Tribunale Potenza, 16/05/2024, n.819
Principio di diritto
Il requisito della comunicazione con più persone, necessario per configurare il reato di diffamazione ai sensi dell’art. 595 c.p., è soddisfatto quando il mittente prevede o vuole che il contenuto della comunicazione sia diffuso a terzi. Nel caso di dichiarazioni confidenziali rese ad un pubblico ufficiale in assenza di una richiesta esplicita o implicita di divulgazione, il requisito non si ritiene integrato. La diffusione da parte del destinatario della confidenza è riconducibile esclusivamente alla sua iniziativa e non determina responsabilità dell’autore della dichiarazione. (Cass. Sez. V, n. 26560/2014; Cass. Sez. V, n. 23222/2011)
Sintesi della decisione
Il Tribunale di Potenza, in sede di giudizio civile di rinvio, ha rigettato l’appello proposto da Ge.Do., confermando la sentenza di assoluzione per il reato di diffamazione della convenuta Ge.Ma. e negando la domanda risarcitoria per la mancanza del requisito essenziale della comunicazione con più persone. La sentenza ha ribadito che la natura confidenziale della dichiarazione resa dall'imputata esclude la configurabilità del reato di diffamazione, in quanto la divulgazione delle dichiarazioni è stata determinata da iniziativa autonoma del destinatario, senza che l’imputata ne fosse consapevole o ne avesse avuto intenzione.
RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Con atto di citazione, datato 31/12/2015, Ge.Do. conveniva in giudizio Ge.Ma. dinanzi al Tribunale di Potenza in funzione di giudice d'appello, al fine di conseguirne la condanna al risarcimento di tutti i danni, quantificati in Euro 2.500,00 o nel diverso importo da accertarsi, patiti in ragione delle dichiarazioni diffamatorie rese dalla convenuta ai danni dell'istante.
1.1. L'attore esponeva che: a) in data 08/10/2003 presentava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza denuncia querela nei confronti della convenuta per dichiarazioni diffamatorie da essa rese dinanzi al Maresciallo Lu.Ca.; b) all'esito si instaurava, a carico della querelata Ge.Ma., il procedimento penale n. 94/2008 R.G.N.R., nel quale si costituiva parte civile l'odierno attore, procedimento che si concludeva con la sentenza n. 51/2010 emessa il 27/05/2010 dal Giudice di Pace di Potenza, che assolveva l'imputata "perché il fatto non costituisce reato"; c) su appello della parte civile, la sentenza assolutoria veniva riformata dal Tribunale di Potenza, in funzione di giudice di secondo grado, e in particolare, con la sentenza n. 130/2013 del 04/02/2013, veniva riconosciuta la penale responsabilità dell'imputata ai soli fini della responsabilità civile, con condanna del risarcimento del danno morale nella somma di Euro 2.000,00; d) la Corte di Cassazione, sollecitata su ricorso dell'imputata, con sentenza n. 1423/2015 del 24/04/2015 annullava la sentenza d'appello, impugnata agli effetti civili, e rinviava la causa per un nuovo esame al giudice civile competente per valore in grado d'appello.
1.2. L'attore, ripercorrendo i tratti salienti della vicenda processuale, evidenziava la ricorrenza dell'illecito diffamatorio, insistendo per il riconoscimento del risarcimento del danno.
2. Con comparsa di costituzione e risposta, depositata il 04/05/2016, si costituiva nel presente giudizio Ge.Ma., contestando la domanda attorea sul rilievo che, come confermato dalla Cassazione, non fosse stato dimostrato il requisito (essenziale per la ricorrenza dell'illecito diffamatorio) della comunicazione con più persone, in ragione della natura confidenziale della comunicazione effettuata dalla imputata.
Pertanto, concludeva per il rigetto dell'avversa domanda, con vittoria di spese, e dispiegava domanda riconvenzionale volta al ristoro del danno asseritamente subito.
3. La causa, rinviata per la precisazione delle conclusioni senza attività istruttoria, perveniva allo scrivente nel dicembre 2022; all'udienza del 14/02/2024, sostituita mediante il deposito di note di trattazione scritta ai sensi dell'art. 127 ter c.p.c., veniva rimessa in decisione, previa concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c.
4. Preliminarmente, è opportuno evidenziare come la presente sede processuale costituisce giudizio di rinvio, sollecitato ai sensi degli artt. 392 e 394 c.p.c., il quale, come noto, è caratterizzato da limiti e funzioni evincibili dalla pronuncia della Suprema Corte che tale rinvio ha disposto.
4.1. I limiti e l'oggetto del giudizio di rinvio, infatti, sono fissati esclusivamente dalla sentenza di Cassazione, la quale non può in alcun modo essere sindacata o elusa dal giudice di rinvio, neppure in caso di violazione di norme di diritto sostanziale o processuale o per errore del principio di diritto affermato, la cui giuridica correttezza non è sindacabile neppure alla stregua di arresti giurisprudenziali successivi della Corte di legittimità (ex aliis, Cass. n. 8225/2013; Cass. n. 27343/2018; Cass. n. 22657/2020).
4.2. Nel giudizio di rinvio è precluso alle parti di ampliare il thema decidendum e di formulare nuove domande ed eccezioni, e al giudice non è consentito qualsiasi riesame dei presupposti di applicabilità del principio di diritto enunciato, sulla scorta di fatti o profili non dedotti. Né il giudice del rinvio può procedere ad una diversa qualificazione giuridica del rapporto controverso, ovvero all'esame di ogni altra questione, anche rilevabile d'ufficio, che tenda a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza di cassazione, in contrasto con il principio della sua intangibilità (Cass. n. 22774/2015; Cass. n. 22976/2015; Cass. n. 18600/2015; Cass. n. 11234/2017; Cass. n. 21096/2017); la riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio, in fatti, si configura non già come atto di impugnazione, ma come attività di impulso processuale, volta a riattivare la prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza cassata e, come tale, instaura un processo "chiuso", nel quale alle parti è preclusa ogni possibilità di proporre nuove domande, eccezioni, prove (eccetto il giuramento decisorio) nonché conclusioni diverse - salvo che queste, intese nell'ampio senso di qualsiasi attività assertiva o probatoria, siano rese necessarie da statuizioni della sentenza di cassazione - e il giudice di rinvio ha gli stessi poteri del giudice di merito che ha pronunziato la sentenza cassata, conseguendone che non possono essere proposti motivi di impugnazione diversi da quelli proposti nel giudizio di appello conclusosi con la sentenza cassata e che, in relazione al carattere dispositivo dell'impugnazione, i poteri del giudice di rinvio vanno determinati con esclusivo riferimento alle iniziative legittimamente assunte dalle parti, onde, in assenza di impugnazione incidentale della parte parzialmente vittoriosa, la decisione del giudice non può essere meno favorevole, nei confronti dell'impugnante, di quanto non sia stata la sentenza oggetto di gravame (Cass. n. 9843/2002; Cass. n. 21961/2010; Cass. n. 10375/2022).
4.3. Quanto ai poteri del giudice del rinvio e ai relativi limiti, essi variano a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384, comma 1, c.p.c., al principio di diritto enunciato della sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l'accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua potestas iudicandi, oltre a estrinsecarsi nell'applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (Cass. n. 17790/2014; Cass. n. 448/2020; Cass. n. 27337/2019; Cass. n. 24200/2018). Con la precisazione, però, che in caso di cassazione con rinvio per vizi di motivazione, il principio secondo cui il giudice del rinvio conserva tutti i poteri di indagine e di valutazione della prova (e può compiere anche ulteriori accertamenti, purché trovino giustificazione nella sentenza di annullamento e nell'esigenza di colmare le lacune e le insufficienze da questa riscontrate) non opera in ordine ai fatti che la sentenza di cassazione ha considerato come definitivamente accertati, per non essere investiti dall'impugnazione, e sui quali la pronuncia di annullamento è stata fondata; conseguentemente, in tal caso è precluso un nuovo e diverso accertamento dei fatti (Cass. n. 1756/2008; Cass. n. 9733/2005).
5. Premesse le suesposte coordinate ermeneutiche, essenziali al fine di delineare i limiti dell'odierno vaglio giurisdizionale, venendo al caso di specie mette conto osservare come il Tribunale sia chiamato ad esercitare la funzione di giudice d'appello, ai limitati fini della responsabilità civile, sull'impugnazione proposta dalla parte civile del procedimento penale n. 94/2008 R.G.N.R., conclusosi con la sentenza n. 51/2010 con la quale l'imputata (ovvero l'odierna convenuta Ge.Ma.) veniva assolta dall'imputazione di diffamazione perché il fatto non costituisce reato.
5.1. Nell'operare tale vaglio, questo Giudice è chiamato ad applicare il principio desumibile dalla pronuncia cassatoria del Supremo Consesso, il quale ha evidenziato la sussistenza di un consolidato e costante orientamento interpretativo per cui "il requisito della comunicazione con più persone atto a integrare il delitto di diffamazione (art. 595 c.p.) ricorre nelle ipotesi in cui venga fornita la prova dell'esplicita volontà del mittente-autore della destinazione alla divulgazione ovvero quando, per la natura stessa della comunicazione, la comunicazione risulti propulsiva di un determinato procedimento (giudiziario, amministrativo, disciplinare) che deve essere "ex lege" portato a conoscenza di altre persone, diverse dall'immediato destinatario, sempre che l'autore della missiva prevedesse o volesse la circostanza che il contenuto relativo sarebbe stato reso noto a terzi (Sez. 5, Sentenza n. 23222 del 06/04/2011 Ud. (dep. 09/06/2011) Rv. 250458). Pertanto, tale requisito deve escludersi nelle ipotesi di comunicazione confidenziale in cui l'iniziativa alla diffusione derivi esclusivamente da una iniziativa del destinatario della confidenza, considerato che la tutela richiesta ad una autorità non comporta necessariamente la diffusione della doglianza nell'ambito di una prevedibile procedura disciplinare e che, comunque, di tale evento non può rispondere colui che si rivolge all'Autorità collegando la comunicazione con più persone a una sua imprudente condotta, non essendo prevista l'ipotesi colposa della diffamazione (Sez. 5, n. 19396 del 23/01/2009 - dep. 08/05/2009, Eshete, Rv. 243606). Sulla base di tali elementi acquista centralità il profilo della previsione o della volontà della diffusione, per cui integra il reato di diffamazione la condotta di colui che comunichi informazioni gratuitamente denigratorie quando l'autore della missiva prevedeva o voleva l'effetto della destinazione alla divulgazione del contenuto della comunicazione (Sez. 5, Sentenza n. 26560 del 29/04/2014, Ud. (dep. 19/06/2014) Rv. 260229)" (punto 8. motivazione Sentenza n. 1423/2015 del 24/04/2015). 5.2. Alla luce di tali considerazioni di principio, la Corte di legittimità ha riscontrato un vizio motivazionale della sentenza di appello, consistito nell'inadeguata valutazione del "profilo decisivo della natura confidenziale o meno della comunicazione, sulla base anche dei rapporti personali esistenti tra l'imputata ed il teste Canfora, oltre al secondo aspetto della prova che l'autore della comunicazione prevedesse o volesse la circostanza che il contenuto relativo sarebbe stato reso noto a terzi' (punto 10. della motivazione).
6. Traendo le mosse da tale ultimo rilievo (in adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale di cui si è fatta portatrice la sentenza di annullamento con rinvio), dalle risultanze dell'istruttoria dibattimentale espletata in primo grado emerge con nitore il carattere confidenziale delle dichiarazioni rese dall'imputata: quest'ultima, infatti, lungi dal presentare un esposto scritto o una formale querela ai danni del fratello Ge.Do., risulta aver avuto un colloquio privato con il Maresciallo Ca.Lu., ed è circostanza acquisita agli atti (in quanto non smentita in sede di impugnazione e, anzi, presupposta dalla pronuncia della Corte di Cassazione) quella per cui la presentazione, da parte del Maresciallo Ca., di una relazione sull'accaduto - poi trasmessa ai superiori gerarchici - non è stata in alcun modo richiesta, sollecitata o suggerita dall'imputata; al contrario, lo stesso teste Ca., Maresciallo destinatario delle confidenze, ha dichiarato che l'imputata non lo aveva in alcun modo sollecitato a relazionare ai superiori quanto riferito (tanto sia nelle sommarie informazioni raccolte in data 12/05/2004 che in dibattimento, all'udienza del 12/11/2009, dove il teste dichiarava che "in alcun modo mi sollecitò o comunque mi invitò a relazionare ai miei superiori o a chicchessia in merito a quanto mi aveva riferito").
È infatti emerso che il Canfora, solo di sua iniziativa e solo dietro consiglio di un superiore, si è determinato a redigere una relazione di quanto riferitogli dall'imputata, senza che, di ciò, quest'ultima fosse a conoscenza.
Il compendio probatorio, dunque, restituisce un quadro in cui non solo è difficile collocare un intento, da parte dell'imputata, di propalare la comunicazione diffamatoria ad una pluralità di persone, ma viceversa trasmette una volontà diametralmente opposta, ovvero di mantenere il carattere confidenziale del proprio "sfogo"; né vale, in senso contrario, l'assunto per cui, essendo le dichiarazioni state rese ad un pubblico ufficiale, era da ritenersi implicita l'attitudine comunicativa delle dichiarazioni, perché le stesse sono state rese verbalmente - e non per iscritto - ad un soggetto con il quale l'imputata aveva una conoscenza personale, e pertanto al di fuori e a prescindere dalla professionalità rivestita.
7. Conseguentemente, mancando il profilo della comunicazione con più persone, l'imputata (qui convenuta) non può dirsi responsabile per l'illecito diffamatorio ascrittole, posto che il fatto non costituisce reato, e pertanto l'appello intentato dalla parte civile (oggi attore) ai fini della responsabilità civile va rigettato, in quanto infondato.
8. Nella presente sede non può essere in alcun modo delibata la richiesta riconvenzionale di risarcimento del danno avanzata dalla convenuta, posto che - anche in ragione di quanto espresso supra - il Tribunale, nella presente sede, è stato chiamato all'esercizio dei medesimi poteri del giudice investito della cognizione sull'appello proposto nel procedimento penale, e dunque non può essere ampliato il thema decidendum in via riconvenzionale.
9. Al rigetto dell'appello consegue la delibazione in ordine alle spese giudiziali del grado, che, in applicazione del principio di soccombenza, vanno poste a carico della parte appellante e sono liquidate come in dispositivo, in base ai valori medi del D.M. n. 55/14 parametrati al disputatum (scaglione da Euro 1.101 a Euro 5.200), con esclusione della fase istruttoria perché non svolta e con attribuzione al procuratore dichiaratosi antistatario. Stante il rigetto dell'appello, ai sensi dell'art. 13, comma 1 - quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, questo giudice deve dare atto (cfr. Cass. civ., Sez. un., 20 febbraio 2020, n. 4315) della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell'appellante, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'appello, a norma del comma 1 - bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Il Tribunale di Potenza, Sezione Civile, in persona del Giudice dott. Generoso Valitutti, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta nell'ambito del giudizio n. 43/2016 R.G., ogni contraria o diversa istanza e deduzione rigettata e disattesa, così provvede:
1. Rigetta l'appello e, per l'effetto, conferma la sentenza di assoluzione impugnata e rigetta la domanda risarcitoria azionata da Ge.Do.;
2. condanna Ge.Do. al pagamento, in favore di Ge.Ma., delle spese giudiziali, che si liquidano in Euro 1.701,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese generali, iva e cpa come per legge, con attribuzione al procuratore dichiaratosi antistatario;
3. dichiara la sussistenza, ai sensi dell'art. 13, comma 1 - quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dei presupposti per il versamento, da parte dell'appellante, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'appello, a norma del comma 1 - bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Potenza il 13 maggio 2024.
Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2024.