RITENUTO IN FATTO
1. B.G., a mezzo del difensore di fiducia, ricorre per cassazione per l'annullamento della sentenza della Corte di appello di Bari che, decidendo in sede di rinvio dalla Corte di cassazione (sentenza n. 114 del 22/12/2017 di questa Sezione in atti) e in riforma della sentenza del Tribunale di Foggia, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell'imputata in ordine ai reati di cui ai capi B (estorsione) e C (calunnia) perchè estinti per prescrizione e rideterminato la pena inflitta alla ricorrente per il reato di cui al capo A (usura), unitariamente considerato, in anni due di reclusione ed Euro 5.000,00 di multa, pena sospesa.
1.1. Con il primo motivo lamenta la violazione del principio di intangibilità del giudicato, posto che la Corte d'appello si era pronunciata agli effetti penali anche su condotte per le quali la precedente sentenza di secondo grado - non impugnata per cassazione da parte del pubblico ministero - aveva dichiarato il non doversi procedere per prescrizione.
1.2. Con il secondo motivo deduce l'erronea applicazione della legge penale con riferimento al calcolo dei periodi di sospensione della prescrizione. Il rilievo attiene, per un verso, all'aver computato nella sospensione un rinvio, pari a giorni 86, tra l'udienza del 23/3/2012 e quella del 14/6/2012 dovuto non solo all'astensione degli avvocati, ma anche alla necessità di citare i testi non comparsi e, per altro, all'errore di calcolo del periodo di sospensione tra l'udienza del 7/6/2018 e quella del 9/7/2018, erroneamente indicato in 34 giorni anzichè 32.
1.3. Con il terzo motivo lamenta l'erronea applicazione della legge penale con riguardo tanto al calcolo del termine di prescrizione del reato di usura che la Corte di merito aveva erroneamente stabilito in anni quindici, pur applicando la disciplina previgente alla legge c.d. Cirielli, quanto all'aver ritenuto unitaria la condotta del reato di usura, invece di qualificare ciascuno dei tre episodi contestati come singolo reato istantaneo ad effetti permanenti.
1.4. Con il quarto motivo deduce la mancanza di motivazione in ordine all'assenza di decisività della prova sulle istanze istruttorie (sia dichiarative che documentali) formulate nell'atto di appello (cfr. pagg. 50 e 51 della relativa impugnazione).
1.5. Con il quinto motivo lamenta il vizio di motivazione (manifesta illogicità e contraddittorietà) in ordine all'affermazione di responsabilità, sul rilievo dell'evidente contrasto tra gli esiti istruttori e le argomentazioni spese a sostegno delle prove di colpevolezza (dichiarazioni della p.o. V. e i relativi riscontri costituiti da fonti dichiarative e documentali), avendo la Corte di merito omesso di considerare la plausibile verosimiglianza della tesi difensiva introdotta dalla difesa dell'imputata.
1.6. Con il sesto motivo deduce il vizio di motivazione in ordine alle ragioni poste a fondamento del rigetto della richiesta di rito abbreviato condizionata all'esame della p.o. rinnovata dalla ricorrente in tutti i gradi di giudizio (nè all'uopo poteva valere il rinvio all'ordinanza resa sul punto dal GUP del Tribunale di Foggia), con richiesta di applicare il relativo trattamento sanzionatorio premiale.
1.7. Con il settimo motivo lamenta il vizio di motivazione in ordine alla mancata esclusione delle circostanze aggravanti (art. 644 c.p., comma 5 e art. 61 c.p., n. 7).
1.8. Con l'ottavo motivo deduce il vizio di motivazione in relazione alle statuizioni civili. La doglianza attiene alla disposta restituzione degli immobili in favore del V., al difetto di legittimazione del sostituto processuale del patrono di parte civile ad avanzare, fuori udienza, istanza di provvedere sulle spese di costituzione e lite (omissione alla quale la Corte di merito aveva provveduto mediante la procedura di correzione di errore materiale integrando la sentenza).
1.9. Con il nono motivo lamenta l'inosservanza delle norme processuali con riguardo alla mancata esclusione della parte civile, stante l'esercizio, nelle more del processo penale, di analoga azione in sede civile (con citazione che veniva notificata all'imputata in data 29/12/2016, dopo la deliberazione della prima sentenza di appello).
2. Con memoria in data 19/9/2019, la difesa della parte civile V.M., soffermandosi sui motivi di ricorso dell'imputata, ne ha evidenziato la manifesta infondatezza e/o l'infondatezza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Ritiene il Collegio che il ricorso vada rigettato essendo i motivi non fondati ovvero manifestamente infondati.
3.1. Preliminarmente vanno affrontate le questioni dedotte in tema di prescrizione che, se accolte, determinerebbero l'estinzione del reato di usura (secondo e terzo motivo di ricorso sub 1.2 e 1.3). Entrambe risultano manifestamente infondate.
3.1.1. Corretto risulta, infatti, il calcolo del termine di prescrizione in anni quindici determinato dalla sentenza impugnata a prescindere dall'applicazione della disciplina antecedente o meno alla L. n. 251 del 2005 (essendo il fatto stato commesso in epoca antecedente), il cui risultato non muta, giungendosi alla stessa conclusione con riguardo al termine necessario a prescrivere il delitto di usura pari sempre ad anni quindici. La ricorrente, sul punto, ripercorre l'errore di diritto in cui era incorsa la prima sentenza di appello (vedi pag. 8), la quale, pur richiamando correttamente in materia l'art. 63 c.p., comma 4, in quanto si è in presenza di più circostanze ad effetto speciale menzionate nell'art. 644 c.p., comma 5 (avere commesso il fatto in danno di persona che svolgeva attività professionale ed imprenditoriale, nonchè aver chiesto in garanzia proprietà immobiliari), finisce per apportare soltanto l'aumento di pena della metà, escludendo dal computo quello di un terzo sempre previsto dall'art. 63, comma 4, ritenendolo non operante "in quanto le circostanze menzionate nel comma 5 al pari di quelle plurime della rapina o dell'estorsione sarebbero ipotesi alternative determinanti un unico aumento di pena". Sul punto, invece, questa Corte, con orientamento che trova conferma anche in una pronuncia delle Sezioni unite (n. 28953 del 27/4/2017, Rv. 269784-01), ha affermato che ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, ai sensi dell'art. 157 c.p., comma 2, deve aversi riguardo, in caso di concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale, all'aumento di pena massimo previsto dall'art. 63 c.p., comma 4, per il concorso di circostanze della stessa specie. Infatti, anche la nuova formulazione dell'art. 157 non prevede alcuna riserva circa l'affermata influenza delle circostanze ad effetto speciale sui termini di prescrizione per il caso che ne sia contestata più d'una, salvo il necessario coordinamento con la previsione dell'art. 63 c.p., comma 4, nel senso della limitazione dell'aumento di pena, a nulla rilevando, data l'autonomia della disciplina della prescrizione, la facoltatività dell'ulteriore aumento di pena una volta applicato quella per la circostanza più grave, o, nel caso di pari gravità, per una delle circostanze ad effetto speciale (in termini proprio con riguardo al delitto di usura, Sez. 6, n. 23831 del 14/5/2019, Rv. 275986; Sez. 2, n. 31065 del 10/5/2012, Rv. 253525; Sez. 2, n. 47028 del 3/10/2013, Rv. 257520). La censura, peraltro, è inammissibile anche perchè il ricorrente ha omesso del tutto di confrontarsi con gli orientamenti giurisprudenziali consolidati di legittimità.
3.1.2. Inammissibile per carenza di interesse è secondo motivo in ordine al corretto calcolo della sospensione. Invero, anche riconoscendosi la fondatezza della doglianza riguardo alla necessaria prevalenza del rinvio dettato da esigenze istruttorie rispetto al coincidente motivo di astensione degli avvocati, si tratterebbe di sottrarre 86 giorni ai complessivi 429. Il risultato non cambia anche correggendo l'errore di calcolo del periodo intercorrente tra l'udienza del 7/6/2018 e quella del 9/7/2018 da stimarsi in 32 anzichè 34. Il reato di usura di cui al capo A) non risulta ancora prescritto alla data dell'odierna udienza.
2.1.3. Per completezza sul tema relativo alla prescrizione del reato di usura, va inoltre osservato come la ricorrente fondi la sua censura sulla frazionabilità di tale fattispecie, riconducendola alla categoria dei reati istantanei con effetti permanenti, con la possibilità di collegare i diversi episodi in continuazione. Tale prospettazione risulta però disattesa dall'orientamento di questa Corte - alla quale la sentenza di merito si è correttamente riportata - la quale ha affermato che il reato di usura non è assimilabile alla categoria dei reati eventualmente permanenti, ma è configurabile secondo il duplice alternativo schema dei delitti c.d. "a condotta frazionata o a consumazione prolungata", perchè i pagamenti ed i comportamenti compiuti in esecuzione del patto usurario segnano il momento consumativo sostanziale del reato e, dunque, non sono qualificabili come post-factum non punibile (ex multis Sez. 1, n. 40380 dell'11/6/2015, Rv. 264887; Sez. 2, n. 33871 del 2/7/2010, Rv. 248132; Sez. 2, n. 53479 del 15/11/2017, non mass.).
3.2. Inammissibile per manifesta infondatezza (2.2.1) e genericità (2.2.2.) è il primo motivo di ricorso relativo alla dedotta violazione del principio di intangibilità del giudicato.
3.2.1. La ricorrente sostiene che sarebbero divenuti definitivi i capi della precedente sentenza della Corte di appello di Bari del 28/11/2016 (quella oggetto di annullamento con rinvio ad opera di questa Corte) in quanto non oggetto del precedente ricorso per cassazione. In particolare, il reato di usura, dichiarato prescritto fino al settembre 2004; il reato di estorsione, dichiarato prescritto sino al giugno 2003; il reato di calunnia dichiarato interamente prescritto. Da ciò ne fa derivare una limitazione dell'ambito del giudizio di rinvio che avrebbe dovuto riguardare soltanto i capi e di punti in cui era stata affermata la penale responsabilità, non avendo l'imputata rinunziato alla prescrizione con riguardo alle altre condotte. Tuttavia, se si ha riguardo al precedente ricorso per cassazione non risulta una formale accettazione dei punti e dei capi che la sentenza della Corte del 28/11/2016 dichiarò prescritti, con rinunzia a ricorrere tanto agli effetti penali che a quelli civili. Nè tale accettazione può ricavarsi dal tenore del ricorso e del relativo motivo per come articolato. Invero, va osservato come in tale atto si precisò che l'impugnazione comunque si riferiva "a tutti i capi di imputazione ed a tutti i punti dell'impugnata sentenza" (e poi "più in particolare, ai capi della rubrica non dichiarati prescritti ove è stata dichiarata la condanna"). Inoltre, sempre nell'ambito del motivo, si precisò altresì come l'impugnazione riguardasse "il capo della sentenza relativo alle statuizioni civili". Se si ha riguardo alla sentenza resa dalla Corte di appello (sentenza 28/11/2016), se ne ricava come l'affermazione della responsabilità civile abbia avuto ad oggetto l'intera accusa di usura che quella di estorsione ed anche, "limitatamente agli effetti civili" l'imputazione relativa alla calunnia, estinta per prescrizione (vedi pag. 35). Pertanto, posto che la decisione di appello - ai fini della responsabilità civile - estese doverosamente l'ambito di giudizio all'intero fatto illecito, anche nelle parti prescritte (tenuto conto che vi era costituzione di parte civile e, dunque, sussistendo l'obbligo per il giudice dell'impugnazione di provvedere sul punto nonostante la declaratoria di prescrizione), irragionevole sarebbe stato per l'imputata da un lato rinunziare all'impugnazione sui capi prescritti agli effetti penali e dall'altro, invece, estenderla all'intero fatto costitutivo ai fini civili. In conclusione, la formula utilizzata nel precedente ricorso per cassazione avverso la prima sentenza della Corte di appello non può ritenersi idonea ad integrare l'accettazione degli effetti del giudicato conseguenti alla rinunzia all'impugnazione sui capi e punti della sentenza relativi a condotte dichiarate prescritte che quindi vennero impugnate tanto agli effetti penali che a quelli civili.
3.2.2. Ma la censura presenta anche aspetti di genericità. Invero, anche laddove, infatti, si ritenesse che al giudice del rinvio fosse precluso pronunciare sulle condotte dei capi della sentenza per le quali la Corte di appello in prima istanza aveva dichiarato la prescrizione, stante l'assenza di ricorso per cassazione sul punto ad opera del pubblico ministero - in particolare, con riguardo all'intero capo C), nonchè alle condotte commesse sino a settembre 2004 per l'usura di cui al capo A) e alle condotte commesse sino al (OMISSIS) per l'estorsione di cui al capo B) - la ricorrente non specifica il relativo vulnus. Invero, con riferimento agli effetti penali va osservato quanto segue: 1) quanto al delitto di estorsione, la sentenza di rinvio impugnata era tenuta a pronunciarsi in quanto residuava una parte di condotta che non era stata ancora dichiarata prescritta dalla sentenza precedente; la sentenza impugnata ne ha correttamente dichiarato l'intera prescrizione, eliminando la relativa pena; 2) quanto al delitto di calunnia, l'aver reiterato la pronuncia di estinzione per prescrizione già adottata dalla prima sentenza di appello non determina in concreto alcun pregiudizio per la ricorrente; 3) quanto al delitto di usura, la sentenza impugnata, in aderenza con l'orientamento espresso da questa Sezione, ha ritenuto l'usura un delitto a condotta frazionata o a consumazione prolungata, perchè i pagamenti effettuati dalla persona offesa in esecuzione del patto usurario compongono il fatto lesivo penalmente rilevante, di cui segnano il momento consumativo sostanziale, e non sono qualificabili come "post factum" non punibile dell'illecita pattuizione (ex multis vedi: Sez. 2, n. 37693 del 4/6/2014, Rv. 260782; Sez. 2, n. 40380 dell'11/6/2015, Rv. 264887). Discostandosi dalla precedente sentenza di appello - che aveva ritenuto ciascuno dei tre episodi di usura contestati come singolo reato istantaneo ad effetti permanenti, considerando gli effetti di ciascun episodio come post factum non punibili e dichiarato la prescrizione delle condotte poste in essere sino al settembre 2004 - la sentenza impugnata ha inflitto una pena "unitaria", condizionalmente sospesa. La ricorrente lamenta l'errore di diritto sul rilievo che alla Corte di rinvio fosse precluso considerare unitario il reato sulla scorta della qualificazione giuridica già asseverata dalla prima sentenza di appello che aveva dichiarato parte delle condotte prescritte, ma non ne fa ricadere, sul piano del contenuto della doglianza, alcun diretto effetto sul trattamento sanzionatorio. La censura è quindi inammissibile per carenza di interesse.
Nè sarebbe ravvisabile un'ipotesi di reformatio in peius - peraltro neppure paventata nel ricorso - avendo la Corte di merito comunque inflitto una pena inferiore a quella irrogata dai precedenti giudici di merito ed avendo questa Corte di legittimità affermato che in tema di tema di impugnazioni, non viola il divieto di "reformatio in peius" la sentenza che, su appello del solo imputato, dia al fatto una qualificazione giuridica diversa e più grave, ostativa alla declaratoria d'estinzione per prescrizione, in quanto tale divieto non garantisce al condannato un trattamento sotto ogni profilo più favorevole di quello riservatogli dal primo giudice, ma impedisce soltanto un trattamento sanzionatorio deteriore (Sez. 2, n. 46712 del 30/10/2019, Rv. 277599).
3.3.3. Parimenti inammissibili sono le doglianze agli effetti civili. La Corte di merito era tenuta, ai sensi dell'art. 578 c.p.p. e stante l'immanenza della costituzione di parte civile, a decidere sull'impugnazione in ordine alle condotte dichiarate prescritte (usura ed estorsione). Sul punto, la doglianza che parte delle condotte di usura ed estorsione fosse stata dichiarata già prescritta dalla precedente Corte di merito nulla rileva in questa sede, in quanto le censure mosse con le impugnazioni, incentrate anche sulla idoneità degli elementi probatori raccolti, ne imponevano una trattazione unitaria, alla luce della stretta dipendenza dei vari fatti di cui si compone il relativo capo di imputazione, ai fini dell'affermazione del fatto costitutivo del diritto posto a fondamento della pretesa civilistica. Quanto, poi, al delitto di calunnia sulla cui sussistenza ai fini della responsabilità civile la Corte si è pronunciata (vedi pag. 28, numerazione apportata da questa Corte, non avendo l'estensore numerato le pagine della sentenza), anche laddove la cognizione agli effetti civili fosse stata preclusa dal giudicato, la dichiarazione di prescrizione risulterebbe reiterativa di quella già affermata dalla precedente sentenza, la quale, al pari di quella impugnata nell'odierno processo, aveva comunque asseverato, in ossequio al disposto dell'art. 578 c.p.p., sul piano della motivazione la responsabilità civile della ricorrente che seguiva quella penale affermata dal giudice di primo grado. Peraltro, la sentenza impugnata nulla ha statuito in ordine alle spese della parte civile (non essendo comparsa), pertanto nessun pregiudizio può rilevarsi per la ricorrente anche sotto tale profilo.
4. Il quarto motivo - relativo alla mancanza della motivazione - in ordine alla richiesta di assunzione, ai sensi dell'art. 603 c.p.p., di prove ritenute dalla ricorrente decisive (si tratta di istanze istruttorie volte all'esame di testimoni, del ct della difesa e degli atti del procedimento penale relativo alla denunzia sporta dalla zia del V. contro l'imputata), è infondato. Invero, la questione risulta essere stata esaminata dalla Corte di appello all'udienza del 6/6/2016, ove la succinta motivazione a fondamento del rigetto delle istanze istruttorie ("ritenuta non assolutamente necessaria ai fini della decisione la rinnovazione istruttoria richiesta dalla difesa dell'appellante") trova successiva ed adeguata motivazione anzitutto nella prima sentenza della Corte di merito - non annullata sul punto da quella di questa Sezione e le cui argomentazioni integrano, stante la concordanza, quelle della sentenza impugnata nel presente giudizio - in ragione della tardività, superfluità o irrilevanza dei temi di prova dedotti (vedi pag. 7). Tale giudizio, del resto, rinviene sempre nella prima sentenza di appello ulteriori argomentazioni di conforto (vedi pagg. 34 e 35) ove si ricava come le "nuove" prove richieste o riguardavano temi già risolti con la documentazione già acquisita e soprattutto con gli estratti conto bancari, ovvero temi marginali o irrilevanti. Ad analoga conclusione del resto si perviene alla luce della sentenza impugnata, ove l'irrilevanza di alcuni testi della difesa (in particolare della Carrella) e della documentazione richiesta (gli atti del procedimento penale poi archiviato) trovano adeguata motivazione in punto di non necessaria rilevanza ai fini del decidere (vedi pag. 26). Parimenti è a dirsi anche con riguardo alle altre fonti di prova indicate (tra cui il Va.Fr.Sa., le cui dichiarazioni rese a discarico alla difesa sono state comunque apprezzate), da ritenersi logicamente implicitamente disattese, alla luce anche del compiuto esame dei testi a discarico indotti dalla difesa (su quali la Corte di merito si sofferma puntualmente) e, dunque, dell'esaustività dell'istruttoria nel complesso svolta, tale da non richiedere gli ulteriori approfondimenti sollecitati nell'atto di appello. Deve al proposito evidenziarsi che, nel giudizio d'appello, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, prevista dall'art. 603 c.p.p., comma 1, è subordinata alla verifica dell'incompletezza dell'indagine dibattimentale e alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria e tale accertamento comporta una valutazione rimessa al giudice di merito che, se correttamente motivata come nel caso in esame, è insindacabile in sede di legittimità (Sez. 4 n. 18660 del 19/2/2004, Montanari, Rv. 228353; Sez. 3 n. 35372 del 23/5/2007, Rv. 237410; Sez. 3 n. 8382 del 22/1/2008, Rv. 239341).
5. Inammissibile è il quinto motivo di ricorso con cui si è dedotto il vizio di motivazione in punto di responsabilità. Dalla lettura della sentenza della Corte territoriale non emergono, nella valutazione delle prove, evidenti illogicità, risultando, invece, l'esistenza di un logico apparato argomentativo sulla base del quale si è pervenuti alla conferma della sentenza di primo grado con riferimento alla responsabilità dell'imputata anche prescindendo dalla consulenza tecnica del Dott. B., esclusa da questa Corte con la sentenza di annullamento perchè irritualmente acquisita al fascicolo per il dibattimento all'udienza del 10/5/2011. Con riferimento alle censure mosse riguardo l'attendibilità della persona offesa, il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito appare conforme ai criteri dettati da questa Corte, secondo cui le dichiarazioni della persona offesa - cui non si applicano le regole dettate dall'art. 192 c.p.p., comma 3, - possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone e corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto (Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Rv. 265104). Nel caso in esame, il giudice di seconde cure, al pari di quello di primo grado (vedi pagg. 4-6 della sentenza del Tribunale), risulta essersi fatto carico di apprezzare le dichiarazioni della persona offesa, puntualmente ricostruite nella loro evoluzione logica e temporale (vedi pagg. 10-18), in punto sia di attendibilità soggettiva che oggettiva, escludendosi il rilievo di alcune contraddizioni o discrasie alla luce delle condizioni personali del dichiarante e del contesto fattuale della vicenda che lo vedeva esposto anche verso i propri familiari. Inoltre, la versione dei fatti riferita dalla persona offesa è stata valutata alla luce degli altri elementi di tipo dichiarativo, documentale ed investigativo acquisiti nel processo, di carattere molteplice, di cui si è dato conto nella sentenza impugnata (vedi pagg. 18-21) e che risultano convergenti con quanto dichiarato. Peraltro le dichiarazioni della p.o. risultano compiutamente valutate nel contesto degli ulteriori elementi passati in rassegna dal giudice di primo grado ed alla luce degli elementi di prova a discarico indotti con i testi a difesa, la cui rilevanza è stata motivatamente esclusa anche sulla scorta delle censure formulate con l'atto di appello (vedi pagg. 22-28).
Di conseguenza, il pur apprezzabile sforzo difensivo si risolve nel prospettare un'opposta versione dei fatti - volta ad escludere l'esistenza di un rapporto di prestito tra la ricorrente e la persona offesa, tanto più di carattere usurario, nonchè l'esistenza di una condizione di tossicodipendenza di base in capo al V. che lo avrebbe esposto a consistenti debiti verso soggetti terzi e pericolosi, così da costringerlo a svendere il proprio patrimonio - che finisce, in questa sede, per assumere valenza di merito, in quanto volta a sollecitare una rilettura degli elementi fattuali della vicenda (peraltro, anche laddove si fosse acclarato lo stato di tossicodipendenza, tale condizione, per come rilevato dalla sentenza impugnata, non appare affatto in contraddizione con la richiesta di prestiti, a ciò ricorrendo proprio chi ha necessità di reperire denaro per approvvigionarsi e non vuole esporsi verso i propri familiari; l'ipotesi poi che le richiesta dovute al dedotto stato di tossicodipendenza fossero dirette a soggetti terzi poco raccomandabili resta solo un'ipotesi di carattere assertivo che non trova alcun riscontro nelle sentenze di merito). Sono, infatti, precluse in questa sede tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, Rv. 262965). Nè la Corte Suprema può esprimere alcun giudizio sulla rilevanza e sull'attendibilità delle fonti di prova, con la conseguenza che le scelte compiute dal giudice di merito, se coerenti, sul piano logico, con un'esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che il processo formativo del libero convincimento del giudice non ha subito il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un'imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova" (Sez. 6, n. 14054 del 24/3/2006, Rv. 233454). Il controllo di legittimità sulla struttura razionale della motivazione deve, quindi, verificare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata che deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione e attraverso l'esame di specifici atti del processo, di rilievo decisivo ai fini del giudizio, che siano stati trascurati o illogicamente valutati (Sez. 3, n. 28143 del 22/5/2012, n. m.).
6. Manifestamente infondato è il sesto motivo di ricorso con cui si deduce il vizio di motivazione (sotto il profilo della carenza e contraddittorietà) in ordine al diniego di ammissione della ricorrente al rito abbreviato condizionato e, di conseguenza, alla riduzione premiale di un terzo in punto di trattamento sanzionatorio. La censura - per come rilevato dalla Corte territoriale nella motivazione della sentenza (vedi pagg. 29-30) - muove infatti da un errato presupposto, ossia che si possa ricorrere all'integrazione probatoria di cui all'art. 438 c.p.p., comma 5, per saggiare nel contraddittorio delle parti l'attendibilità del principale testimone di accusa. Trattasi, all'evidenza, di un'esigenza a cui è deputato a far fronte il rito dibattimentale, incentrato sulla cross examination e sulla valenza probatoria di quanto in quella sede esclusivamente dichiarato. Invece la richiesta di giudizio abbreviato condizionata ad un'integrazione probatoria, quando ha ad oggetto la rinnovazione dell'esame di una persona che ha già reso dichiarazioni in fase di indagini, deve riguardare temi e circostanze di fatto da verificare che debbono differenziarsi da quelli oggetto delle informazioni già rese, in quanto la formulazione testuale dell'art. 438 c.p.p., comma 5, postula che l'attività istruttoria abbia carattere integrativo, ossia vada a completare gli elementi informativi acquisiti, in quanto parziali o insufficienti e non, invece, soltanto a rinnovarli nel contraddittorio delle parti (Sez. 2, n. 2919 del 10/12/2019, dep. 2020, Rv. 277799).
7. Inammissibile per carenza di interesse è il settimo motivo di ricorso in ordine alla sussistenza delle circostanze aggravanti del delitto di usura e di quella comune di cui all'art. 61 c.p., n. 7, posto che la Corte di merito ha applicato le circostanze attenuanti generiche in misura prevalente. In ogni caso, la motivazione della sentenza impugnata sfugge sul punto al paventato vizio di legittimità rinvenendosi congrua motivazione sul punto: è stato, infatti, asseverato dalle sentenze di merito come il V. esercitasse l'attività professionale di rappresentante, contesto nell'ambito del quale maturarono anche le richieste, nonchè abbia subito un danno patrimoniale di rilevante gravità consistente nella perdita di ben due immobili. L'entità notevole della somma pari al valore dei beni accentra in sè l'intero disvalore dell'aggravante
8. Infondato è l'ottavo motivo relativo alle statuizioni civili sotto tutti i differenti profili denunziati.
8.1. Quanto al vizio di motivazione, peraltro genericamente dedotto, la condanna generica al risarcimento del danno (pronunciata dalla sentenza di primo grado e confermata sul punto dalla Corte territoriale) trova adeguata argomentazione nella sentenza impugnata, essendosi ricostruiti puntualmente i fatti costitutivi posti a fondamento della condanna generica, tanto ai fini penali (per l'usura) che civili (quanto alla calunnia e alla estorsione)(vedi pag. 28-29).
8.2. La restituzione dei beni in favore della parte civile consegue alla nullità (per causa illecita) degli atti pubblici di trasferimento stipulati dal notaio ed è conforme al disposto di cui all'art. 644 c.p., che facendo salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni (e al risarcimento del danno) la prevede quale alternativa alla confisca.
8.3. La richiesta - da parte del sostituto del difensore della parte civile - di correzione di errore materiale della sentenza al fine di ottenere il riconoscimento delle spese di lite di cui la Corte di merito ha omesso la liquidazione in sentenza, non è un atto di esclusiva competenza del patrono di parte civile (come ad es. la costituzione in giudizio), in quanto rientra nell'ambito delle prerogative relative al mandato ad litem e, dunque, nell'esercizio di quei poteri difensivi di carattere processuale che il difensore titolare può legittimamente conferire al sostituto e che quest'ultimo può esercitare ai sensi dell'art. 102 c.p.p..
8.4. Con riguardo, poi, al ricorso ad opera della Corte di merito alla procedura di correzione di errore materiale, nessuna nullità ne può conseguire, in quanto trattasi di statuizione di natura accessoria e obbligatoria e, dunque, emendabile con tale procedura (Sez. 5, n. 14702 del 4/3/2019, Rv. 275254; Sez. 5, n. 30743 del 26/3/2019, Rv. 277152), non risultando dalla motivazione elementi indicativi della volontà del giudice di disporre la compensazione, totale o parziale, di dette spese ed emergendo, invece, la giustificazione del pagamento in favore della parte civile. Peraltro, la relativa eccezione - peraltro non tradotta in una specifico richiamo alla tipologia di sanzione applicabile - anche laddove integrasse un'ipotesi di nullità sarebbe, ai sensi dell'art. 182, comma 2, codice di rito, tardiva, in quanto alla relativa udienza del 6/12/2018, ove la Corte di merito dispose l'integrazione del dispositivo liquidando le spese di lite sostenute dalla parte civile, era presente il difensore della ricorrente che nulla ha opposto (vedi verbale allegato alla sentenza impugnata).
9. Inammissibile è, infine, l'ultimo motivo di ricorso con cui la ricorrente ripropone - senza elementi di novità - l'eccezione di esclusione dal giudizio della parte civile per violazione del principio del ne bis in idem, trattandosi di questione già risolta da questa Corte con ordinanza resa all'udienza del 22/12/2017, sul rilievo dell'assenza di identità di giudizio, posto che la causa civile intentata contro l'imputata contiene petitum che non presenta integrale coincidenza con quello oggetto della domanda proposta con la costituzione di parte civile ("integrale risarcimento del danno, compreso quello morale").
10. In conclusione, va rigettato il ricorso, condannandosi la ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte civile costituita V.M., liquidate come in dispositivo, tenendosi conto anche dell'attività defensionale svolta (la difesa ha presentato anche una memoria a fronte die motivi di ricorso dell'imputata).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè delle spese sostenute nel grado dalla parte civile V.M. che liquida in Euro 4.000,00 oltre spese generali al 15%, CPA ed IVA.
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2020