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Legittimità del licenziamento per diffamazione sui social: la rilevanza della pubblicità dei post e la violazione del vincolo fiduciario

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Tribunale Trani sez. lav., 01/07/2024, n.1378

Il licenziamento per giusta causa è legittimo quando il dipendente diffonde tramite social media, in un contesto pubblico o accessibile a un numero indeterminato di soggetti, espressioni lesive dell'onore e della reputazione del datore di lavoro. Tale condotta integra gli estremi della diffamazione ai sensi dell'art. 595 c.p. e compromette irreparabilmente il vincolo fiduciario. Il diritto di critica è esercitabile solo nel rispetto dei requisiti di verità, continenza e pertinenza, escludendo affermazioni infondate, espressioni ingiuriose o critiche non strettamente legate al rapporto di lavoro. (Cass. n. 10280/2018; Cass. n. 14836/2023)

Il diritto di cronaca non giustifica l'accostamento infondato a scenari di terrorismo

Diffamazione e diritto di critica: bilanciamento tra libertà di espressione e tutela della reputazione

Critica politica e diffamazione: il bilanciamento tra diritto di critica e tutela della reputazione

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Diffamazione tramite social network: limiti del diritto di critica e abuso del linguaggio

La diffamazione richiede la prova della comunicazione a più persone e l’attendibilità delle dichiarazioni

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La sentenza integrale

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con ricorso depositato in data 04.05.2023, N.F. domandava che, accertata e dichiarata l'illegittimità del licenziamento irrogatogli dalla società AMIU S.P.A. con lettera dell'08.09.2022, la stessa fosse condannata a reintegrarlo nel posto di lavoro, a corrispondergli un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della riammissione in servizio, nonché, in relazione al periodo predetto, a versargli contributi previdenziali ed assistenziali.

In subordine chiedeva l'applicazione dell'art. 18 co. 5 o 6 L. 300/1970.

Il tutto con vittoria di spese di giudizio.

A tal fine il ricorrente deduceva di aver lavorato alle dipendenze della AMIU S.P.A. dal 16.05.2011 all'08.11.2022 in forza di contratto a tempo pieno e indeterminato con inquadramento nel livello A2 CCNL per i dipendenti di imprese e società esercenti servizi ambientali.

Rappresentava che, con lettera di addebito disciplinare dell'08.09.2022, la società datrice gli contestava la reiterata pubblicazione sulla pagina Facebook "News Trani – Trani ai Tranesi", di cui il ricorrente era amministratore, di "post" e commenti diffamatori e lesivi dell'onore e del decoro dell'azienda nelle date 22.07.2022, 03.08.2022, 08.08.2022, 09.08.2022, 10.08.2022, 16.08.2022 e 23.08.2022. Inoltre, gli contestava di non aver adempiuto all'obbligo di rimozione dei predetti impostogli con ordinanza cautelare emessa dal Tribunale di Trani il 23.08.2022.

A fronte di tali addebiti, il ricorrente rendeva giustificazioni con lettera del 17.10.2022. Tuttavia, la società lo licenziava con nota del 25.10.2022.

Pertanto, N.F. impugnava la sanzione irrogatagli eccependo l'illegittimità del licenziamento per: insussistenza di giusta causa e/o giustificato motivo soggettivo, in quanto i "post" allo stesso ascritti sarebbero stati pubblicati nell'ambito di un gruppo Facebook privato ed in quanto tale, suscettibile di tutela ex art 15 Cost.; mancata preventiva contestazione della recidiva, per non aver mai ricevuto contestazioni disciplinari precedenti a quella dell'08.09.2022; sproporzione della misura applicata rispetto alla violazione commessa; violazione dell'art. 7 L. 300/1970, per mancata affissione del codice disciplinare presso i locali dell'azienda.

Si costituiva in giudizio la AMIU S.P.A. domandando il rigetto della domanda, perché infondata, e la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di lite ed al risarcimento del danno da lite temeraria ex art. 96 c.p.c.

Nella specie, la resistente contestava la ricostruzione fattuale operata dal N.F. deducendo che: il ricorrente aveva lavorato dapprima dal 16.05.2011 al 03.11.2015, data in cui veniva licenziato per aver aggredito un altro dipendente, poi dal 18.12.2019 alla data del licenziamento impugnato; durante il secondo rapporto era stato attinto da tre procedimenti disciplinari conclusisi con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per 10 giorni per aver diffamato a mezzo Facebook sia gli organi direttivi della AMIU che il Sindaco di Trani; a causa delle predette condotte, su ricorso promosso dal Sindaco e dalla società datrice ex art 700 c.p.c., il Tribunale di Trani emetteva ordinanza del 23.08.2022 con cui, ritenuta l'offensività delle pubblicazioni, ne ordinava al N.F. la rimozione.

Poi, in riferimento alle censure sollevate dal ricorrente, la AMIU S.P.A., ribadiva la legittimità, la proporzionalità e la correttezza della sanzione irrogata, nonché l'affissione del codice di comportamento.

La causa veniva istruita oralmente.

*******

Le odierne parti in causa controvertono in ordine alla legittimità del licenziamento comminato al N.F. dalla AMIU s.p.a. in ragione delle condotte sopra descritte.

Per cui, ai fini della decisione della controversia, appare opportuno distinguere le diverse censure formulate dal ricorrente, il quale, oltre a negare in ricorso la paternità dei "post" (poi ammessa in corso di causa, come si evince dal verbale d'udienza dell'11.4.2024, e a disconoscere la documentazione prodotta da controparte, eccepisce l'illegittimità della sanzione sulla base di plurime circostanze: insussistenza di giusta causa atteso il carattere privato del gruppo Facebook all'interno del quale sarebbero stati diffusi i messaggi; mancata contestazione delle precedenti contestazioni disciplinari riportate dall'azienda nella lettera di contestazione dell'08.09.2022; sproporzione del licenziamento rispetto alla condotta posta in essere.

Partendo dall'esame della domanda di declaratoria di illegittimità del licenziamento per insussistenza di giusta causa, essa è infondata e deve essere rigettata per le seguenti ragioni.

In primo luogo, N.F. nega di aver pubblicato i "post" contestatigli dalla AMIU e disconosce la conformità della documentazione prodotta da controparte alla realtà dei fatti, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2712 c.c.

Come noto, la norma richiamata dal ricorrente disciplina l'efficacia probatoria delle riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, nonché di ogni altra rappresentazione meccanica di cose o fatti, stabilendo che esse formano "piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose stesse".

Così disponendo, l'art. 2712 c.c. priva del valore di prova legale le riproduzioni fotografiche o informatiche la cui genuinità viene disconosciuta dalla parte nel cui danno sono prodotte.

Tuttavia, nell'eventualità predetta, la giurisprudenza è ormai costante nell'affermare che "il disconoscimento delle fotografie non produce gli stessi effetti del disconoscimento previsto dall'art. 215, secondo comma, c.p.c., perché mentre questo, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo di questa, preclude l'utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all'originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni" (Cass. 1359/2022).

Sicché dall'applicazione del principio esposto consegue che la contestazione non sottrae la prova al libero apprezzamento del giudice che può valutarne la genuinità alla luce degli altri mezzi di prova prodotti dalle parti.

Tornando al caso di specie, il disconoscimento da parte del N.F. della pubblicazione e della paternità dei "post", nonché della genuinità degli screenshots prodotti dalla AMIU all'allegato n. 11 della memoria, è superabile alla luce delle dichiarazioni dei testimoni di parte resistente, F. F. e M. G., i quali hanno confermato che il ricorrente era autore dei messaggi pubblicati. In particolare, il primo ha affermato che "i post e i gruppi risultavano creati dal profilo "N.F.". Difatti, tale denominazione corrisponde a quella contenuta nelle riproduzioni dei "post" Facebook prodotti dalla società.

Inoltre, occorre considerare che lo stesso ricorrente ha ammesso di aver pubblicato i messaggi contestati nelle memorie presentate durante l'audizione personale del 17.10.2022, disposta a seguito della contestazione dell'08.09.2022 (avente ad oggetto le pubblicazioni contestate in ricorso), nella parte in cui esso ha dichiarato che "attraverso i post pubblicati e/o commentati, il sottoscritto N.F. non ha mai voluto offendere il decoro o screditare alcun soggetto, men che meno l'Azienda AMIU".

Pertanto, sulla scorta delle circostanze esaminate, i "post" Facebook contestati dalla AMIU al ricorrente si ritengono allo stesso riconducibili. Da ultimo si rileva che all'udienza dell'11.4.2024 il ricorrente ha ammesso che il profilo "N.F." appartiene a lui.

In secondo luogo, il N.F. deduce che il gruppo Facebook entro cui i messaggi in questione sono stati pubblicati risulterebbe chiuso e con "privacy privata" ed in quanto tale accessibile solo agli utenti autorizzati alla visione dall'amministratore.

A dire dell'attore, il fatto che i "post" ed i relativi commenti sarebbero visibili solo da parte dei soggetti ammessi, escluderebbe la configurabilità di una condotta diffamatoria poiché in capo all'autore delle pubblicazioni mancherebbe l'intento di divulgare il contenuto delle stesse ad una platea indiscriminata di soggetti. Sussisterebbe, al contrario, la volontà di rendere noto il fatto ad un numero determinato di destinatari, tale per cui la condotta integrerebbe una conversazione "privata", garantita e tutelata dall'art. 15 Cost.

A sostegno di tale argomentazione, il N.F. richiama una pronuncia della Corte di Cassazione, applicata da Codesto Tribunale in altra sentenza (riportata in ricorso), secondo cui "in tema di licenziamento disciplinare, i messaggi scambiati in una "chat" privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo tutti diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono idonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l'esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse" (Cass. n. 21965/2018).

La pronuncia in questione ha ad oggetto la fattispecie in cui i messaggi offensivi della reputazione del datore di lavoro sono stati scambiati nell'ambito di una conversazione privata, avvenuta su facebook, tra soggetti determinati, in assenza dell'intento dei partecipanti di divulgare il contenuto delle frasi scambiate; tant'è che la Corte precisa "che occorre premettere alcuni dati oggetto di accertamento in fatto nella sentenza impugnata: il dipendente A. dall'estate 2014 rivestiva la carica di Rsa per il sindacato Flaica Uniti Cub; la chat su Facebook, in cui è avvenuta la conversazione oggetto di causa, era composta unicamente da iscritti al sindacato Flaica Uniti Cub; si trattava quindi di una chat chiusa o privata, come peraltro logicamente ricavabile dall'invio anonimo della stampa della conversazione, e desumibile dal contenuto stesso della conversazione che viene interrotta subito dopo l'avvertimento, da parte di uno dei partecipi, G. V., del seguente tenore: "Signori fate attenzione che purtroppo c'è un collega che legge e va a riferire a L."; ciò consente di ritenere accertata nella sentenza impugnata la volontà dei partecipanti alla chat di non diffusione all'esterno delle conversazioni ivi svolte".

Ritenendo dunque insussistente la volontà dei partecipanti di diffondere all'esterno il contenuto dei messaggi, la Corte ha escluso la configurabilità di una condotta diffamatoria rilevante sul piano disciplinare e, conseguentemente, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento.

Detta pronuncia, però, non è applicabile alla vicenda in esame in ragione di plurime evidenze: i "post" contestati al N.F. sono stati pubblicati nell'ambito di un gruppo Facebook che differisce dalla chat privata sia nella natura che nel regime di pubblicità. Quanto al primo aspetto, esso si sostanzia in uno spazio di discussione nel quale l'utente ha la facoltà di pubblicare un messaggio a sua volta aperto ai commenti e alla condivisione (ossia pubblicazione del "post" sul profilo personale) da parte di tutti i soggetti iscritti al gruppo.

In relazione al regime di pubblicità, vanno distinti i casi in cui i "post" pubblicati sul gruppo sono visibili anche ai non iscritti, da quelli in cui gli stessi sono visibili e condivisibili solo dai partecipanti, per effetto di limitazioni impostate dagli amministratori che a loro volta hanno la facoltà di selezionare gli utenti da ammettere. Ad ogni modo, anche tale secondo regime di restrizione del gruppo non impedisce la circolazione del "post" pubblicato, in quanto lo stesso può essere riprodotto e diffuso da altro partecipante.

Altra evidenza che conferma le considerazioni di cui ai periodi precedenti, attiene alla denominazione del gruppo "Trani ai Tranesi", dal quale è ragionevole dedurre che esso non era riservato ad un ristretto numero di soggetti, bensì ad una platea più ampia di destinatari.

Tanto si desume dal numero di commenti presenti sotto i "post" pubblicati dal ricorrente (vedasi screenshots di cui all'all. 11 della memoria di costituzione AMIU sulla cui genuinità ci si è già soffermati), nonché dall'ulteriore dato per cui ogni pubblicazione reca la dicitura "N.F. è con […] e altri 97 (talvolta anche 75, 96 o 97)" che sta ad indicare che essa veniva posta in risalto ad un nutrito gruppo di soggetti.

Quanto alle prove raccolte in giudizio in ordine al carattere privato del gruppo, il N.F. non risulta aver dimostrato il proprio assunto; al contrario, la società resistente attraverso le dichiarazioni dei testimoni F. e M. ha dimostrato che nelle date di pubblicazione dei "post" contestati essi erano visibili anche ai non iscritti. Tant'è che il primo ha affermato che: "il gruppo era pubblico e ogni giorno lui pubblicava post contro l'amministrazione del Comune di Trani e contro l'AMIU s.p.a. Qualunque iscritto a Facebook poteva leggere il contenuto di tali post" e che "i post erano molto commentati perché lui aveva un'impostazione tale per cui ogni messaggio veniva notificato a un centinaio di persone che di conseguenza leggevano nell'immediato il post". Allo stesso modo, il secondo ha dichiarato: "visualizzavo i post del gruppo pur non facendone parte proprio perché era visibile a tutti".

Tali affermazioni sono suffragate dalle riproduzioni di cui all'allegato 11 della memoria di parte resistente, che nelle date di pubblicazione dei post contestati riportano il carattere pubblico del gruppo e la visibilità indiscriminata dei contenuti ("tutti possono vedere chi fa parte del gruppo e cosa pubblica").

Peraltro, l'assunto del carattere privato del gruppo è stato indirettamente sconfessato dal testimone di parte ricorrente, S. S., che ha affermato: "io contattai il N.F. raccontandogli la mia storia e gli dissi di scriverla attraverso il suo canale social perché aveva molta visibilità; per questo non ho raccontato personalmente sui social la storia, ma ho autorizzato lui a farlo. N.F. in cambio non mi ha promesso nulla".

Dunque, menzionando l'ampia visibilità del ricorrente sul social network, il testimone ha confermato la tesi della AMIU, secondo cui le pubblicazioni dell'ex dipendente erano dirette a rendere conoscibili le vicende narrate ad un numero indeterminato di destinatari.

Parimenti, anche l'altro teste dell'attore, P. R., ha confermato la circostanza di cui sopra avendo affermato: "confermo la circostanza XV del ricorso; ho contattato io il N.F. dopo aver visto che lui aveva fatto denunzie su facebook su fatti analoghi nel gruppo "Trani ai tranesi"; gli ho raccontato la mia storia e l'ho autorizzato a scrivere la mia storia sui social. Ciò è avvenuto dopo aver denunciato penalmente B. e F.".

Talché, dovendosi ritenere dimostrato il carattere pubblico del gruppo e, per l'effetto, la conoscibilità dei "post" da parte di un elevato numero di soggetti, va esclusa nel caso di specie l'applicabilità dell'art. 15 Cost. richiamato dal N.F., non sussistendo gli estremi di una conversazione privata.

Per converso, la condotta del N.F. integra gli estremi del reato di diffamazione di cui all'art. 595 c.p., poiché viene in rilievo anche la natura offensiva e denigratoria delle espressioni utilizzate ("..") ed in quanto tale, essa risulta rilevante sul piano disciplinare, al punto da escludere il vincolo di fiducia tra dipendente e datore di lavoro.

Sul punto si richiama un recente arresto della Suprema corte, a mente del quale "questa corte ha già avuto modo di precisare che "in tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su Facebook di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone" (così Cass. 27.04.2018, n. 10280, ove è precisato, in motivazione, che, in tal caso, "il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione", venendosi a determinare la circolazione di quel commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica"; cfr., altresì, Cass. 26.05.2023, n. 14836, ove è affermato che "la potenzialità offensiva della propalazione di notizie o di dichiarazioni proprio a mezzo dei c.d. social in generale, e di Facebook in particolare, sia più volte stata affermata dalla giurisprudenza sia civile che penale di questa Corte, che ha posto in rilievo l'idoneità del messaggio, una volta immesso sul web, anche su un social ad accesso circoscritto, di sfuggire al controllo del suo autore per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato, tanto che l'immissione di un "post" di contenuto denigratorio è stato ritenuto più volte idoneo ad integrare gli estremi della diffamazione").

Passando ad esaminare la domanda di illegittimità del licenziamento per difetto di proporzionalità tra la sanzione adottata e la condotta posta in essere, anch'essa è infondata e va rigettata per le ragioni di seguito esposte.

A riguardo l'attore lamenta di essere stato ingiustamente licenziato, avendo egli espresso il proprio pensiero, esercitando il diritto di critica ovvero quello di cronaca di avvenimenti di pubblico interesse nel rispetto dei requisiti fondamentali della verità, pertinenza e continenza.

Dal proprio canto, l'AMIU s.p.a. sostiene la proporzionalità della sanzione al comportamento del N.F., dal momento che il predetto non avrebbe rispettato i limiti della verità dei fatti narrati e della continenza verbale.

Ebbene, posto che il diritto di critica si sostanzia nel diritto del soggetto di esprimere un'opinione personale in ordine ad un dato evento, mentre quello di cronaca consiste nel diritto di narrare un determinato fatto senza valutazioni individuali, è evidente che il caso che ci occupa ha ad oggetto unicamente la prima delle due fattispecie.

Invero, mediante i messaggi oggetto di contestazione disciplinare, parte ricorrente ha espresso il proprio giudizio valutativo in ordine alle vicende concernenti gli esponenti della società datrice di lavoro e dell'amministrazione comunale e non anche accadimenti corrispondenti a verità.

Tanto si desume a partire da diverse circostanze: la prima è data dall'aver appreso i fatti narrati attraverso le dichiarazioni di soggetti terzi, poi escussi come testimoni nel presente giudizio, senza, però, provare di aver verificato la notizia ricevuta.

La seconda riguarda le modalità di esposizione dei fatti adoperate, dal momento che in diverse occasioni (vedasi "post" del 22.07.2022) il N.F. ha riportato determinati eventi (quale la presenza di alcuni esponenti politici locali nei pressi della sua abitazione) da una prospettiva puramente individualistica.

Per cui, occorre verificare se il ricorrente, nell'esercizio del diritto in questione, abbia rispettato i limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva, al fine di valutare l'efficacia scriminante del contegno tenuto.

Sul punto, la giurisprudenza è costante nell'affermare che "Innanzitutto, ove la critica si sostanzi nell'attribuzione di condotte che si assumono come storicamente verificatesi, in ragione del canone della continenza sostanziale, tali fatti narrati devono corrispondere a verità, sia pure non assoluta ma corrispondente ad un prudente apprezzamento soggettivo di chi dichiara gli stessi come veri, per cui viene in rilievo l'atteggiamento anche colposo del lavoratore. L'osservanza di tale canone attenua la sua cogenza nel caso in cui la critica si sostanzi propriamente in una espressione di opinione, che per la sua natura meramente soggettiva ha carattere congetturale e non si presta ad una valutazione in termini di alternativa vero/falso: mentre l'esistenza di un fatto può essere oggetto di prova, l'espressione di una opinione non può esserlo perché non si può dimostrare la verità di un giudizio che implichi opzioni di valore.

In secondo luogo occorre verificare il criterio della continenza formale, nel senso che l'esposizione della critica deve avvenire con modalità espressive che possano dirsi rispettose di canoni, generalmente condivisi, di correttezza, misura e civile rispetto della dignità altrui.

[…]

Residua infine il limite della pertinenza, intesa come rispondenza della critica ad un interesse meritevole in confronto con il bene suscettibile di lesione (cfr. Cass. n. 1173 del 1986). Nell'ambito del diritto di cronaca viene definita continenza materiale, parametrata all'interesse pubblico alla diffusione dell'informazione. Nel rapporto di lavoro è sicuramente interesse meritevole quello che si relazioni direttamente o indirettamente con le condizioni del lavoro e dell'impresa, come le rivendicazioni di carattere lato sensu sindacale o le manifestazioni di opinione attinenti il contratto di lavoro, mentre sono suscettibili di esondare dal limite della pertinenza le critiche rivolte al datore di lavoro, magari afferenti le sue qualità personali, oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità. Laddove anche uno solo dei limiti descritti venga travalicato, la critica rivolta dal lavoratore al datore di lavoro, idonea a ledere l'onore, la reputazione e il decoro di questi, non è scriminata dall'esercizio del diritto ed assume l'attitudine ad integrare un illecito disciplinare" (Cass. 1379/2019).

In altri termini, secondo quanto statuito dai Giudici di Legittimità nella pronuncia richiamata, il diritto di critica nei riguardi del datore di lavoro può ritenersi legittimamente esercitato dal dipendente allorquando: il predetto riporti opinioni concernenti fatti oggettivamente esistenti, non potendosi interpretare il requisito della verità in maniera cogente, ossia nel senso di verità del fatto narrato, trattandosi di valutazioni personali delle vicende; il linguaggio utilizzato risulti corretto; la critica soddisfi un interesse del lavoratore collegato alle condizioni del lavoro e dell'impresa.

Sicché, con particolare riferimento a quest'ultimo punto, si deduce che, affinché la critica del lavoratore risulti rispettosa del requisito della continenza, essa deve riguardare il rapporto di lavoro, senza sfociare in considerazioni ad esso estranee ed afferenti alla persona del datore di lavoro.

Tornando ai fatti di causa, la critica del N.F. appare lesiva dei presupposti poc'anzi esplicitati.

Nello specifico, per primo risulta violato il requisito della verità del fatto intesa come oggettiva esistenza dello stesso, in quanto, come sopra detto, i fatti narrati dal N.F. non risultano dimostrati (concorsi "truccati", assunzioni di soggetti avvinti da legami di parentela, assunzioni di soggetti in cambio di voto), non essendo stata fornita prova circa l'esito degli eventuali accertamenti disposti dall'autorità giudiziaria a seguito delle denunce asseritamente sporte dai testimoni, né di altre azioni.

Di conseguenza, la narrazione di fatti tanto gravi in danno di esponenti dell'amministrazione comunale e della società partecipata datrice, in assenza di alcun riscontro fattuale e probatorio, determina il superamento del limite della verità.

Ancora, con riferimento alla continenza verbale, anch'essa risulta violata, avendo il ricorrente utilizzato espressioni (già riportate in precedenza) lesive della dignità e dell'onore dei soggetti coinvolti.

Per ciò che concerne la pertinenza delle vicende narrate, occorre considerare che rispetto alle critiche mosse, il N.F. ha rivestito non solo la qualità di cittadino titolare dell'interesse alla corretta gestione della cosa pubblica, bensì anche quello di dipendente della società partecipata dall'ente locale. Per cui, se sul primo versante le vicende riportate nei "post" possono risultare astrattamente idonee a soddisfare l'interesse della collettività, sul secondo, invece, esse esulano dal rapporto di lavoro come sopra considerato dalla giurisprudenza richiamata.

In altri termini, le critiche rivolte dal N.F. alla società datrice violano il requisito della pertinenza e di conseguenza rilevano sul piano disciplinare, perché essendo slegate dalla prestazione o dalle condizioni di lavoro ed ancorate a vicende politiche indimostrate, risultano unicamente dirette a ledere l'onore e la reputazione della società stessa.

Pertanto, accertato che le critiche del ricorrente alla società hanno violato i limiti suesposti, la condotta del N.F. non si ritiene scriminata dall'esercizio del diritto invocato.

Nell'ambito della proporzionalità della sanzione, va esaminata anche la censura concernente l'illegittimità del licenziamento per mancata contestazione della recidiva.

A riguardo il N.F. deduce che la AMIU non gli avrebbe notificato le contestazioni ed i relativi procedimenti disciplinari (nota prot. 1508 dell'01.03.2022, nota prot. n. 3113 del 20.05.2022, nota prot. 4055 del 06.07.2022) menzionati nella contestazione dell'08.09.2022. A suo dire, ciò impedirebbe alla società di considerare la reiterazione delle sue condotte come presupposto del licenziamento.

Per converso, la società argomenta di aver correttamente notificato al ricorrente i provvedimenti di cui sopra, producendo a sostegno le ricevute di spedizione.

Orbene, dall'esame degli allegati di cui ai numeri 6.a), 6.b) e 6.c.) della memoria di parte resistente, si desume che essa ha correttamente portato a conoscenza del dipendente sia le contestazioni che i pedissequi provvedimenti disciplinari.

In particolare, dall'avviso di ricevimento di cui all'allegato n. 6.a) risulta che la contestazione disciplinare n. prot 1508 dell'01.03.2022 è stata ritirata dal destinatario in data 04.03.2022.

Ancora, dalle restanti ricevute risulta che sia in relazione alle altre due contestazioni che ai due provvedimenti disciplinari, si è compiuta la relativa giacenza dell'atto presso l'ufficio postale.

Detta prova, dunque, è idonea a far operare la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c., dal momento che la società ha dato prova dell'invio degli atti all'indirizzo del ricorrente, mentre quest'ultimo non ha dimostrato di essere stato nell'impossibilità di averne notizia della notifica per causa a lui non imputabile.

Ne deriva che, in base alla norma di cui sopra, le contestazioni disciplinari anteriori a quella dell'08.09.2022 si presumono conosciute da parte del ricorrente, ciò anche sulla scorta dell'orientamento giurisprudenziale secondo cui "la produzione in giudizio (cosi' come di un telegramma) della lettera raccomandata con la relativa ricevuta di spedizione dall'ufficio postale costituisce - anche in mancanza dell'avviso di ricevimento - prova certa della spedizione, e da essa consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell'ordinaria regolarita' del servizio postale, di arrivo dell'atto al destinatario e della sua conoscenza, a norma dell'articolo 1335 c.c.: superabile dalla prova contraria, a carico del destinatario, di essere stato, senza sua colpa, nell' impossibilita' di non averne notizia (Cass. 4 giugno 2007, n. 12954; Cass. 20 giugno 2011, n. 13488; Cass. 12 ottobre 2017, n. 24015; Cass. 11 gennaio 2019, n. 511)" (Cass. 9427/2023).

L'operatività della presunzione di conoscenza delle precedenti contestazioni comporta che la società ha legittimamente contestato al ricorrente la reiterazione delle condotte alla base delle stesse.

Per cui, considerato che la condotta del N.F. è risultata posta in essere in modo reiterato ed in violazione dei limiti posti all'esercizio del diritto di critica, anche detto motivo di impugnazione si appalesa infondato e, per l'effetto, il licenziamento si ritiene ad essa proporzionato.

Parimenti infondata risulta la censura concernente la mancata affissione del codice disciplinare presso i locali dell'azienda, dal momento che, attesa la genericità delle deduzioni presenti in ricorso, la società resistente ha fornito prova contraria mediante le dichiarazioni della teste Sibilano Claudia che ha affermato: "il codice disciplinare all'epoca della contestazione disciplinare (08/09/2022) era affisso e lo è tutt'ora nelle bacheche aziendali ubicate al primo e al secondo piano degli uffici amministrativi e tecnici ubicati presso la sede legale dell'Amiu. Non sono a diretta conoscenza dell'affissione del codice disciplinare presso gli spogliatoi e presso il CCR comunale, ma presumo di si".

In definitiva, alla luce di tutte le motivazioni esposte, ogni motivo di impugnazione del licenziamento è infondato e dunque il ricorso deve essere integralmente rigettato.

Non può essere invece disposta la condanna del lavoratore al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c., in assenza di prova che egli abbia agito in giudizio con dolo o colpa grave.

Le spese processuali seguono la soccombenza e sono integralmente poste a carico del ricorrente, nella misura liquidata in dispositivo, ai sensi del D.M. n. 55/2014 e s.m.i.

P.Q.M.
il Tribunale di Trani, Sezione Lavoro, nella persona del Giudice del Lavoro dott.ssa Floriana Dibenedetto, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta con ricorso depositato il 04.05.2023 da N.F. nei confronti della AMIU S.P.A., rigettata ogni diversa istanza, così provvede:

1) rigetta il ricorso;

2) rigetta la domanda risarcitoria ex art. 96 c.p.c.;

3) condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali della società resistente, che liquida in € 3.000,00 per compensi al difensore, oltre RSG CAP e IVA come per legge.

Così deciso in Trani in data 01.07.2024.

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