RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Catanzaro, con provvedimento del 15/11/2017, decidendo sull' appello proposto da C.R. avverso il decreto di sequestro preventivo per equivalente emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lamezia Terme in data 20/10/2017 nei confronti del predetto C., indagato, in concorso con il suo commercialista di fiducia M.G.A., per il reato di usura in danno di P.V., confermava la misura cautelare limitatamente all' importo di Euro 110.000,00.
Riteneva il Tribunale che dalle complessive emergenze istruttorie risultava dimostrata la accusa di usura a carico di C.G. in danno di P.A. il quale, a fronte del prestito della somma di Euro 250.000,00, in esecuzione del contratto di associazione in partecipazione stipulato inter partes, aveva corrisposto all'indagato interessi usurari pari ad Euro 110.000,00 con applicazione di un tasso usurario del 23,97% superiore al tasso soglia vigente nel periodo di riferimento (pari all'11,09 %), precisando che il carattere usurario dell'accordo era evidente in ragione della previsione della corresponsione da parte del P., nella qualità di legale rappresentante della Eurotrasporti s.r.l., in favore del C. della somma di Euro 5.000,00 mensili a prescindere dall'effettivo conseguimento di utili.
2. C.G., a mezzo difensore, propone ricorso per cassazione deducendo violazione ed erronea applicazione dell'art. 644 c.p., u.c. e art. 321 c.p.p. nonchè motivazione meramente apparente.
Assume che nella fattispecie in esame non poteva essere disposto il sequestro in quanto mancava un "profitto" da parte dell'indagato inteso quale profitto patrimoniale dell' autore dell'illecito nella specie non configurabile in quanto a fronte del prestito di Euro 250.000,00 il ricorrente aveva incamerato dalla presunta parte offesa solamente parte del capitale inizialmente versato, vale a dire la somma di Euro 217.600,00, non percependo, quindi, alcuna somma a titolo di interessi dal P..
Precisa che non sussistendo alcun effettivo arricchimento patrimoniale in rapporto di immediata e diretta derivazione causale dalla condotta illecita contestata atteso che il quantum restituito corrispondeva solamente ad una percentuale dell'intero capitale effettivamente percepito dalla presunta vittima nessuna misura ablativa poteva essere adottata dal momento che nessun "profitto" era mai derivato da quella operazione economica ritenuta illecita, rilevando che il Tribunale era incorso in una palese violazione di legge in relazione alla individuazione del profitto del reato.
Deduce, infine, che il Tribunale aveva totalmente omesso di motivare in ordine alla contestazione relativa alla insussistenza del reato di usura, difettando l'elemento psicologico del reato come poteva desumersi dal fatto che le somme percepite erano state inserite dal C. nella dichiarazione dei redditi e che l'intera somma pagata dalla Eurotrasporti s.r.l. era stata interamente portata a detrazione fiscale per costi sostenuti con la conseguenza che il contratto di associazione in partecipazione de quo non poteva essere considerato sic et simpliciter come un escamotage funzionale a camuffare un sinallagma illecito.
2.1. La difesa del ricorrente ha depositato memoria in data 03/04/2018 ribadendo la non assoggettabilità a sequestro delle somme in contestazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile stante la manifesta infondatezza delle censure proposte.
2. Osserva il collegio che, contrariamente a quanto lamentato da parte ricorrente, risulta corretta in diritto la motivazione del Tribunale che ha ricondotto nell'ambito del profitto del reato di usura l'intera somma di interessi e vantaggi pari ad Euro 110.000,00 che l'usuraio è riuscito ad ottenere con il prestito della sorte capitale atteso che ai sensi della L. n. 108 del 1996, art. 4 nella operazione di prestito e finanziamento in oggetto, nel quale erano stati pattuiti interessi usurari in favore del concedente si doveva ritenere nulla la relativa clausola, sicchè il mutuatario non era tenuto a restituire alcun tipo di interesse alla controparte.
2.1. Tale motivazione aderisce al principio, affermato da questa sezione per il quale, in tema di usura, è prevista (art. 644 c.p., u.c.) una forma di confisca per equivalente specificamente commisurata ad "un importo pari al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari" e, quindi, con riferimento al solo "incremento netto patrimoniale" ricavato dal soggetto attivo del reato.
2.2. A tal fine, onde poter disporre la confisca, occorre tenere presente che il delitto di usura si configura come un reato a schema duplice, costituito da due fattispecie - destinate strutturalmente l'una ad assorbire l'altra con l'esecuzione della pattuizione usuraria - aventi in comune l'induzione del soggetto passivo alla pattuizione di interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, delle quali sola una è caratterizzata dal conseguimento del profitto illecito, mentre l'altra è qualificata dalla sola accettazione del sinallagma a esso preordinato (vedi, Cassazione penale, sez. 2 11/04/2012. n. 24528).
3. Il ricorrente deduce che il provvedimento impugnato sarebbe in contrasto con le pronunce della Suprema Corte di Cassazione che riconducono la possibilità di procedere alla confisca per equivalente, ai sensi dell'art. 644 c.p.p., u.c., solo agli interessi e vantaggi usurari, individuato nello "incremento netto patrimoniale" ricavato dal soggetto attivo del reato (Cass. Pen. SS.UU. 27.03.2008 n. 26654), incremento non ravvisabile nella fattispecie in esame stante la restituzione da parte della presunta vittima di una prorzione capitale pari ad Euro 217.600,00 a fronte dell'importo di Euro 250.000,00 effettivamente erogato al P..
3.1. Tale prospettazione non coglie nel segno atteso che non risulta che le parti abbiano novato il rapporto inizialmente stipulato sostituendo all'originario obbligo di restituzione della somma capitale gravata dagli interessi illeciti, la previsione della sola restituzione del mero capitale, emergendo per contro in modo univoco dalla stessa narrazione dei fatti contenuta nel provvedimento genetico richiamato nell'ordinanza impugnata che le somme in questione vennero "pacificamente" corrisposte come interessi corrispettivi, essendosi il ricorrente rifiutato espressamente di imputare tali somme al capitale (v. ordinanza genetica), costituendo, dunque, tali interessi l'arricchimento dell' odierno indagato.
Risulta, infatti, che a fronte della richiesta della parte offesa di scomputare dalle somme dovute quelle versate sino a quel momento per l'ammontare di Euro 110.000,00 "il C. si oppose fermamente, adducendo che, con quella somma, avrebbe, a sua volta, dovuto pagare gli interessi alla banca ove aveva contratto il prestito per erogare loro il finanziamento di che trattasi".
3.2. In tal senso va richiamo l'assunto della Corte Suprema, condiviso anche dall'odierno Collegio, secondo il quale "in tema di usura, il profitto confiscabile ai sensi dell'art. 644 c.p., u.c., identificandosi secondo la generale nozione di profitto del reato nell'effettivo arricchimento patrimoniale già conseguito, ed in rapporto di immediata e diretta derivazione causale dalla condotta illecita concretamente contestata, coincide con gli interessi usurari concretamente corrisposti..." (Cass. Sez. 6, sent. n. 45090 del 02/10/2014, dep. 30/10/2014, Rv. 260665), non potendosi revocare in dubbio, sulla scorta delle superiori considerazioni, che le somme in questione pari ad Euro 110.000,00 (oggetto del disposto sequestro) costituivano gli interessi corrispettivi maturati, rimanendo, quindi, irrilevante il profilo relativo alla omessa restituzione del capitale trattandosi, comunque, di vantaggi usurari incamerati dall'indagato.
3.3. Va del resto rilevato che la confiscabilità dei beni nel caso di procedimento penale per il delitto di usura non trova i suoi limiti nelle previsioni dell'art. 240 c.p., ed è diretta da un lato ad impedire che, comunque, il condannato possa trarre un utile dal reato commesso e, dall'altro, a devolvere allo Stato tutte le utilità che appaiano ingiustificatamente acquisite al proprio patrimonio di una persona condannata per il delitto di usura.
4. Occorre, quindi, osservare che del tutto priva di fondamento è la censura secondo cui il provvedimento sarebbe caratterizzato da motivazione meramente apparente in punto di ritenuta sussistenza del fumus del reato di usura, difettando a dire del ricorrente gli elementi costitutivi di tale reato anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo.
4.1. Deve rilevarsi che l'usura viene comunemente definita come delitto a dolo generico sorretto dalla rappresentazione e volontà di concludere un contratto sinallagmatico con interessi o vantaggi usurari ovvero, nell'ipotesi di usura in concreto, sproporzionati avuto riguardo alle condizioni di difficoltà economica o finanziaria della vittima.
4.2. E', innanzitutto, appena il caso di ricordare che il controllo di legittimità che compete alla Corte di cassazione in materia di ricorsi aventi ad oggetto misure cautelari reali non si estende all'adeguatezza delle linee argomentative ed alla congruenza logica del discorso giustificativo della decisione, potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (cfr. anche Cass., Sez. Un., 28/5/2003 n. 12): quando essa manchi assolutamente o sia, altresì, del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza e completezza, al punto da risultare inidonea a rendere comprensibile l'iter logico seguito dal giudice di merito, ovvero le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate da rendere oscure le ragioni che hanno giustificato il provvedimento. Il vizio appare in tal caso qualificabile come inosservanza della specifica norma processuale che impone, a pena di nullità, l'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.
Non è, quindi, possibile, come vorrebbe fare parte ricorrente, cercare di fare rientrare ad ogni costo nell'ambito di cui all'art. 606 c.p.p., lett. c), una doglianza che al più potrebbe essere ricondotta nell'ambito della lett. e) del medesimo articolo di legge.
Le censure mosse all'impugnato provvedimento, sotto l'apparente deduzione di vizi attinenti alla violazione di legge, prospettano una richiesta di rivalutazione del merito di elementi di fatto legati alla ricostruzione dei rapporti inter partes, rivalutazione, peraltro preclusa, alla luce della notoria impossibilità per questa Corte di legittimità di avere diretto accesso agli atti ed inammissibile in questa sede dove deve essere apprezzata solo la presenza di seri indizi della sussistenza del fumus, dei quali la piena prova è riservata al merito.
Le carenze asseritamente presenti nella motivazione del provvedimento impugnato (legate peraltro ad argomentazioni prese in esame dal tribunale con una motivazione che non è nè mancante nè meramente apparente, v. ff.3-5) non appaiono, quindi, tali da determinare un vizio dell'ordinanza impugnata.
5. Allo stato degli atti, pertanto, la decisione impugnata non si presta ad alcuna censura e l'impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 3, per manifesta infondatezza: alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell'art. 616, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè al pagamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro duemila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila alla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 5 aprile 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2018