Tribunale Frosinone, 26/04/2024, n.335
Principio di diritto
In tema di diffamazione aggravata mediante social network, la pubblicazione di contenuti offensivi e denigratori su Facebook, anche all'interno di gruppi o in forma apparentemente privata, integra il reato previsto dall’art. 595 c.p. qualora il contenuto sia potenzialmente accessibile ad un numero indeterminato o comunque apprezzabile di persone. La diffusione di accuse false e lesive dell'onore e della reputazione costituisce una violazione della dignità del soggetto offeso, aggravata dalla pubblicità del mezzo utilizzato.
Sintesi della decisione
Il Tribunale di Frosinone ha condannato CE.Ro. a sei mesi di reclusione per diffamazione aggravata ai danni dell’ex marito TR.Gi., per aver pubblicato video su Facebook contenenti accuse false e lesive. I video, visualizzati da oltre 300 persone, descrivevano episodi di presunti maltrattamenti, tra cui una minaccia con un coltello, mai dimostrati. La pubblicazione ha causato disagio alla vittima e alle figlie minori.
Condanna:
Pena: reclusione di 6 mesi senza sospensione condizionale.
Spese processuali: a carico dell’imputata.
Il Tribunale ha escluso la concessione delle attenuanti generiche e della sospensione condizionale per il totale disinteresse dimostrato dall’imputata nel corso del processo. La decisione ribadisce che l’utilizzo dei social network per la diffusione di contenuti lesivi dell’onore altrui costituisce un reato aggravato dalla pubblicità del mezzo utilizzato.
RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con decreto di citazione diretta a giudizio emesso dal P.M. in data 24/03/2022, si procedeva nei confronti di CE.Ro., in epigrafe generalizzata, chiamandola a rispondere del reato sopra rubricato.
All'udienza del 29/11/2022, dichiarata l'assenza dell'imputata e alla presenza del difensore, veniva aperto il dibattimento. Il giudice ammetteva le prove orali e documentali richieste dalle parti.
All'udienza del 30/05/2023, dopo un rinvio per legittimo impedimento del difensore dell'imputato, veniva escussa la p.o. TR.Gi. ed al termine della deposizione si acquisiva verbale di udienza del procedimento civile 1385/2018 di separazione fra l'imputato e la persona offesa ed i provvedimenti di collocamento provvisorio delle figlie con il padre nella casa coniugale, cd-rom e messaggi facebook dell'imputata.
All'udienza odierna dichiarata chiusa l'istruttoria dibattimentale, le parti concludevano nei termini di cui in epigrafe ed il giudice emetteva la sentenza dando lettura del dispositivo.
Alla luce dell'istruttoria svolta l'ipotesi accusatoria ha trovato conferma. Va premesso che TR.Gi. presentava querela in data 26.02.2021 nei confronti dell'ex moglie CE.Ro. per diffamazione a mezzo Facebook.
Successivamente, in data 22.04.2021, depositava integrazione di querela poiché aveva visto dei video nei quali l'imputata offendeva il suo onore, video pubblicati sul gruppo Facebook denominato (…).
Il TR. riferiva in dibattimento di aver contratto matrimonio con CE.Ro. dal quale nascevano due bambine. Nell'anno 2017, la CE. decideva di separarsi da lui e a tal fine chiedeva di rimanere presso la loro abitazione sita in Terracina con la figlia minore So., mentre la maggiore rimaneva a Frosinone con lui nella casa coniugale.
Successivamente la separazione si era trasformata in giudiziale ed entrambe le figlie venivano collocate con lui nella casa coniugale con provvedimento del giudice del Tribunale di Frosinone del 28.2.2020, confermato con provvedimento del 14.7.2020 (provvedimenti depositati ed allegati al verbale di udienza del 30.5.2023.
Il teste precisava che la sera del 20.02.2021, vedendo le figlie piangere chiedeva loro cosa fosse successo e veniva a sapere dalla figlia Mi. che la madre aveva pubblicato su Facebook e You tube un video nel quale accusava i servizi sociali di averle sottratto i figli ed il marito di averla minacciata con un coltello alla gola alla presenza della figlia Mi., in particolare così ricostruiva l'episodio: "mi hanno chiesto se potevo prendere la pizza, ho ordinato la pizza è arrivata la pizza, loro stavano in camera da letto, è venuta la piccolina, la più piccola dice:
Mi. piange, Mi. piange è andata al bagno, Mi. piange, sono andato subito di corsa al bagno. Lei ha scoperto su you tube, ha scoperto questo video della madre. In questo video c'era che lei mi accusava che io le ho messo un coltello nella gola quando lei allattava la piccolina, la bambina piccola, davanti a quella più grande. Poi mi accusava pure di altre cose, per esempio che non le davo il mantenimento, che poi sono stato assolto. Diceva che aveva contattato (…), Gi.Go. e Ro.Re., che aveva contattato (…), Ba.D'U. dicendo che gli assistenti sociali le avevano tolto queste bambine; che hanno chiesto un'udienza anticipata; dicendo che io le ho messo il coltello alla gola; dicendo che io non le davo il mantenimento; dicendo che lei aveva un conto con me, questo conto non si sa dove sta, che poi insomma una bambina".
Il TR. aggiungeva poi che nel video la CE. riferiva di asseriti maltrattamenti che avrebbe subito a casa da quando era nata la prima figlia, maltrattamenti fisici e psicologici, in tale contesto riferiva dell'episodio nel quale il marito le avrebbe "messo il coltello alla gola mentre allattavo la piccola e tutto questo davanti alla mia figlia più grande., lui ha usato mia figlia più grande per convincerla a denunciarmi non mi sta dando il mantenimento".
Questo video, proseguiva il teste, aveva determinato un forte disagio alla figlia quattordicenne, Mi., preoccupata che esso potesse arrivare sulla "bacheca" di qualche mamma della scuola da lei frequentata: "lei più che altro non voleva andare più a scuola perché dice che aveva vergogna, perché questo video le amiche sue, oppure le mamme delle amiche sue lo potevano vedere. Poi lei aveva mandato pure il messaggio alla madre per vedere se togliere il video".
Per questa ragione la figlia Mi. aveva mandato un messaggio alla madre chiedendole di togliere questo video, ma "lei non l'ha tolto, è stato un bel pò il video, poi ha tolto dopo tanto questo e ne ha messo un altro video, sempre". In tale secondo video, riferiva il teste, la CE., chiedeva aiuto al conduttore del programma televisivo (…), Gi.GO.: "poi mi ha mandato anche messaggi di minaccia, messaggi sul telefono dicendo: adesso sono affari tuoi, ho chiamato Gi.Go., ho messaggiato con lui, mo mi aiuterà".
I video erano stati postato anche su un gruppo Facebook denominato (…).
Questa situazione aveva determinato in lui un forte stato di vergona nei confronti degli amici e coloro che avrebbero potuto vedere i video in quanto in esso lui appariva come una persona pericolosa.
In conclusione il TR. riferiva che i video rimanevano in rete per alcune settimane e poi erano stati rimossi e che nel periodo in cui erano stati pubblicati erano stati condivisi soprattutto dai parenti della CE.
All'esito dell'escussione della p.o., veniva acquisito il cd-rom contenente i video ai quali il teste aveva fatto riferimento nel corso della sua deposizione e documentazione attestante che il video aveva registrato n. 307 visualizzazioni e n.24 mi piace.
Nel video la CE. parla di "tutti i maltrattamenti che ho subito in casa da quando è nata la mia prima figlia maltrattamenti fisici e psicologici mi mise il coltello alla gola mentre allattavo la piccola e tutto questo davanti alla mia figlia più grande., lui ha usato mia figlia più grande per convincerla a denunciarmi non mi sta dando il mantenimento".
Al termine del video, la CE., che durante il messaggio era rimasta dietro lo schermo, appariva e si presentava.
Ebbene l'istruttoria, come sopra ricostruita, ha consentito di pervenire oltre ogni ragionevole dubbio all'affermazione della responsabilità penale dell'imputata, come di seguito meglio illustrato.
Invero, nessun dubbio può nutrirsi in merito alla attendibilità della persona offesa. Com'è noto, secondo l'orientamento consolidato della Suprema Corte, la deposizione della persona offesa dal reato, anche costituita parte civile, pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, ben può essere assunta anche da sola come fonte di prova, ove sia sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva, non richiedendosi necessariamente neppure riscontri esterni quando non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità.
Nel caso di specie le dichiarazioni rese dal TR., non costituitosi parte civile e pertanto privo di un interesse economico all'esito del processo, oltre ad apparire intrinsecamente attendibili in quanto precise, coerenti e prive di intenti calunniatori, hanno trovato riscontro nella documentazione acquisita in atti e, in particolare, nei video pubblicati su Facebook i cui contenuti confermano quanto riferito dalla persona offesa.
Tanto premesso, occorre occuparsi del tema della natura offensiva dei video pubblicati e della possibilità di definire "comunicazione con più persone" quella avvenuta tramite la "condivisione" dei suddetti contenuti su un social network, ed in particolare su un "gruppo".
In relazione al primo profilo non v'è dubbio che i riferimenti a maltrattamenti e, addirittura, ad una minaccia con il coltello contenuti nei video siano gravemente lesivi in astratto, ma anche in concreto, per come riferito dal TR., all' onore del predetto, quale uomo, marito e padre.
In ordine al secondo profilo va ricordato che, come è noto, il social network Facebook consente, previa registrazione ed inserimento dei propri dati personali, di condividere accadimenti della propria vita privata o semplicemente foto o pensieri e riflessioni di ogni tipo. Quanto allo spettro di visibilità dei contenuti pubblicati, il sito in generale, cosi come anche lo stesso "Gruppo" consente all'utente di rendere visibili i propri contenuti a tutti, ovvero ai soli "amici" cioè agli utenti che sono stati riconosciuti e aggiunti alla propria rete, o, infine, ai soli "membri" del gruppo.
Ora, nel caso di specie è emerso che molte persone, oltre il querelante (tramite la figlia Mi.), erano venute a conoscenza di tali pubblicazioni.
Pertanto, può dirsi senz'altro raggiunta la prova che, nel caso di specie, si trattava di un gruppo aperto o, quantomeno, che il contenuto pubblicato sul gruppo fosse visibile da parte degli amici dei membri del gruppo stesso.
Inoltre, non può essere ignorata, per le caratteristiche proprie del social network, la idoneità di tali pubblicazioni ad essere oggetto di una diffusione potenzialmente indiscriminata del contenuto riportato che, transitando sul profilo altrui, risentirà delle relative impostazioni di privacy, con tutto ciò che ne consegue ove il profilo di destinazione sia visibile a tutti.
Tale ultima possibilità finisce dunque per sottrarre il contenuto alla disponibilità dell'autore sopravvivendo anche all'eventuale cancellazione dal social network.
Non v'è poi dubbio poi che i contenuti dei video si riferiscano alla persona offesa TR.Gi. contenendo dei chiari e numerosi riferimenti alla vita familiare della CE. ed al suo coniuge.
D'altro canto deve rammentarsi che, quanto all'individuazione del destinatario dell'offesa, per costante e condivisibile giurisprudenza in materia, "non osta all'integrazione del reato di diffamazione l'assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, se lo stesso sia ugualmente individuabile sia pure da parte di un numero limitato di persone" (Cass. Sez. V, 20.12.2010 n. 7410); ed infatti, ai fini della sussistenza del reato è sufficiente che "l'individuazione del soggetto passivo, in mancanza di indicazione specifica, ovvero di riferimenti inequivoci a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto" sia "deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell'offesa, quale si desume, anche dai contesto in cui è inserita" (così Cass., sez. V, 21.10.2014, n. 2784, secondo cui qualora l'espressione lesiva dell'altrui reputazione sia riferibile, ancorché in assenza di indicazioni nominative, a persone individuabili e individuate per la loro attività, esse possono ragionevolmente sentirsi destinatarie di detta espressione, con conseguente configurabilità del reato di cui all'art. 595 c.p.). In ogni caso, in tema di diffamazione, l'individuazione del soggetto passivo deve avvenire attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e portata dell'offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono, unitamente agli altri elementi che la vicenda offre, essere valutati complessivamente, così che possa desumersi, con ragionevole certezza, l'inequivoca individuazione dell'offeso, sia in via processuale che come fatto preprocessuale, cioè come piena e immediata consapevolezza dell'identità del destinatario che abbia avuto chiunque abbia letto l'articolo diffamatorio (Sez. V, n. 33442 del 08/07/2008, Rv. 241548; Sez. V, n. 18249 del 28/03/2008, Rv. 239831).
Il reato di diffamazione a mezzo social network Facebook è, dunque, integrato anche quando, pur non essendo mai esplicitamente indicato il suo nome, la vittima può essere individuata da una serie concordante di elementi indiziari che possono consentire di individuarla.
Le considerazioni appena esposte inducono dunque a ritenere che, non solo vi è stata comunicazione con più persone, ma anche con il mezzo della pubblicità.
Ne consegue che risulta integrata anche la circostanza aggravante relativa al mezzo della pubblicità, il particolare funzionamento del social network come sopra descritto integra indubbiamente quella particolare diffusività dei contenuti che la circostanza aggravante mira a punire, stante la potenziale capacità della condotta in tal modo realizzata di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone (in tal senso Cass., sez. 5, sentenza n. 13979 del 25/01/2021; Cass. sent. n. 4873/17).
Sul piano dell'elemento psicologico, quanto al dolo del delitto di diffamazione giova rilevare che "in tema di delitti contro l'onore, non è richiesta la presenza di un animus iniuriandi vel diffamarteli, ma appare sufficiente il dolo generico che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto basta che l'agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, cioè adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell'agente" (così Cass. 11.06.1999, n. 7597; cfr. altresì Cass. Sez. V, 12.12.2012 n. 4364, Rv. 254390; ID., 16.10.2013 n. 8419, Rv. 258943; ID., 11.5.1999 n. 7597, Rv. 213631).
Ebbene, nel caso di specie, per le modalità dell'azione è evidente che la CE. abbia agito con la piena coscienza e volontà di utilizzare espressioni ingiuriose per l'altrui reputazione e di darne la massima diffusione anche attraverso l'intervento di una nota trasmissione televisiva. Inoltre, la pubblicazione di tali post e video risulta successiva ad eventi specifici quali il collocamento esclusivo delle figlie con il TR. presso la casa familiare (avvenuta con provvedimento del giudice del 28.2.2020) che ha evidentemente scatenato la disapprovazione della CE.
In conclusione, ritiene il Tribunale che sussistano tutti gli elementi oggettivi e soggettivi per ritenere l'imputata responsabile del delitto di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595 co. 3 c.p. a lei ascritto.
Quanto al trattamento sanzionatorio, in assenza di alcun comportamento positivamente valutabile tenuto dall'imputata, la stessa non appare meritevole della concessione delle circostanze attenuanti generiche: al riguardo occorre ricordare che le circostanze attenuanti generiche sono state introdotte per consentire soltanto una migliore individualizzazione della pena al caso concreto e non devono trasformarsi in uno strumento improprio per mitigare il rigore delle sanzioni, tanto che è stato necessario un intervento del legislatore che ha imposto, per legge, dei limiti alla concessione delle stesse.
Tali circostanze, invero, per la loro atipicità, possono soltanto consentire al giudice di valutare elementi di fatto particolarmente significativi, sia di natura oggettiva che soggettiva, capaci di far risaltare il valore positivo del fatto, elementi positivi che non sono assolutamente rilevabili nel presente processo.
Tenuto conto di tutti i parametri stabiliti dall'art. 133 c.p., appare congruo irrogare alla CE. il minimo edittale della pena pari mesi sei di reclusione, considerato il limitato ambito di persone, strettamente privato (i parenti della CE.), che, come ha riferito il TR., hanno visionato i video.
Segue di diritto la condanna al pagamento delle spese processuali.
Il totale disinteresse dimostrato dall' imputata per il procedimento penale impedisce una prognosi positiva in ordine alla futura astensione da analoghe condotte, sicchè non può concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena.
Non è possibile procedere alla sostituzione della pena ai sensi dell'art. 545-bis c.p.p. in quanto l'assenza dell'imputata e di un difensore munito di procura speciale impedisce la sostituzione della pena inflitta con una pena non detentiva.
Il concomitante carico di lavoro ha suggerito di riservare il deposito della motivazione.
P.Q.M.
Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p.,
dichiara CE.Ro. responsabile del reato a lei ascritto e, per l'effetto, la condanna alla pena di mesi 6 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali;
visto l'art. 544 comma 3 c.p.p. indica in giorni 6o il termine per il deposito della motivazione.
Così deciso in Frosinone il 27 febbraio 2024.
Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2024.