alla contestazione, invero, risulta richiamata dal capo di imputazione che fa esplicito riferimento alla consulenza tecnica del C., accertamento tecnico che costituisce il fulcro dell'accertamento processuale e su cui si è sviluppato il contraddittorio nel corso di entrambi i gradi del giudizio di merito.
2. Il secondo motivo proposto nell'interesse del D.N., con il quale si contesta il difetto di valutazione della credibilità dei contenuti accusatori provenienti dalla persona offesa (ribadito con i motivi aggiunti), è infondato.
Il ricorrente ritiene che non siano state valutate le discontinuità dichiarative tra dichiarazioni predibattimentali, che nella prospettiva del ricorrente sarebbero state acquisite anche a fini "probatori" e quelle rese nel corso del dibattimento.
2.1. In materia di valutazione delle dichiarazioni delle persone offese il collegio ribadisce che le regole dettate dall'art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della vittima del reato, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di responsabilità, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che in tal caso deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone; ciò non toglie che, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Dell'Arte, Rv. 253214).
Pertanto il fatto che l'offeso non sia un dichiarante "neutro", ma sia (sempre) portatore di un interesse "processuale" alla condanna e (nel caso di costituzione come parte civile), anche di un interesse "patrimoniale", non attenua il valore probatorio delle sue dichiarazioni, che restano autosufficienti, sebbene richiedano un controllo di attendibilità particolarmente penetrante, finalizzato ad escludere ogni manipolazione dei contenuti dichiarativi in funzione dell'interesse vantato.
Va ribadito che la Cassazione, anche quando prende in considerazione la possibilità di valutare l'attendibilità estrinseca della testimonianza dell'offeso, attraverso la individuazione di precisi "riscontri", si esprime in termini di "opportunità" e non di "necessità", lasciando al giudice di merito un ampio margine di apprezzamento circa le modalità di controllo della attendibilità nel caso concreto (Sez. 1, n. 29372 del 24/06/2010, Stefanini, Rv. 248016; Sez. 6, n. 33162 del 03/06/2004, Patella, Rv. 229755). A ciò si aggiunge che costituisce principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione che la valutazione della attendibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (tra le altre: Sez. 6, n. 27322 del 2008, De Ritis, cit.; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, Finazzo, Rv. 239342; Sez. 6, n. 443 del 04/11/2004, dep. 2005, Zamberlan, Rv. 230899; Sez. 3, n. 3348 del 13/11/2003, dep. 2004, Pacca, Rv.227493; Sez. 3, n. 22848 del 27/03/2003, Assenza, Rv. 225232).
2.2. Quanto alla funzione processuale delle contestazioni effettuate attraverso il richiamo al contenuto delle dichiarazioni predibattimentali, il collegio ribadisce che e dichiarazioni utilizzate per le contestazioni possono essere valutate come dichiarazioni rese "direttamente" dal medesimo nel contraddittorio solo se le stesse siano state successivamente confermate (tra le altre: Sez. 2, Sentenza n. 13910 del 17/03/2016, Migliaro, Rv. 266445 - 01).
2.3. Nel caso di specie il collegio rileva (a) che le dichiarazioni predibattimentali del C. sono state acquisite al fascicolo del dibattimento non a fini probatori, ma "ai soli fini della valutazione dell'attendibilità" all'esito delle contestazioni dibattimentali, come espressamente chiarito dal Tribunale a pag. 2 della sentenza di primo grado; (b) che, nonostante tale espressa limitazione della capacità dimostrativa delle dichiarazioni rese in fase investigativa, la Corte di appello le prendeva, comunque, in concreta
considerazione effettuando una ampia, efficace e persuasiva valutazione della progressione dichiarativa dell'offeso (pagg. 26- 30 della sentenza impugnata).
La Corte territoriale chiariva che, nel corso delle indagini, il C. non era mai stato sentito al fine di ricostruire nel dettaglio i suoi rapporti con D.N., ma solo per giustificare la ragione delle cambiali rivenute nel corso della perquisizione a carico del ricorrente e di quelle che gli aveva consegnato unitamente alla documentazione in suo possesso relativamente alla pesa ed al trasporto del materiale conferito in pagamento del prestito (pagina 27 della sentenza impugnata).
Secondo la logica e persuasiva ricostruzione effettuata dalla Corte d'appello la ragione per la quale nel 2008, quando venne escusso dagli inquirenti, C. fu "assai parco" nel fornire indicazioni, era da rinvenire nella volontà di tutelare un rapporto usuraio, per lui comunque indispensabile. Molto diversa era, invece, la sua posizione quando veniva esaminato nel corso del dibattimento: in quel caso, come rilevato nella sentenza impugnata, lo stesso "non aveva più nulla da perdere" e non aveva ragione di sottacere alcunché a salvaguardia del suo finanziatore, dato che aveva preso consapevolezza del vortice in cui era finito e, dunque, aveva deciso di fornire dichiarazioni esaustive (pag. 30 della sentenza impugnata).
Si tratta di un percorso argomentativo privo di fratture logiche e coerente con gli elementi di prova raccolti, che fornisce una esaustiva - ed inattaccabile - valutazione del percorso dichiarativo riferibile alla persona offesa; percorso accuratamente ricostruito attraverso la esplicita giustificazione delle divergenze tra le prime esposizioni dichiarative e la completa testimonianza resa in dibattimento in ragione del provato percorso di emancipazione del C. dalla dipendenza che il rapporto usuraio aveva creato nei confronti del D.N.; dipendenza che, all'inizio, aveva di fatto ristretto il perimetro delle dichiarazioni accusatorie.
3. E' infondato anche il terzo motivo di ricorso proposto nell'interesse del D.N. con il quale si censura l'utilizzabilità delle intercettazioni disposte in altro procedimento per assenza della connessione qualificata prevista dall'art. 12 lett. a) c.p.p..
3.1. Il collegio rileva che alle intercettazioni contestate si applica - in ragione dell'operatività del principio tempus regit actum, che governa la successione delle leggi nel tempo in materia processuale - il testo dell'art. 270 c.p.p., vigente al tempo in cui le intercettazioni sono state autorizzate - quando alla validità "genetica" - ed a quella del tempo in cui sono state acquisite quanto alla validità processuale.
Si ribadisce infatti che nel caso di successione di leggi che incidano sui requisiti e sui presupposti legittimanti i mezzi di ricerca della prova e l'utilizzazione dei relativi elementi, il principio tempus regit actum opera in maniera differente qualora siano ontologicamente separati i due momenti di formazione dell'atto e di formale acquisizione dei risultati della ricerca probatoria; ne deriva che nell'ipotesi di utilizzazione delle intercettazioni telefoniche in procedimento diverso da quello in cui sono state disposte, poiché l'utilizzazione è subordinata, da una parte, alla legalità dell'intercettazione nel momento genetico, e, dall'altra, a precise condizioni di assunzione nel diverso processo, i due requisiti, di legalità del mezzo e di legittimità dell'acquisizione, vanno individuati nelle leggi vigenti nei rispettivi momenti, pur se diversamente disciplinati (Sez. 3, Sentenza n. 21451 del 29/01/2015, L., Rv. 263746 - 01).
3.2. Ebbene, nel caso in esame, la disciplina applicabile è quella che vigeva prima dell'entrata in vigore del D.I. n. 161 del 2019 convertito con L. n. 7 del 2020.
Tale normativa è stata autorevolmente interpretata dalle Sezioni unite nel senso che il divieto di cui all'art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate - salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza - non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12 c.p.p., a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata "ab origine" disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 c.p.p. (Sez. U, Sentenza n. 51 del 28/11/2019, dep.2020, Cavallo, Rv. 277395 - 01)
Ebbene: la Corte di appello, con motivazione ineccepibile, riteneva utilizzabili le intercettazioni contestate nel pieno rispetto di tali indicazioni ermeneutiche richiamate (anche dal ricorrente) come parametro di legittimità da utilizzare per valutare la legittimità dell'utilizzo della conversazione contestata.
Così la Corte di merito rilevava che i reati di usura per i quali vennero disposte le intercettazioni (Rit 44/08,) tra le quali si annovera quella contestata (ovvero quella registrata al progressivo 6831 del 21 maggio 2008, intercorsa tra S.N. e P.G.) erano "gli stessi per i quali anche D.N.A. venne indagato ed intercettato"; infatti il D.N. veniva indagato e rinviato a giudizio "anche" per l'usura in danno di P., in ipotesi realizzata con il sistema del cambio di assegni al tasso del 4%, nonché per l'usura in danno di B.P.", sicché non si verteva in un caso di importazione di intercettazioni da altro procedimento (pagg. 31 e 32 della sentenza impugnata).
Va rilevato, tuttavia, che tale intercettazione veniva utilizzata solo come elemento di "conferma estrinseca" delle dichiarazioni del C., nella parte in cui questi aveva affermato che "parte" del patto usuraio prevedeva il cambio di assegni al tasso del 4% mensile, sistema correntemente usato dall'offeso per garantirsi la liquidità. E che, pertanto, si tratta di una conferma "non decisiva" per la valutazione della credibilità della prova dichiarativa. Questa, come ribadito in occasione dell'esame del precedente motivo di ricorso, risulta valutabile anche sulla base esclusiva del percorso dichiarativo dell'offeso, tenuto conto della "autosufficienza" della testimonianza della vittima quando - come nel caso in esame - la stessa sia sottoposta ad un rigoroso vaglio di attendibilità.
4. Il sesto ed il terzo motivo di ricorso sono fondati ed il loro accoglimento impone l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Bari.
4.1. Si ritiene di trattare prima il sesto motivo di ricorso in quanto logicamente prioritario rispetto al terzo.
Il ricorrente contestava la ricomprensione di un rapporto sinallagmatico a prestazioni sbilanciate (denaro contro consegna di materiale lapideo), nell'archetipo dell'usura "legale", invece che in quello dell'usura "in concreto".
Si tratta di doglianza fondata.
4.1.1.11 collegio rileva che dal compendio motivazionale integrato composto dalle due sentenze di merito emerge che (a) tra l'offeso ed il D.N. intercorreva una prassi, di natura usuraia, riconducibile all'archetipo dell'usura legale, che prevedeva il cambio degli assegni al tasso del 4% mensile; (b) che a tale prassi si associava una modalità di restituzione in natura, in ipotesi riconducibile alrusura in concreto", che veniva attivata solo quando il C. era in crisi di liquidità e che si risolveva nella consegna di materiale lapideo sottocosto.
Dalle dichiarazioni dell'offeso emergeva con chiarezza che il rapporto usuraio intercorrente tra il C. ed D.N. era caratterizzato da due forme di usura concorrenti ed integrate: tra gli stessi intercorreva infatti sia la pratica del cambio assegni post datati al tasso del 4% mensile (che serviva per procurare al C. la liquidità necessaria sia svolgere l'attività di impresa, che per pagare il debito accumulato verso lo stesso D.N.), che quella dalla consegna di materiale lapideo sottocosto, forma di pagamento in natura che veniva attivata solo quando il C. era in crisi di liquidità, ma che di fatto ha caratterizzato tutto il rapporto usuraio (pag. 28 della sentenza impugnata).
Emergono quindi due meccanismi di usura "concorrenti ed integrati": il primo di natura "legale", che si inverava attraverso il cambio di assegni postdatati al tasso del 4% mensile ed il secondo, riconducibile all'archetipo dell'usura c.d. "in concreto" (descritto dall'art. 644 c.p., comma 3, correlato alla vendita sottocosto di materiale lapideo.
4.1.2. A fronte di tale struttura mista del rapporto usuraio il collegio rileva una illegittima estensione dei criteri di valutazione dell'usura legale all'usura in concreto.
Quest'ultima forma di usura deve infatti essere valutata esclusivamente sulla base della (eventuale) sproporzione tra prestito in denaro e controprestazione in natura. Sproporzione che, tuttavia, non può essere ritenuta, come accaduto nel caso di specie, attraverso une improprio utilizzo dei parametri di valutazione dell'usura legale, ovvero attraverso la previa "monetizzazione" della prestazione in natura e la successiva riconduzione al concetto di "interesse" - tipico dell'usura legale - dell'eventuale plus valore del bene consegnato in pagamento rispetto al denaro prestato.
La Corte di appello, invece, ha valutato la parte del rapporto usuraio riferibile all'usura in concreto con i parametri tipici dell'usura legale (monetizzazione del bene e confronto con i tassi soglia relativi all'interesse legale. Tale vizio del ragionamento probatorio investe ed inquina anche la rinnovazione della perizia dato che il quesito somministrato al tecnico incaricato dalla Corte di appello si risolve proprio nella richiesta di valutare "se il rapporto tra le somme mutuate dall'imputato al C. ed i valori dei materiali alienati dal C. al D.N. si traduca nella valutazione in favore dell'imputato di interesse legali" (pag. 37 della sentenza impugnata).
Dato che l'offeso ha riferito con chiarezza di due modalità di usura concorrenti ed integrate la verifica processuale andava effettuata in modo separato, ovvero facendo riferimento (a) al "superamento del tasso soglia" con riguardo all'usura legale riferita al cambio degli assegni postdatati al tasso del 4%, (b) alla semplice "sproporzione" con riguradi all'usura in concreto (fermo restando che presupposto ulteriore per il ricononscimento della sussistenza dell'usura in concreto è la condizione di difficoltà economica, rilevata con chiarezza dalla Corte di appello - a pag. 28 - in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Cassazione: Sez. 2, Sentenza n. 26214 del 29/03/2017, Gallicchio, Rv. 269962 - 01).
Si tratta di una impostazione che è stata illegittimamente abbandonata solo nell'ambito del giudizio di appello, dato che il Tribunale aveva chiaramente distinto l'usura in concreto da quella legale, ed aveva valutato gli adempimenti in natura "sproporzionati", in quanto i materiali lapidei venivano ceduti a prezzi inferiori a quelli di mercato, senza alcuna forzata riconduzione dell'ipotetico plus valore al concetto di interesse extrasoglia (pag. 71 della sentenza di primo grado).
4.2. A tale vizio del percorso logico argomentativo si associa anche la violazione del diritto al contraddittorio nella formazione della prova scientifica: la Corte di appello, infatti, non ammetteva l'esame del consulente tecnico della difesa e non acquisiva neanche la sua relazione.
4.2.1. Sul punto il collegio rileva che il contraddittorio nella formazione della prova scientifica deve essere salvaguardato nel corso di tutte le fasi che caratterizzano la formazione della prova scientifica dal conferimento dell'incarico, allo svolgimento delle operazioni peritali, fino all'esame dibattimentale del perito e dei consulenti di parte.
Il diritto al contraddittorio nella formazione della prova scientifica, è garantito oltre che dalla nostra Carta fondamentale, anche dal diritto convenzionale, che ha chiarito come in tale area lo stesso si risolva nel tutelare la "parità delle armi" (art. 6 p. 1 Convenzione EDU), ovvero nell'offrire all'accusato la possibilità di contrastare le tesi del tecnico di parte o di ufficio - attraverso la tesi veicolata nel processo dal proprio consulente.
Così la Corte Europea nel caso Matytsina v. Russia (27 aprile 2014) ha identificato la lesione del contraddittorio proprio nella mancata acquisizione delle prove tecniche di parte e, segnatamente, nella mancata escussione degli esperti dell'accusa dei quali era stata acquisita la relazione; e nel caso Mantovanelli v. Francia (18 marzo 1997) ha rilevato l'iniquità del processo e la violazione dell'art. 6 p. 1, perché ai ricorrenti non era stato consentito di partecipare alle operazioni peritali extraprocessuali, sviluppatesi attraverso l'audizione di persone in possesso di informazioni decisive.
Sul versante interno, la Cassazione è stata invece costante nel ritenere che la violazione del diritto al contraddittorio sia rinvenibile solo nel caso dell'omesso esame di consulenti di parte "attivi", che abbiano cioè fornito un concreto contributo alla svolgimento delle operazioni peritali in ambiente extraprocessuale: si è infatti affermato che il giudice, dopo l'esame del perito, è tenuto ad integrare il contraddittorio con l'esame del consulente tecnico dell'imputato, qualora questi abbia assunto iniziative di sollecitazione e di contestazione rispetto all'attività peritale ed ai relativi esiti (Sez. 1, Sentenza n. 54492 del 05/04/2017, Perillo, Rv. 271899 - 01; Sez. 6, Sentenza n. 27928 del 01/04/2014, Cappelli, Rv. 261641; sez.6, sentenza n. 12610 del 14/01/2010, Rv 246725; Sez. 1, Sentenza n. 11867 del 26/10/1995, Ceccherelli, Rv. 203247).
Si tratta di una giurisprudenza che merita di essere aggiornata nella parte in cui legittima l'omesso esame del tecnico di parte nei casi in cui questo non abbia tenuto un atteggiamento reattivo nel corso delle operazioni peritali.
Invero la tutela del diritto al contraddittorio nella formazione della prova scientifica assuma una configurazione più complessa di quella del semplice diritto al controesame, che connota la prova dichiarativa e si invera nel costante confronto tra tecnico d'ufficio e consulenti di parte che deve essere tutelato dalla fase del conferimento dell'incarico, durate lo svolgimento delle operazioni peritali, fino alla esposizione in contraddittorio dibattimentale deì pareri.
Di contro, non si rinviene alcuna ragione, invero, che legittimi il condizionamento dell'audizione del tecnico di parte - ove richiesta - ad una partecipazione "reattiva" e non acquiescente alle operazioni extradibattimentali: non è insolito infatti che i tecnici che rappresentano gli interessi delle parti condividano il metodo proposto dal perito e, dunque, non si oppongano all'uso dello stesso, pur avendo opinioni diverse quanto alle valutazioni finali, espresse nella relazione.
Non consentire alla parte che lo richiede che il proprio tecnico esprima in contraddittorio le ragioni del dissenso sulle conclusioni del perito, denegando l'esame sulla base della acquiescenza mostrata nel corso delle operazioni peritali, integra invece una lesione del diritto di difesa, dato che si impedisce alla parte di "contraddire" una prova sfavorevole con le armi disponibili, che nel caso della prova scientifica si traducono nella veicolazione nel processo di un parere tecnico antagonista.
In conclusione, il collegio ribadisce che il diritto al contraddittorio deve essere tutelato in tutte le fasi che caratterizzano la formazione della prova scientifica: dunque sia nella fase del conferimento dell'incarico attraverso la formulazione del quesito, che nel corso delle operazioni peritati extradibattimentali (che devono essere svolte garantendo la partecipazione dei tecnici di parte), che, infine, attraverso l'ammissione dell'esame del perito e dei tecnici, cui segue l'acquisizione degli elaborati scritti, ai sensi dell'art. 511 comma 3 c.p.p. Affinché la tutela di tale diritto sìa effettiva i tecnici di parte devono (a) avere la possibilità di presenziare al conferimento dell'incarico ed alla formulazione del quesito, (b) essere posti nelle condizioni partecipare alle operazioni tecniche, (c) se la parte lo chiede, devono essere esaminati in contraddittorio nel dibattimento (o nell'incidente probatorio peritale), nulla rilevando che la loro partecipazione alle operazioni peritali non sia stata " reattiva", ovvero caratterizzata dalla proposizione di specifiche critiche nei confronti del metodo proposto ed utilizzato.
Tale interpretazione, oltre ad essere coerente con la tensione verso la massima tutela del diritto al contraddittorio, che si ricava sia dalla Costituzione che dalla Convenzione di Roma, trova conforto anche nel tessuto codicistico, tenuto conto che: (a) l'art. 230 c.p.p. riconosce ai consulenti di parte il diritto ad assistere al conferimento dell'incarico ed a partecipare attivamente allo stesso, presentendo al giudice richieste, osservazioni e riserve delle quali è fatta menzione nel verbale; (b) lo stesso articolo riconosce ai consulenti il diritto a "partecipare" alle operazioni peritali, "anche" - e "non solo" attraverso la proposizione di specifiche indagini, osservazioni e riserve; (c) l'art. 468 c.p.p. facoltizza le parti ad inserire in lista i consulenti e ad ottenerne l'esame, anche attraverso la presentazione diretta in dibattimento. Peraltro il diritto al contraddittorio nella formazione della prova scientifica è tutelato anche dalla previsione del diritto a nominare consulenti tecnici "dopo l'esaurimento delle operazioni peritali" (art. 230 c.p.p., comma 3 e art. 233 c.p.p., comma i): norma che risulta incompatibile con la contrazione della tutela delle prerogative del consulente di parte endoperitale.
Si tratta di una griglia di tutela, che all'evidenza sostiene tutto l'iter di formazione della prova scientifica (e si dipana anche "oltre" con la previsione del diritto alla nomina di consulenti extraperitali). E che non appare compatibile con la limitazione del diritto all'esame del consulente di parte nei soli casi in cui questi, nel corso delle operazioni peritali, abbia manifestato il suo parere contrario al metodo proposto e in concreto utilizzato.
4.2.2. Nel caso di specie la Corte di appello denegava l'esame del consulente sulla base del fatto che questi, nel corso delle operazioni tecniche - cui pure aveva partecipato - non aveva criticato la metodologia che il perito aveva illustrato, dimostrando di condividerla.
Come già rilevato, il collegio ritiene che il diniego non sia legittimo, in quanto l'acquiescenza del tecnico di parte alla metodologia utilizzata dal perito non implica la condivisione dei risultati dell'analisi, dato che si può giungere a risultati differenti anche utilizzando un metodo condiviso.
Si rileva, pertanto, una violazione del diritto di difesa che non avrebbe potuto essere sanata neanche attraverso l'acquisizione della consulenza di parte - non avvenuta, ma suggerita - tramite il deposito di una "memoria", dato che la ipotetica veicolazione di un parere cartolare non ha la stessa capacità dimostrativa di un esame orale in contraddittorio e, comunque, si profila come un espediente che si pone fuori dalla procedura che caraterriza la formazione della prova scientifica, caratterizzata dal costante confronto tra perito e tecnici di parte.
5. Il quinto motivo, che deduce l'illegittimità della mancata rinnovazione dibattimentale risulta assorbito.
Anche i motivi dal settimo al dodicesimo, con i quali si contestano il metodo ed i risultati della perizia (invero anche nel"nel merito") si ritengono assorbiti, tenuto conto (a) del riconosciuto vizio di "impostazione", dedotto con il sesto motivo di ricorso, che refluisce sull'intero percorso argomentativo e che coinvolge anche la perizia (fondata su un quesito errato), (b) della riconosciuta violazione del contraddittorio tecnico e processuale denunciato con il terzo motivo di ricorso.
6. La sentenza deve essere annullata anche con riguardo alla posizione della C., imputata del riciclaggio delle somme provento dell'usura contestata al coniuge D.N. in danno del C..
6.1.Dovendosi annullare la sentenza con riguardo all'accertamento processuale relativo allo specifico reato indicato come presupposto del riciclaggio (usura in danno del C.), dovrà essere conseguentemente rivalutata anche la posizione della ricorrente, cui è contestata una precisa attività dissimulatoria limitata ai proventi di tale rapporto usuraio.
Il nuovo esame, relativo all'accertamento della responsabilità della C., dovrà necessariamente confrontarsi con la natura "mista" del rapporto usuraio intercorrente tra il D.N. ed il C. che e', in parte riconducibile all'usura legale ed, in altra parte, si risolve in una usura in concreto. Con specifico riguardo a tale ultima manifestazione del rapporto usuraio dovrà essere chiarito quale sia il meccanismo dissimulatorio agito dalla ricorrente.
6.2. Anche i motivi che contestano la legittimità della confisca ex art. 240 bis c.p. poiché sono correlati all'accertamento del reato c.d. "spia", ovvero il riciclaggio dei proventi dell'usura in danno del C. si considerano assorbiti in questa sede.
PQM
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bari.
Così deciso in Roma, il 17 marzo 2022.
Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2022