RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza in data 12.4.2021 la Corte di Appello di Milano ha confermato la penale responsabilità di B.P. per i reati, tra loro avvinti dal vincolo della continuazione, di maltrattamenti e di violenza sessuale articolatasi in plurimi episodi commessi ai danni della moglie nel corso della convivenza coniugale protrattasi dal 2002 al marzo 2015 e di violazione degli obblighi di assistenza nei confronti dei figli minori, pur riducendo a parziale modifica della pronuncia resa all'esito del primo grado di giudizio dal Tribunale di Monza, la pena inflittagli a sette anni e quattro mesi di reclusione.
2. Avverso il suddetto provvedimento l'imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando quattro motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo lamenta la manifesta illogicità motivazionale in ordine alla valutazione di attendibilità della vittima essendo stato ritenuto che ad essa fornissero riscontro le deposizioni rese soltanto de relato dall'assistente sociale M., e dall'operatrice volontaria presso un centro assistenziale R. che avevano ricevuto le confidenze della vittima pochi giorni prima la determinazione di costei di separarsi dal marito, e della sua datrice di lavoro che un'unica volta aveva visto nel 2011 la donna con un occhio nero non conoscendone tuttavia le cause e non potendo pertanto ricollegare l'ecchimosi ad alcun episodio di violenza da parte del coniuge, senza che invece fosse stato dato alcun peso alle dichiarazioni delle testi K.Z. e Ko.Ze. e del Dott. D. che avevano riferito fatti appresi per conoscenza diretta, liquidate ciò nondimeno dai giudici distrettuali come irrilevanti e non significative. Evidenzia che le prime due avevano costantemente frequentato l'imputato e la moglie nel corso di tutta la loro vita matrimoniale senza aver mai assistito ad un litigio neppure quando costoro erano stati ospiti, appena giunti in Italia, in casa di una delle due testimoni, mentre il D., medico di famiglia aveva spesso visitato la p.o. senza aver mai riscontrato lesioni od altri segni sulla sua persona né aver mai c:onstatato segni di un disagio familiare. La difesa sottolinea come tanto l'assistente sociale quanto l'operatrice volontaria avessero entrambe appreso le vicissitudini subite dalla p.o. soltanto nel febbraio 2015 quando l'operatrice presso il CAV che aveva ricevute le prime confidenze di costei sulle violenze subite dal marito la aveva accompagnata dall'assistente sociale, evidenziando la contraddizione in cui era caduta la R., che in sede di s.i.t. aveva dichiarato di non aver appreso nulla di specifico dalla donna prima del 26.2.2025 e che invece in sede dibattimentale aveva collocato le suddette rivelazioni nel 2013: lamenta al riguardo come la Corte di appello avesse ignorato tale contrasto attribuendo valenza certa alla data del 2013, laddove una lettura coerente dei dati avrebbe imposto di accreditare come vera la prima versione, non trovando altrimenti spiegazione la condotta dell'operatrice, determinatasi ad accompagnare la vittima dall'assistente sociale, fatto questo avvenuto pacificamente nel febbraio 2015, perché le apprestasse l'aiuto necessario ove non avesse appena appreso la delicata situazione in cui la stessa
assumeva di trovarsi. Viene in estrema sintesi lamentata la mancata valutazione della prova nel suo complesso, condotta in assenza di una rigorosa analisi dei
singoli elementi probatori raccolti e del loro raccordo, per avere la Corte di appello apprezzato secondo criteri autoreferenziali la deposizione della p.o. ignorando tutti quegli elementi che, seppur emersi dalla dialettica dibattimentale ed evidenziati dalla difesa, si ponevano con essa in stridente contrasto. Stigmatizza l'incongruenza della suddetta deposizione, priva di contestualizzazioni e di specificità nel racconto degli episodi di cui neppure era emerso il numero approssimativo, singolare essendo invece la circostanza come la loro rivelazione fosse avvenuta dopo ben quindici anni di matrimonio e la nascita di tre figli, senza che alcuna esternazione, neppure parziale, fosse mai prima emersa neppure rivolgendosi ai familiari e neanche alla madre, nessuno dei quali aveva potuto testimoniare alcunché al riguardo.
2.2. Con il secondo motivo contesta, invocando il vizio motivazionale, la configurabilità del reato di cui all'art. 570 c.p., comma 2, rilevando come la condotta ascritta all'imputato consistita nel non aver provveduto in maniera sufficiente al mantenimento della prole, fosse ben diversa dall'aver fatto mancare ad essa i mezzi di sussistenza configurante la condotta tipica del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, contingenza questa comunque esclusa nella specie dai proventi derivanti dall'attività lavorativa della moglie e dal lavoro da lui stesso svolto sia pure irregolarmente come altrimenti non avrebbe potuto non essere una volta che non gli era stato più rinnovato il permesso di soggiorno e gli era stata ritirata la carta d'identità. Deduce che in ogni caso non era a lui imputabile la perdita del lavoro in precedenza regolarmente svolto essendo fallita l'azienda che lo aveva assunto, e l'impossibilità di svolgere successivamente a causa del diniego del permesso di soggiorno, alcuna attività lavorativa regolare, fatti questi tutti documentati dalla difesa ed invece tralasciati integralmente dalla Corte di appello. Evidenzia inoltre come rosse emerso dalla relazione dei servizi sociali il suo attaccamento affettivo ai figli e il desiderio ripetutamente manifestato di poter vivere con loro, presa in esame dalla sentenza impugnata all'esclusivo fine di negare al prevenuto l'invocata prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravanti.
2.3. Con il terzo motivo contesta il diniego del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravanti, censurando la manifesta illogicità della motivazione che aveva fondato la reiezione dell'istanza sulla mancanza di segni di resipiscenza manifestati dal prevenuto laddove l'esercizio del diritto di difesa consente ad ogni imputato non solo di restare silente, ma addirittura di rendere dichiarazioni mendaci.
2.4. Con il quarto motivo deduce che nella rideterminazione del trattamento sanzionatorio non solo non era stato individuato il reato più grave, ma erano stati applicati gli aumenti ai fini della continuazione interna, senza che fosse stato contestualizzato alcun episodio in criminoso, né indicatone il numero, con conseguente violazione dell'obbligo di rendere motivazione sulla pena inflitta.
3. Con memoria trasmessa via Pec in data 20.4.2022, il difensore ha ulteriormente sviluppato, in replica alla requisitoria del PG, il primo motivo concludendo per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo è inammissibile, in quanto basato su motivi non consentiti in sede di giudizio di legittimità. Le censure del ricorrente attengono invero alla valutazione della prova, che rientra nella facoltà esclusiva del giudice di merito e non può essere posta in questione in sede di giudizio di legittimil:à quando fondata su motivazione congrua e non manifestamente illogica a dispetto del vizio motivazionale solo formalmente invocato. Ed invero, la difesa non individua, all'infuori di una diversa lettura del compendio probatorio che vorrebbe sovrapporre a quella compiuta da entrambi i giudici di merito in doppia conforme, alcuna frattura logica o carenza argomentativi nelle quali possa compendiarsi il vizio devoluto ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), che, deve essere ancora una volta ricordato, si sostanzia nel solo accertamento della congruità e coerenza dell'apparato argomentativo, con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, e non al suo contenuto valutativo, fuoriuscendo dal perimetro operativo di questa Corte il controllo tra prova e decisione: il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria ad essa sottesa, esclusivamente riservata al giudice di merito.
Nel caso di specie, i giudici di appello, nel farsi carico di tutte le deduzioni difensive, sono pervenuti alla sostanziale conferma della sentenza di primo grado attraverso un esame completo ed approfondito delle risultanze processuali, in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logica.
In particolare, i Giudici di merito hanno ritenuto la piena attendibilità della p.o. alla luce sia dell'intrinseca coerenza della propria condotta rimasta inerte nel corso della vita matrimoniale nell'obiettivo di tenere unita la famiglia fino a quando non ha realmente temuto per l'incolumità sia propria che dei figli a fronte dell'ingravescenza della aggressioni del coniuge, sia dei puntuali riscontri forniti al suo racconto dalle deposizioni rese dalle tre persone che avevano ricevuto le sue confidenze sulle violenze subite prima di risolversi a denunciare formalmente il marito. Il travisamento della prova eccepito dalla difesa in ordine alla deposizione della teste R., al di là dei profili concernenti il difetto di autosufficienza del ricorso cui non sono stati neppure allegati i verbali delle dichiarazioni di cui si assume il fraintendimento e della preclusione derivante dal limite del devolutum in presenza di cosiddetta "doppia conforme", si risolve, anch'esso, in un'eccezione di pretesa illogicità motivazionale, che la difesa non riesce tuttavia a riempire di contenuto. Viene infatti puntualmente delineato come l'operatrice presso un centro sociale cui la vittima si era rivolta nel 2013 alla ricerca di un aiuto per non portare a termine la terza gravidanza, avesse ricevuto sin da allora le graduali confidenze della donna che già dalle motivazioni espostele a giustificazione del proprio intendimento consistite nel voler mettere al mondo un altro bambino che fosse costretto a subire la stessa dolorosa esperienza familiare propria e dei suoi fratelli, aveva lasciato trapelare le vessazioni cui era abitualmente sottoposta dal coniuge fino a rivelare a qualche mese di distanza anche le violenze sessuali subite. Racconti questi che, attesa la distanza temporale dalla denuncia che la donna si era risolta a sporgere nel 2015/ sono stati coerentemente ritenuti indici della genuinità del suo racconto. Del resto, analogo riscontro è stato ritenuto con riferimento alla deposizione della datrice di lavoro della p.o. dalla quale emerge, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, che sembra ventilare anche a tale riguardo un preteso travisamento della prova del quale non offre alcuna evidenza, che nel 2011 aveva personalmente constatato un occhio nero della propria collaboratrice la quale, al suo interessamento, le aveva confidato di aver subito una manifestazione di violenza da parte del coniuge, condotta questa ripetutasi nel tempo come emerge dalla sentenza di primo grado che precisa come la teste avesse più volte visto al lavoro la propria dipendente piangente e spaventata a causa delle aggressioni subite per mano dell'imputato, pur rimarcandone il temperamento profondamente riservato, elemento anch'esso coerente con la complessiva condotta tenuta dalla donna nel corso del tempo.
Al cospetto delle solide e puntuali conferme al propalato C. vittima, cui si aggiunge anche la deposizione dell'assistente sociale, il dissenso valutativo espresso dal ricorrente, che vorrebbe al contempo accreditare un'inconsistente valenza alle dichiarazioni dei testi della difesa che, non avendo riferito nulla di significativo sull'assunto che non avrebbero mai assistito ad un litigio della coppia, sono state coerentemente reputate dalla Corte di merito irrilevanti, non può che essere relegato all'inammissibilità.
Ne' maggiore spessore rivestono le doglianze concernenti la omessa individuazione dei singoli episodi delittuosi che attesa la loro cadenza continuativa nel corso della convivenza coniugale, emblematicamente definiti dalla Corte distrettualeDil registro ordinario dei rapporti interpersonali della coppia", integrano, quanto al delitto ex art. 572 c.p. l'abitualità richiesta ai fini della configurabilità della condotta materiale, e quanto agli episodi di violenza sessuale, la assenza di soluzione di continuità posta a fondamento della riconosciuta continuazione ex art. 81 c.p., avendo la vittima costantemente opposto il suo dissenso nei confronti di quello che ai suoi occhi era diventato, proprio in ragione dei brutali maltrattamenti fisici e verbali cui veniva sottoposta in costanza del menage familiare, il suo carnefice.
2. Il secondo motivo concernente la configurabilità del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare nei confronti dei figli minori, non può essere ritenuto meritevole di accoglimento.
Il ricorrente sostiene, per un verso, di aver contribuito con il proprio lavoro saltuario, ancorché in maniera non sufficiente al mantenimento della prole minore che, perciò anche considerando il concorrente contributo della madre, non versava in condizioni tali da comprometterne la sopravvivenza così come richiesto dal precetto penale e, dall'altro di essere stato impossibilitato a svolgere attività lavorativa regolare stante la chiusura per fallimento dell'azienda che lo aveva assunto come dipendente e il diniego opposto dalla P.A. al rinnovo del permesso di soggiorno in Italia.
Al riguardo va rilevato che se è vero che il concetto di "mezzi di sussistenza" ha un ambito più circoscritto di quello di "mantenimento" - il quale non presupponendo lo stato di bisogno dell'avente diritto viene parametrato alla capacità economica dell'obbligato e al tenore di vita del destinatario -, in quanto è indipendente dalla condizione sociale di quest'ultimo e si riferisce all'approvvigionamento di quanto necessario al sostentamento e dunque ad assicurare il soddisfacimento delle più elementari esigenze di vita dell'avente diritto, secondo parametri di carattere universale che prescindono dalle contingenze economiche e sociali dell'obbligato a fronte dello stato di bisogno del beneficiario, la distinzione rimarcata dalla difesa perde tuttavia di significato ove i soggetti destinatari siano, come nel caso di specie, i figli minori i quali versano per definizione nella situazione indicata dal legislatore, in quanto incapaci di produrre un reddito proprio.
Se dunque l'obbligo di provvedere al mantenimento della prole nasce in capo ai genitori per il fatto stesso di essere titolari della responsabilità genitoriale, affinché possa delinearsi il delitto ex art. 570 c.p., comma 2 n. 2), occorre che ad essa non vengano forniti i mezzi di sussistenza, i quali attesa la condizione di indigenza includono non solo quanto necessario per la sopravvivenza vitale (quali il vitto e l'alloggio), ma anche gli strumenti che consentano un sia pur contenuto soddisfacimento di altre complementari esigenze della vita quotidiana (quali, ad es., abbigliamento, libri di istruzione, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione).
Muovendo da tale presupposto occorre coordinare, tale essendo il tema introdotto dalla difesa, l'eventuale inadempimento del singolo genitore a fronte dell'opposta condotta dell'altro che provveda a mantenere attraverso le proprie capacità di lavoro e casalingo la prole nata da entrambi al fine di verificare se in tal caso sia configurabile lo stato di bisogno configurante elemento costitutivo del reato. La ratio dell'incriminazione in esame, a differenza della fattispecie criminosa di cui al successivo art. 570 bis c.p. che si perfeziona con la mera inosservanza all'obbligazione civile, id est nella mancata corresponsione dell'assegno di mantenimento già stabilito dal giudice nei procedimenti volti a mutare lo status familiare fondato sul coniugio, e dunque di separazione, di divorzio e di nullità del matrimonio, a prescindere dalla prova della mancata messa a disposizione dei mezzi di sussistenza e dello stato di bisogno dell'avente diritto per essere stato l'assetto economico familiare già valutato in sede giudiziale con l'imposizione di specifici obblighi a carico di ciascun genitore e comunque del genitore non collocatario (Sez. 6, n. 44629 del 17/10/2013, B., Rv. 256905), è volta invece a colpire quella condotta di inosservanza agli obblighi di assistenza economica che appunto si traduca anche nella deprivazione dei bisogni della vita quotidiana, giusta il bene giuridico protetto, da individuarsi nell'ordine familiare e negli obblighi di assistenza in tale ambito, con specifico riguardo alla solidarietà nei confronti dei familiari che si trovino in stato d'indigenza, che sono, secondo la tassativa elencazione contenuta nella norma in esame, i discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, gli ascendenti e il coniuge cui non sia imputabile la separazione per colpa.
Dal momento, tuttavia, che secondo la corrente interpretazione giurisprudenziale, i figli di età minore sono, a differenza di tutti gli altri familiari, l'unica categoria per la quale non è richiesta, ai fini del perfezionamento del reato in capo all'obbligato, la dimostrazione del relativo stato di bisogno, essendo tale condizione presunta in capo ai medesimi, proprio in quanto non produttori di reddito, juris tantum (Sez. 6, n. 26725 del 26/3/2003, Rv. 225875; Sez. 6, n. 18572 del 3/5/2019, Rv. 275726), il logico corollario di tale premessa è che la suddetta presunzione possa essere superata attraverso la dimostrazione, necessariamente incombente sulla difesa stante l'inversione dell'onere della prova discendente dalla suddetta linea interpretativa, che lo stato di bisogno non sussista, evenienza questa che ben può configurarsi per effetto della condotta dell'altro genitore, ove questo provveda in via esclusiva, in virtù delle sue floride risorse economiche, a garantire il benessere e l'agiatezza della prole. Pertanto, ove sia stato dimostrato che malgrado l'inadempimento dell'imputato all'obbligo di contribuzione a suo carico nei confronti dei figli minori, costoro non versassero in stato di bisogno stante il mantenimento loro fornito dall'altro genitore tale da comprendere e superare l'approvvigionamento dei mezzi di sussistenza secondo l'accezione sopra delineata, non può reputarsi sussistente il reato ex art. 570 c.p., comma 2 n. 2. E ciò a differenza della fattispecie delittuosa di cui all'art. 570 bis c.p., introdotta dal D.Lgs. n. 21 del 2018, in cui la condotta penalmente rilevante è integrata dal mancato versamento dell'assegno di mantenimento, obbligo questo gravante sul genitore per effetto della determinazione giudiziale sull'an e sul quantum debeatur all'esito di un procedimento volto a mutare lo status familiare fondato sul coniugio, ovvero relativo alla regolamentazione degli obblighi nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio ex art. 337 bis c.c., indipendentemente dalla concorrente contribuzione dell'altro ai bisogni della prole, non essendo in tal caso lo stato di bisogno previsto quale elemento costitutivo del reato.
Interpretazione questa che del resto si pone in linea con la recente pronuncia di questa Corte che, pur non affrontando ex professo la questione dell'adempimento da parte dell'altro genitore al mantenimento della prole minore in costanza del rapporto di coniugio, ha affermato che sussiste concorso formale eterogeneo e non rapporto di consunzione, fra il delitto previsto dall'art. 12-sexies della L. 1 dicembre 1970, n. 898 (attualmente dall'art. 573-bis c.p.) e quello previsto dall'art. 570 c.p., comma 2, n. 2, in quanto il primo richiede esclusivamente la mancata corresponsione dell'assegno divorzile o di separazione, mentre il secondo presuppone che tale inadempimento abbia fatto mancare al beneficiario i mezzi di sussistenza (Sez. 6, Sentenza n. 18572 del 10/04/2019 - dep. 03/05/2019, Rv. 275677).
Ne' tali conclusioni possono ritenersi sconfessate dai precedenti approdi giurisprudenziali che hanno ritenuto per lo più con riferimento all'omesso versamento dell'assegno di mantenimento a carico dell'imputato, configurabile il reato di cui all'art. 570 c.p., comma 2, anche quando uno dei genitori ometta la prestazione dei mezzi di sussistenza in favore dei figli minori o inabili, ed al mantenimento della prole provveda in via sussidiaria l'altro genitore trattandosi di pronunce riferite a condotte antecedenti all'introduzione del reato di cui all'art. 570 bis c.p. (Sez. 6, Sentenza n. 34675 del 07/07/2016, Rv. 267702; Sez. 6, Sentenza n. 53607 del 20/11/2014, Rv. 261871; Sez. 6, Sentenza n. 8912 del 04/02/2011, Rv. 249639)
Se tutto ciò è vero in linea di principio, nessuna dimostrazione sull'insussistenza dello stato di bisogno in capo ai figli minori è stata tuttavia fornita dall'imputato, nulla avendo dedotto sui redditi percepiti dalla moglie, né sulle sue condizioni patrimoniali di talché non sussistono i presupposti per affermare che la prole non versasse, indipendentemente dalla sua contribuzione, in stato di bisogno, comprovato invece dalle plurime richieste di sussidio ai Servizi Sociali del Comune di residenza effettuate dalla consorte, e che conseguentemente egli non abbia per effetto della sua condotta missiva, fatto venir ad essa meno i mezzi di sussistenza; né tantomeno risulta che egli, una volta perduto il lavoro, per effetto del fallimento dell'azienda di cui sarebbe stato dipendente, abbia contribuito nei limiti della propria capacità lavorativa, alle necessità della prole, essendo stato di contro accertato dai giudici di merito che "quando non lavorava passava il suo tempo al bar", intento in passatempi ludici o ad alimentare vizi personali di vario genere, in cui impiegava le sue scarse risorse economiche. Risorse che non solo lo stesso ricorrente riconosce di aver percepito, ma che in ogni caso rivelano, malgrado la sua posizione irregolare sul territorio italiano stante il mancato rinnovo del permesso di soggiorno, la sua integra capacità lavorativa e la conseguente possibilità di contribuzione alle necessità del proprio nucleo familiare, sussistendo pertanto tanto l'elemento materiale del reato in contestazione quanto quello psicologico, ad integrare il quale è sufficiente il dolo generico consistente nella volontà cosciente e libera di sottrarsi, senza giusta causa, agli obblighi inerenti alla propria qualità e nella consapevolezza del bisogno in cui versa il soggetto passivo (Sez. 6, Sentenza n. 5431 del 06/03/1985 -dep. 28/05/1985, Rv. 169512).
3. Inammissibili sono altresì le censure afferenti il giudizio di equivalenza tra le attenuanti generiche e le contestati aggravanti che in quanto afferenti ad un profilo della rejudicanda riservato all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito non sono deducibili in sede di legittimità se non nell'ipotesi di motivazione manifestamente illogica o di determinazione frutto di arbitrio.
Evenienza questa certamente non ricorrente nel caso di specie, ove si consideri che il ricorrente non risulta aver indicato alcuna specifica ragione a fondamento dell'invocata prevalenza delle attenuanti generiche con i motivi di appello. Pertanto, prive di consistenza si rivelano le censure volte a contrastare con il presente ricorso il giudizio negativo profferito dalla Corte di appello in termini di mancata resipiscenza del prevenuto a fondamento del diniego della richiesta difensiva, valutato esclusivamente a conferma dell'insussistenza di elementi positivi che consentissero l'accoglimento della richiesta. Deve essere richiamato al riguardo il principio già affermato da questa Corte, secondo il quale in tema di bilanciamento di circostanze eterogenee - per il carattere globale del giudizio che trova il suo fondamento nella necessità di giungere alla determinazione del disvalore complessivo dell'azione delittuosa onde quantificare la pena nel modo più aderente al caso concreto - il giudice di merito non è tenuto a specificare le ragioni che hanno indotto a dichiarare la equivalenza piuttosto che la prevalenza, a meno che non vi sia stata una specifica richiesta della parte, con indicazione di circostanze di fatto tali da legittimare la richiesta stessa (Sez:. 7, n. 11210 del 20/10/2017 - dep. 13/03/2018, Z, Rv. 272460), gravando in tale evenienza in ogni caso sull'interessato, pena l'inammissibilità del motivo per difetto di specificità, l'onere di contrastare specificamente la motivazione che abbia disatteso tali richieste.
4. Il quarto motivo non può essere ritenuto meritevole di accoglimento. Il principio fissato dalle Sezioni Unite nella recente sentenza pronunciata in tema di reato continuato, secondo cui il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l'aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite (Sez. U, Sentenza n. 47127 del 24/06/2021 - dep. 24/12/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01) risponde essenzialmente all'esigenza di verificare attraverso le argomentazioni addotte che sia stato rispettato il rapporto di proporzione delle pene in relazione ai plurimi illeciti accertati, oltre a quella di controllare che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene.
Tuttavia va rilevato che la realtà criminale offre esempi variegati in cui la continuativa reiterazione della medesima condotta illecita da parte dell'agente, pur dando vita a singoli reati, per loro natura non abituali né permanenti (così come accade non solo per i reati compiuti ai danni della medesima vittima come quelli di violenza sessuale in costanza di un rapporto di convivenza specie se di lunga durata, ma altresì per i delitti commessi nei confronti di un numero indeterminato di persone come nel caso dello spacciatore di droga che smerci con cadenza quotidiana singoli quantitativi di merce per un periodo prolungato), non consente di esaminare analiticamente ognuno degli episodi caratterizzati dall'identica matrice delittuosa né, per effetto del loro incessante susseguirsi, di individuarne il numero. In tal caso non può ritenersi aprioristicamente passibile di censura la quantificazione - nella sostanziale impossibilità di esplicitare l'incidenza ponderale del singolo reato-satellite nel momento, necessariamente antecedente rispetto a quello della determinazione della "pena complessiva", della valutazione della dell'incremento da apportare in relazione a ciascun reato "minore" alla pena-base -, operata in via forfettaria dal giudice ai fini della continuazione interna tra delitti omogenei, occorrendo invece coordinare il principio affermato dal supremo consesso di questa Corte alle specificità della condotta delittuosa. Quello che occorre verificare ai fini della legalità della pena, proprio tenendo conto della ratio informatrice del suddetto approdo giurisprudenziale, è il rapporto di congruità tra l'aumento determinato in termini complessivi per i reati satellite, unitariamente considerati nella loro dimensione diacronica, e la pena base fissata per il reato più grave, dovendo essere rispettato, per effetto della suddetta quantificazione, ai fini del controllo sul corretto esercizio del potere discrezionale, l'incidenza dell'aumento rispetto al risultato sanzionatorio cui si sarebbe pervenuti con il sistema del cumulo materiale e al contempo la sua proporzionalità con riguardo sia alla valutazione della gravità degli episodi in continuazione, sia alla quantificazione della pena base, con esclusione di sperequazioni sanzionatorie per le medesime fattispecie di reato.
A tali criteri risponde il trattamento sanzionatorio applicato nel caso di specie con il contenimento della pena base nel minimo edittale in relazione ad uno dei reati di violenza sessuale ritenuto più grave e dell'aumento di un anno di reclusione fissato per la continuazione interna con riferimento ai reati della stessa specie, in misura corrispondente a quello determinato per il delitto di maltrattamenti in ragione dell'identica estensione temporale delle due condotte delittuose protrattesi entrambe per tutta la durata della convivenza matrimoniale e ritenute della medesima gravità, cui ha fatto seguito un ulteriore aumento di quattro mesi, e dunque più contenuto rispetto ai precedenti in considerazione del diverso arco edittale previsto dall'art. 570 c.p., e della conseguente minore gravità, per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare.
Del resto, le contestazioni che la difesa rivolge sul punto alla sentenza impugnata risultano, per un verso, speciose, quali quelle relative alla mancata individuazione del reato più grave, omissione questa francamente non rinvenibile nel provvedimento in esame posto che i giudici distrettuali con la riduzione dell'aumento applicato dal primo giudice con riferimento alla continuazione esterna (capo A e capo C), hanno confermato la pena base e con essa, implicitamente, anche la condotta di maggior gravità indicata già dal Tribunale di Monza, e dall'altro, meramente contestative, venendo censurata la mancata indicazione dei singoli episodi di violenza sessuale e dell'aumento per ciascuno di essi applicato, senza confrontarsi con la ricostruzione fattuale delle dinamiche delittuose ai danni della vittima, definite dalla Corte distrettuale come "la tragica costante del suo registro dei rapporti con l'imputato".
5. Deve quindi concludersi per il rigetto del ricorso, seguendo a tale esito la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ex art. 616 c.p.p..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processualio.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del DLgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 28 aprile 2022.
Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2022