Tribunale Nola, 18/01/2022, (ud. 19/11/2021, dep. 18/01/2022), n.2251
Il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato dalla reiterazione di atti vessatori e lesivi dell'integrità fisica e morale della vittima, connessi da un legame di abitualità e caratterizzati dalla consapevolezza dell'agente di infliggere sofferenze. La configurazione del reato non è esclusa dalla cessazione della convivenza se permangono vincoli di solidarietà derivanti dalla relazione precedente.
Svolgimento del processo
Con decreto di giudizio immediato emesso dal GUP in sede in data 9 novembre 2018, Pe. Fr. veniva tratto a giudizio per rispondere dei reati in epigrafe indicati.
All'udienza del 22 febbraio 2019, il giudice, accertata la regolare costituzione delle parti e disposto procedersi in assenza dell'imputato, ritualmente citato e non comparso, rinviava il processo per l'apertura del dibattimento.
All'udienza del 29 maggio 2019 (prima innanzi allo scrivente), il giudice, revocata l'ordinanza con cui si era disposto procedersi in assenza dell'imputato, dichiarava aperto il dibattimento e ammetteva i mezzi di prova orali e documentali richiesti dalle parti. Si procedeva, poi, all'escussione della persona offesa, De Se. Lu., e del teste, No. Fe.. All'esito, il processo veniva rinviato in prosieguo.
All'udienza del 16 ottobre 2019, il processo veniva rinviato, stante il legittimo impedimento del difensore per motivi di salute (con conseguente sospensione del corso della prescrizione per un periodo di 2 mesi e 14 giorni).
All'udienza dell'8 gennaio 2020, si procedeva all'escussione dei testi, Pe. Fr., Pe. Da. e Pe. Pa.. Quest'ultimo avanzava richiesta di essere escusso senza vedere il padre in aula e il giudice, in accoglimento, provvedeva a far istallare un divisorio tra i due soggetti. All'esito, il processo veniva rinviato in prosieguo.
Rinviata d'ufficio l'udienza del 29 aprile 2020 per l'emergenza epidemiologica da "COVID-19" (con conseguente sospensione del corso della prescrizione per un periodo di 12 giorni), alla successiva udienza del 24 giugno 2020, si procedeva all'escussione della teste, De Se. Ca.. All'esito, il processo veniva rinviato in seguito.
All'udienza del 24 luglio 2020, si procedeva all'escussione della teste, Pe. Al.. All'esito, il processo veniva rinviato in prosieguo.
All'udienza del 30 ottobre 2020, la difesa, stante il legittimo impedimento dell'imputato, impegnato ad assistere la madre in attesa dell'arrivo del medico, e nulla osservando le altre parti, chiedeva un breve rinvio del procedimento. Il giudice, in accoglimento, rinviava il processo in prosieguo (con conseguente sospensione del corso della prescrizione per un periodo di 2 mesi e 8 giorni).
All'udienza dell'8 gennaio 2021, si procedeva all'esame dell'imputato e all'esito, con il consenso delle parti, si acquisiva il verbale di interrogatorio dallo stesso reso nel corso del procedimento. All'esito, il processo veniva rinviato in prosieguo.
All'udienza del 21 maggio 2021, il processo veniva rinviato stante l'assenza dei testi della difesa.
All'udienza del 23 giugno 2021, si procedeva all'escussione dei testi, Na. Be. e De Lu. Fe.. All'esito, il processo veniva rinviato per la discussione.
All'udienza del 1° ottobre 2021, il processo veniva rinviato, stante il legittimo impedimento del difensore per motivi personali (con conseguente sospensione del corso della prescrizione per un periodo di 1 mese e 18 giorni).
All'odierna udienza, l'imputato rendeva dichiarazioni spontanee e all'esito il giudice, dichiarata chiusa l'istruttoria dibattimentale e utilizzabili tutti gli atti processuali contenuti nel fascicolo dibattimentale, dava la parola alle parti, che rassegnavano le conclusioni in epigrafe riportate, sulla base delle quali pronunciava la presente sentenza, dando lettura del dispositivo in udienza.
Motivi della decisione
Osserva il giudicante che, alla luce degli atti acquisiti al fascicolo del dibattimento e dell'attività istruttoria espletata, vada affermata la penale responsabilità dell'imputato in ordine ai reati a lui ascritti in rubrica.
Tale decisione si fonda sulla valutazione complessiva degli elementi probatori acquisiti e, in particolare, sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa, De Se. Lu., che hanno superato positivamente il rigido vaglio di credibilità e di attendibilità cui questo giudice le ha sottoposte.
La De Se. ha riferito di essersi sposata con l'odierno imputato negli anni novanta e di essersi separata nel 2015 e che, durante il matrimonio, erano nati quattro figli, due maschi e due gemelle.
Prima ancora che i due si sposassero, quand'ancora erano fidanzati, l'uomo aveva sempre assunto nei suoi confronti atteggiamenti aggressivi, sia verbali che fisici. Ed invero, a detta della donna, il marito era solito picchiarla, per poi pentirsi e chiedere perdono. Dopo il matrimonio, le condotte poste in essere dal Pe. erano però peggiorate. Ed invero, stando al narrato della donna, in occasione di un episodio verificatosi durante la convivenza matrimoniale, a seguito di una banale discussione, l'imputato l'aveva colpita con uno schiaffo in pieno volto, a causa del quale la stessa aveva subito gravi conseguenze alla retina dell'occhio. Al riguardo, la De Se. ha specificato che tutte le aggressioni fisiche e verbali poste in essere dal Pe. erano sempre avvenute con modalità analoghe: l'uomo chiudeva le finestre e le porte per non far udire nulla al vicinato, si scagliava contro di lei con calci e pugni e la offendeva pesantemente ("cessa, troia, puttana"). La persona offesa ha aggiunto che il marito aveva sempre assunto questi atteggiamenti aggressivi in quanto ereditati dalla sua famiglia. Non a caso, sia l'uomo che sua madre l'avevano indotta a vivere in uno stato di intimidazione e soggezione in virtù delle continue minacce anche di stampo camorristico ("ti faccio scomparire in un pilastro di cemento") che le venivano ogni volta rivolte. La donna, definendo il marito come un "padre-padrone", ha precisato che tali comportamenti prevaricatori venivano posti in essere anche nei confronti dei figli. Vero è che l'uomo non li aveva mai minacciati; tuttavia, continue erano le offese a loro rivolte ("scemo, stai zitto"), tali da far crollare la loro autostima; ciò in particolar modo nei confronti dei due figli maschi, Pa. e Da.. In particolare, nei confronti del primo, in ragione del suo orientamento sessuale, l'uomo aveva sempre assunto un atteggiamento particolarmente vessatorio: oltre, infatti, ad aggredirlo verbalmente e fisicamente, lo aveva invitato in più di un'occasione a togliersi la vita ("non è buono a niente, si deve buttare sotto al treno, ricchione, omosessuale, ti rompo il culo"). In realtà, già da piccolo, quand'ancora non era a conoscenza del suo orientamento sessuale, il Pe., senza alcun apparente motivo, era solito chiudere Pa. in cantina e picchiarlo violentemente. Analoghi atteggiamenti erano stati perpetrati nei confronti dell'altro figlio, Da.. Quest'ultimo, oltre a sentirsi dare costantemente della "femminella" dal padre, si era sempre lamentato con la madre degli atteggiamenti del padre che lo avevano psicologicamente provato. Infatti, Da. le aveva riferito che ogniqualvolta il padre lo accompagnava a giocare a calcio, anziché motivarlo o stimolarlo, lo denigrava in presenza degli altri genitori ("non servi a niente") e scagliava al suo indirizzo dei sassi. L'episodio che induceva la De Se. a separarsi dal marito si verificava, però, nel novembre 2015, allorquando la donna ascoltava una conversazione intercorsa tra il Pe. e un suo amico, tale Ma. Be.. Al riguardo, la donna ha premesso che poco tempo prima aveva acquistato un registratore audio per una delle sue figlie, ma di averlo ben presto smarrito. Dopo averla ritrovato nell'autovettura in uso al marito, casualmente aveva scoperto di una conversazione telefonica che il marito aveva intrattenuto con un suo amico e dal cui contenuto, ancora una volta, era emerso l'astio che l'uomo provava per lei. In particolare, nel corso della conversazione, il Pe., senza mostrare alcuna sensibilità, aveva riferito al Ma. che la moglie avesse un odore nauseabondo ("puzzava di pesce marcio") a causa di un'infezione venerea. Ed infatti, la donna ha specificato che per tale ragione in quel periodo si era recata da un ginecologo, il quale, rendendola edotta che tali infezioni erano portatrici di tumori all'utero, l'aveva invitata a interloquire con il marito affinché questi provvedesse a eseguire una spermocoltura. Dopo aver fatto presente questa problematica al marito, quest'ultimo, convinto di essere estraneo al problema, aveva declinato la sua proposta ("ma c teng a vré! Fattell tu, vui femmn!"). Peraltro, dalla conversazione non solo emergeva che il Pe. avesse tradito la De Se. con le proprie colleghe di lavoro, ma anche che era stato proprio l'uomo a seguito di questi rapporti extraconiugali a trasmetterle questa infezione. Ciò che rendeva impossibile avere un rapporto sereno con l'imputato, stando a quanto riferito dalla persona offesa, era la circostanza che quest'ultimo non amava essere contraddetto e teneva un atteggiamento di carattere profondamente autoritario. Ed invero, la De Se. non si era mai permessa di contraddirlo perché altrimenti il Pe. avrebbe inasprito le proprie condotte vessatorie e, pertanto, aveva sempre assecondato le sue richieste e le sue volontà. La donna ha, poi, descritto gli episodi in occasione dei quali era stata aggredita fisicamente dall'imputato. In un primo episodio, verificatosi nel novembre del 2015, la donna ha raccontato di aver sorpreso il marito mentre era intento a parlare al telefono con una donna. Sospettando che si trattasse di una persona con cui questi intratteneva una relazione extraconiugale, lo invitava a farsi indicare il numero di telefono cellulare della sua interlocutrice. Tuttavia, l'uomo, risentito, anziché acconsentire, dapprima, le stringeva il filo dell'apparecchio telefonico intorno al collo e, poi, le lanciava l'oggetto sul piede, provocandole delle ecchimosi, che la donna provvedeva a fotografare (cfr., rilievi fotografici, in atti). Un ulteriore episodio di violenza si verificava nel febbraio del 2016, allorquando la persona offesa ha riferito di aver riportato ustioni di secondo grado. In tale frangente, senza un valido motivo, l'uomo le rovesciava una pentola di brodo caldo sul corpo. Le urla forti della donna attiravano l'attenzione della suocera, la quale, entrata in casa, anziché soccorrerla, la ingiuriava ("sta puttana, mo' ti va a denunciare"). Dopo essersi finalmente convinta a denunciarlo - decisione che non aveva preso prima, temendo per la propria incolumità e per le ripercussioni che tale scelta avrebbe avuto sui propri figli - e aver ottenuto la separazione legale nel giugno del 2016, la donna, in seguito alla sentenza dell'Autorità giudiziaria, si era trasferita, insieme ai suoi figli, in un appartamento di proprietà del Pe., posto immediatamente sopra l'abitazione di quest'ultimo. Nonostante ciò, l'uomo non desisteva dai suoi atteggiamenti vessatori; tutti i giorni urlava, inveiva contro di lei e le sputava in faccia. In un episodio in particolare, verificatosi il 16 settembre 2017, senza alcun motivo, forse mosso da un sentimento di gelosia, dal momento che la De Se. aveva iniziato a frequentare un altro uomo, dopo averla vista uscire con l'auto dal suo garage, le si avvicinava e le sferrava un pugno all'altezza della testa e la ingiuriava ("troia, cessa, puttana"). I forti dolori e le lesioni procuratele in tale frangente la inducevano a portarsi presso il Presidio Ospedaliero di Nola per farsi refertare. Qui le venivano diagnosticati un "traumatismo della testa, non specificato, e contusioni facciali" (cfr., verbale di pronto soccorso, in atti) giudicati guaribili in quattro giorni. In occasione di un altro episodio, verificatosi successivamente, il Pe. la minacciava addirittura con un coltello, incurante della presenza del figlio Da..
Dopo la separazione, avendo saputo che la donna aveva iniziato a frequentare tale Ma. Ca., l'imputato aveva iniziato anche a pedinarla o personalmente o per il tramite di suoi conoscenti. A riprova di ciò, la donna ha riferito di un episodio accaduto il 22 agosto 2017, in occasione del quale, mentre, in compagnia delle due figlie, era diretta verso l'abitazione della sorella, sita in Nola, si era accorta che nelle immediate vicinanze e precisamente nei pressi di un distributore di benzina, era presente il marito a bordo della sua (omissis). Stanca di questi continui appostamenti, si era avvicinata al Pe. per intimargli di porre fine alle proprie condotte, ma questi, ancor prima che la stessa potesse riferirgli ciò, aveva iniziato ad ingiuriarla con le solite espressioni ("cessa, troia, puttana"). L'ultimo episodio rilevante risaliva al 1° dicembre 2017. In tale data, la donna unitamente al nuovo compagno si era recata a casa di alcuni amici. Nel corso della serata, era sopraggiunto il Pe. che, dopo aver aggredito alle spalle il Ma., aveva inveito anche contro la sua ex moglie, trascinandola per i capelli fino a farla urtare contro un ferro.
Quanto riferito dalla persona offesa è stato sostanzialmente confermato dalle dichiarazioni rese nel corso dell'istruttoria dibattimentale dai suoi quattro figli, Pa., Da., Fr. e Al.. Il primo, in particolare, oltre a riferire di aver subito maltrattamenti dal padre sin dalla tenera età, ha specificato che i rapporti in famiglia non erano mai stati idilliaci a causa dell'atteggiamento autoritario del padre e delle condotte vessatorie e minatorie poste in essere da lui e dalla nonna paterna. In particolar modo, pur ammettendo che il padre dal punto di vista economico non gli aveva mai fatto mancare niente, il teste ha lamentato una forte carenza dal punto di vista affettivo e psicologico. Infatti, la sua mente era stata segnata, sin da piccolo, dalle continue offese e dalle aggressioni fisiche che l'uomo perpetrava soprattutto nei confronti suoi e della madre ("cessa, troia, tu non vali niente"). Al riguardo, Pa. ha dichiarato che il padre era solito vessarlo e punirlo, fino al punto di chiuderlo in cantina in un caso, e in un altro di lanciargli un tronco addosso, minacciandolo di morte ("ti devo uccidere! Ti devo uccidere!"). Diverse e numerose erano state anche le offese a lui rivolte ("tu sei scemo, tu sei handicappato, tu non vali niente, tu non sei niente"), tali da incidere pesantemente sulla sua autostima. Ed invero, a seguito di tali comportamenti, il teste non solo si era chiuso in sé stesso, rinunciando a stringere rapporti di amicizia, ma aveva addirittura perso la forza di andare avanti. A causa dei traumi subiti, era diventato molto ansioso e aveva iniziato ad assumere dei farmaci. In relazione al suo orientamento sessuale, il teste ha riferito che il padre, non avendo mai accettato la sua omosessualità, l'aveva sempre offeso e minacciato per tale ragione ("ti do a calci, ti sfondo là") e aveva anche provato a indurlo al suicidio, dicendogli di buttarsi dal balcone e che era meglio avere un figlio drogato piuttosto che omosessuale. Diversi, poi, erano stati gli episodi di aggressioni verbali e fisiche ai danni della madre che lo avevano particolarmente segnato. Primo fra tutti, quello verificatosi nel 2002, in occasione del quale il padre per una banale discussione le aveva rovesciato del brodo bollente addosso. Un secondo episodio si era verificato, invece, il 15 novembre 2015, allorquando, dopo che la madre, avendo scoperto il tradimento del marito e avendo tentato di assumere informazioni in merito, gli aveva strappato dalle mani il telefono, l'imputato se ne era riappropriato e le aveva avvolto il filo dell'apparecchio (trattandosi di telefono di vecchia generazione) intorno al collo, per poi lanciarglielo sul piede. Anche Pa., definendo il Pe. come un "padre-padrone", ha dichiarato che le aggressioni sia fisiche che verbali erano all'ordine del giorno e che queste erano sempre avvenute all'interno delle mura domestiche affinché il vicinato non fosse a conoscenza di nulla. Infine, in ordine al messaggio "WhatsApp" che gli veniva sottoposto in visione in occasione della sua escussione e che lo stesso avrebbe inviato all'utenza telefonica del padre, scusandosi di averlo denunciato e ammettendo di aver inventato tutte le accuse a lui rivolte, ha chiarito che si trattava di un messaggio che era stato lo stesso imputato a inviarsi dall'utenza nella sua disponibilità, proprio allo scopo di precostituirsi una prova a suo favore (cfr. documentazione, in atti).
Di analogo tenore le dichiarazioni rese dall'altro teste, Pe. Da., secondogenito della coppia, il quale, pur premettendo di trascorrere intere giornate fuori casa, per i suoi impegni scolastici e calcistici, ha ammesso che all'interno della sua famiglia vi era sempre stato un clima alquanto teso, soprattutto a seguito dei continui litigi intercorsi tra il padre e la madre in occasione dei quali quest'ultima era vittima di continue offese, minacce e vessazioni da parte del marito. In merito, poi, ai rapporti che l'imputato aveva con lui e con i fratelli, Da. ha chiarito che il padre non era mai stato amorevole nei loro confronti e, pur dando loro sempre un sostegno economico, da un punto di vista affettivo era sempre stato carente. Soltanto dopo la separazione con la madre, almeno nei suoi confronti, il padre si era mostrato più presente e disponibile.
Pe. Fr., dal canto suo, pur dichiarando anch'essa di non essere quasi mai presente in casa e pur tentando inizialmente di sminuire la portata delle condotte poste in essere dal padre, ha, poi, di fatto ammesso che vi fossero continue aggressioni verbali da parte del padre nei confronti non solo della madre ma anche suoi e dei suoi fratelli ("scema, stronza"). Ha specificato, inoltre, che il padre era un soggetto violento e che, non poche volte, aveva lanciato degli oggetti contro il fratello Da., oltre ad intimidirlo, brandendo un manico di scopa. Più nello specifico, ha raccontato di un episodio in occasione del quale il padre aveva lanciato contro Da. una bottiglia di acqua e contro la sorella gemella Al. un mandarino solo perché questi gli stavano impedendo di ascoltare il telegiornale. In ordine, poi, ai rapporti tra il padre e la madre, la teste ha riferito di come fossero state sempre all'ordine del giorno le aggressioni fisiche e verbali da parte dell'imputato. Pur non avendo assistito in prima persona a tutti gli episodi, la teste aveva raccolto le confidenze della madre in merito agli stessi. Primo fra tutti, l'episodio del 15 novembre 2015, in occasione del quale la De Se. aveva riportato delle ecchimosi e un gonfiore al piede a seguito di una accesa discussione con il Pe. Al riguardo, la teste ha dichiarato che il padre, in quella circostanza, non solo aveva lanciato il telefono sul piede della madre, ma aveva anche cercato di strangolarla con il filo dell'apparecchio. Circa, invece, il rapporto con il padre, Fr. ha specificato che questi con lei era più affettuoso che con gli altri fratelli, anche se in una occasione aveva tentato di ricattarla, dicendole che non l'avrebbe più sostenuta economicamente se lei lo avesse allontanato in favore della madre. I rapporti più tesi, però, erano quelli che vedevano coinvolti il padre e il fratello Pa.. Questi, continuamente, riceveva offese e vessazioni dall'imputato in ragione del proprio orientamento sessuale ("sei ricchione, te ne devi andare di casa"). Con riferimento, poi, alla registrazione audio attraverso la quale la madre aveva scoperto della relazione extraconiugale tra il padre e una certa Ma., la teste, non solo ha ammesso di esserne a conoscenza ma ha anche aggiunto che dal contenuto della stessa, da lei ascoltata, emergeva che fosse stato il padre a trasmettere la malattia venerea di cui soffriva la madre.
Di analogo tenore le dichiarazioni rese da Pe. Al., la quale ha riferito che i litigi tra i suoi genitori avvenivano con cadenza giornaliera e che il padre, un uomo incapace di mostrare affetto, era solito aggredire lei e i suoi fratelli verbalmente e fisicamente anche per cose futili. Colui che aveva sempre la peggio era il fratello Pa., vessato, ingiuriato e minacciato soprattutto in ragione del suo orientamento sessuale ("ricchione, scemo, handicappato", "buttati sotto al treno", "buttati dal balcone"), del quale il Pe. incolpava la moglie e i suoi metodi educativi.
Anche Al., al pari degli altri fratelli era a conoscenza sia dell'episodio in cui il padre aveva aggredito la madre, dapprima, stringendole il filo del telefono intorno al collo e, poi, lanciando l'apparecchio al suo indirizzo, colpendola sul piede e procurandole, all'esito, lesioni visibili, che delle relazioni extraconiugali intrattenute dal Pe.. In merito alla personalità dell'imputato, la teste ha chiarito che il padre era molto autoritario e aveva sempre considerato la madre come una "serva", ragion per cui quest'ultima era obbligata ad assecondare ogni sua richiesta. Anche la nonna paterna li aveva sempre trattati con superficialità e disprezzo; molte, infatti, erano state le offese a loro rivolte, tanto da segnarla profondamente da un punto di vista emotivo.
Il propalato della persona offesa ha trovato riscontro anche in quanto riferito nel corso dell'istruttoria dibattimentale dalla sorella, De Se. Ca.. Quest'ultima, evidenziando il clima familiare di forte discordia, ha dichiarato che i soggetti più colpiti dalle condotte vessatorie del Pe. erano la sorella e il primogenito Pa.. Quest'ultimo, proprio in virtù delle condotte ingiuriose e offensive del padre, il quale, più di una volta lo aveva definito "handicappato", dapprima aveva tentato il suicidio, lanciandosi dal balcone, e, poi, aveva pensato di buttarsi sotto un treno. La teste, inoltre, ha aggiunto non solo di aver ricevuto le confidenze della persona offesa in merito alle aggressioni subite dal Pe., ma anche di aver avuto modo di vedere in prima persona le lesioni che l'imputato le aveva cagionato: in un caso del sangue agli occhi, procurato da uno schiaffo del Pe., in un altro il piede gonfio a causa del lancio dell'apparecchio telefonico, in un altro ancora delle ustioni al corpo, dal momento che l'imputato le aveva rovesciato addosso una pentola piena di brodo bollente. Stando a quanto riferito dalla teste, tra i due coniugi non vi era alcun tipo di dialogo e la sorella era sempre stata succube del Pe., il quale l'aveva sempre esclusa da ogni decisione afferente al nucleo familiare, privandola di qualunque indipedenza economica. Anche dopo aver manifestato esigenze di salute che rendevano opportuni alcuni interventi medici - nella specie, la persona offesa aveva bisogno di una ricostruzione dell'addome e dell'ombelico, entrambi deturpati dalla gravidanza - l'uomo si era sempre mostrato indifferente, non avallando mai le sue richieste. Infine, anche la teste ha confermato di aver ricevuto le confidenze della sorella in merito sia alle relazioni extraconiugali intrattenute dal Pe. che alle conseguenti malattie che lo stesso le aveva trasmesso.
Escussa in dibattimento, l'Ispettrice Fe. No. ha confermato lo stato di terrore in cui vivevano i familiari del Pe., i quali, nel momento in cui erano stati sentiti nel corso delle indagini preliminari, erano risultati visibilmente provati da quanto a loro accaduto.
Sottopostosi a interrogatorio, il Pe. ha negato gli addebiti a lui contestatigli, fornendo una diversa ricostruzione dei fatti. Innanzitutto, ha precisato di non aver mai fatto del male alla De Se. e di essere stato sempre un padre e un marito modello. Anche nei confronti dei figli, pur ammettendo di aver assunto molte volte un atteggiamento autoritario, ha chiarito di averlo fatto solo a fini educativi. A conferma di ciò ha precisato di essere considerato da tutti come una persona seria e affabile. In riferimento, poi, alle condotte vessatorie a lui contestate, questi ha negato di aver mai tenuto tali atteggiamenti. In primo luogo, ha negato di aver mai trasmesso alla ex moglie alcuna malattia venerea, dal momento che con la stessa non aveva più rapporti sessuali da oltre venti anni. E ancora, oltre a negare di aver mai colpito con uno schiaffo la De Se., procurandole uno spostamento della retina, ha precisato di non averle mai gettato del brodo bollente addosso né di averla seguita quando la stessa si recava dalla sorella. In merito a tale ultimo episodio, l'imputato si è limitato a specificare che si trovava nei paraggi in quanto stava aspettando un suo amico lì residente. A suo dire, il motivo della rottura dei loro rapporti non era da ricollegarsi ai suoi asseriti atteggiamenti vessatori, bensì ai comportamenti della De Se., che avevano portato la coppia anno dopo anno ad allontanarsi, fino alla separazione. Ed invero, il Pe. ha riferito che già nel lontano 1998, dopo essere tornato a casa dopo una esperienza di lavoro nel nord Italia, gli veniva comunicata dalla moglie la sua volontà di separarsi, in quanto questa si era innamorata di un altro uomo. Secondo l'imputato, pertanto, la vittima aveva volontariamente registrato le sue conversazioni, lasciando appositamente un registratore audio nella sua autovettura. Ha, poi, aggiunto che il vero motivo per cui la persona offesa era così accecata di odio e rabbia nei suoi confronti era da ricollegarsi ad una questione di natura strettamente economica, tanto che lo stesso ha precisato che la De Se. gli avrebbe chiesto la somma di 75.000,00 Euro per ritirare ogni accusa nei suoi confronti (cfr. verbale di interrogatorio, in atti). Nel corso dell'esame dibattimentale, il Pe. ha confermato a grandi linee quanto dichiarato in sede di interrogatorio. In merito al proprio rapporto con i figli e in particolare alla contestata carenza di affetto nei loro confronti, questi si è giustificato, asserendo che le tensioni con la ex moglie avevano inciso negativamente anche in riferimento al comportamento da questi tenuto nei confronti dei suoi figli. Con riferimento in particolare al rapporto con il figlio Pa., l'imputato ha specificato che questi era un soggetto affetto da autismo e che per tale ragione era incapace di relazionarsi con le altre persone e, quindi, di socializzare. Pertanto, avendo un carattere estremamente fragile, era stato manipolato dalla madre, che lo aveva aizzato contro di lui. Ciò significava che i rapporti tra i due non erano per nulla incrinati; ed invero, Pa., diversamente da quanto da lui raccontato, era solito andare a trovarlo tutti i giorni. Stando alla sua ricostruzione, era il Pe. la vera vittima di condotte vessatorie perpetrate ai suoi danni dai suoi familiari: non solo perché buona parte dello stipendio che percepiva per effetto di un provvedimento dell'Autorità Giudiziaria era destinato al mantenimento della ex moglie, essendo, quindi, lo stesso costretto a vivere con la pensione della madre, ma anche perché era stato egli stesso vittima di aggressioni fisiche e verbali da parte della De Se. e del suo nuovo compagno. Al riguardo, infatti, il Pe. ha ribadito di non aver mai vessato la ex moglie, la quale aveva inventato tutte le accuse nei suoi confronti solo per questioni economiche.
Di analogo tenore le dichiarazioni spontanee rese dall'imputato sempre nel corso del dibattimento, in occasione delle quali l'uomo ha ammesso di non essere stato forse un bravo marito e un bravo padre, ma ha ribadito si era sempre messo a disposizione e di essersi sempre adoperato per risolvere i problemi della ex moglie e dei suoi figli. Ed infatti, ad ognuno di essi non aveva mai fatto mancare nulla, quantomeno da un punto di vista economico. Ciò in particolare nei confronti dei figli, i quali erano sempre stati sostenuti perché potessero realizzarsi professionalmente (cfr. documentazione, in atti).
Tale ricostruzione ha trovato conferma nel propalato dei due testi della difesa, Na. Be. e De Lu. Fe..
Il Na., interrogato in merito alla vicenda dell'agosto 2017, che aveva visto coinvolti i due ex coniugi e che si era verificata presso un distributore di benzina, ha riferito che diversamente da quanto dichiarato dalla De Se., era stata proprio quest'ultima ad inveire contro il marito. Più in particolare, il teste ha specificato che mentre si trovava in macchina, intento a parlare con l'imputato, la donna si era avvicinata all'autovettura e aveva iniziato a ingiuriare il Pe. ("depravato, strozzino"), il quale, vista la presenza di altre persone, non aveva reagito in alcun modo e si era allontanato.
Anche il De Lu., premettendo di conoscere da più di quarant'anni i due ex coniugi, ha dichiarato di non essere a conoscenza dei presunti maltrattamenti perpetrati dal Pe. nei confronti della ex moglie, precisando che in ogni caso era improbabile quanto dichiarato dalla donna. Infatti, a conferma della bontà del comportamento dell'imputato, il teste ha riferito che dopo essersi separato e non avendo più un tetto, era stato ospitato per due anni proprio dal Pe. nella sua abitazione. Stando a quanto dichiarato dal De Lu., l'imputato, pur essendoci dei rapporti tesi con la ex moglie, aveva sempre trattato bene i figli, rendendosi disponibile per qualsiasi esigenza da loro manifestata. A tal proposito, dopo la separazione tra i due coniugi, in più di un'occasione era stato il Pe. che aveva ospitato a casa sua anche il figlio Da., in quanto questi, dopo aver saputo che la madre aveva iniziato a frequentare un altro uomo, aveva deciso di allontanarsi da lei. In relazione, poi, al rapporto tra il Pe. e il figlio Pa., il teste ha smentito l'esistenza di tensioni tra loro, riferendo, anzi, che tra i due vi fosse un bel rapporto. Ed invero, in riferimento al messaggio mandato da Pa. sull'utenza del padre, dal cui contenuto erano evidenti le richieste di scuse a lui rivolte e la rabbia che il primo provava nei confronti della madre, il De Lu. ha dichiarato di esserne a conoscenza in quanto, nel momento in cui gli era stato inviato, il Pe. si trovava proprio in sua compagnia. Il teste ha, quindi, smentito l'ipotesi secondo cui tale messaggio fosse stato scritto dallo stesso imputato e inviato sulla sua utenza cellulare per precostituirsi una prova.
Tanto premesso, a parere di questo giudice, l'ipotesi accusatoria relativa al reato di maltrattamenti in famiglia ha trovato pacifico conforto nelle sintetizzate risultanze istruttorie e per tale ragione va senza dubbio affermata la penale responsabilità dell'odierno imputato innanzitutto per il reato a lui ascritto al capo a) dell'imputazione.
Ed invero, le dichiarazioni rese dalla persona offesa hanno positivamente superato il vaglio di attendibilità intrinseca ed estrinseca, essendo risultate assolutamente genuine, credibili e coerenti e avendo trovato riscontro nella documentazione prodotta agli atti e nelle dichiarazioni rese dagli altri soggetti escussi e, in particolare dai figli, i quali, sia pure con comprensibili remore, hanno di fatto riferito non solo di aver udito le confidenze della madre circa i comportamenti vessatori tenuti dall'odierno imputato, ma anche di aver assistito in prima persona ad alcuni degli episodi sopra descritti.
Va in merito ricordato che è assolutamente consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui la testimonianza della persona offesa ben può costituire una fonte di convincimento, ancorché esclusiva, per il giudice, anche se, per essere posta a fondamento di un giudizio di colpevolezza, essa deve essere sottoposta ad un rigoroso vaglio critico della sua attendibilità, sia intrinseca che estrinseca, al fine di escludere che sia l'effetto di mire deviatrici (in tal senso, cfr. Cass., Sez. I, 24 settembre 1997, n. 8606). In sostanza, alla persona offesa è riconosciuta la capacità di testimoniare a condizione che la sua deposizione, non immune da sospetto per essere la stessa portatrice di interessi in posizione di antagonismo con quelli dell'imputato, sia ritenuta veridica, dovendosi a tal fine far ricorso all'utilizzazione ed all'analisi di qualsiasi elemento di riscontro o di controllo ricavabile dal processo (Cass., Sez. V, 3 novembre 1992, n. 839; Cass., Sez. II, 24 settembre 2015, n. 43278).
È, però, anche opportuno precisare che, non configurando il dettato normativo alcuna pregiudiziale di natura ontologica alla utilizzabilità della stessa deposizione quale prova ex se esaustiva per la affermazione della responsabilità penale, eventuali riscontri estrinseci, se acquisiti, non devono necessariamente presentare le connotazioni che si richiedono per la verifica della chiamata in correità (e cioè, in sintesi, la convergenza con altri elementi di natura indiziaria e la portata individualizzante o specifica del riscontro, che deve riguardare, nel caso di chiamata, sia la persona dell'incolpato, che le imputazioni a lui ascritte).
D'altronde, risulta assolutamente plausibile la circostanza che la De Se. abbia atteso diversi anni prima di denunciare le condotte tenute dall'odierno imputato, avendo cercato sempre di mantenere unita la famiglia, circostanza che ancor più fa propendere per l'assenza di qualunque intento calunniatorio nei suoi confronti e che rafforza la sincerità del propalato della persona offesa. Non a caso, secondo quanto dalla stessa riferito nel corso dell'istruttoria dibattimentale, i motivi principali per cui non aveva mai avuto il coraggio di denunciare il marito erano da ricollegarsi, da un lato, alla volontà di tutelare i propri figli e, dall'altro, alla paura che il Pe. potesse concretizzare le continue minacce a lei rivolte.
Sulla base, allora, delle indicate risultanze istruttorie risulta al di là di ogni ragionevole dubbio provata la penale responsabilità del Pe. per il delitto di maltrattamenti in famiglia.
Costui, sin dai primi anni di matrimonio, ha sottoposto, in modo continuativo e abituale, la moglie e i propri figli a ripetuti atti di violenza morale e fisica, rendendo impossibile la convivenza all'interno del nucleo familiare. Ed invero, è emerso pacificamente che le liti, in molti casi, avvenivano in presenza dei figli, alcuni dei quali all'epoca dei fatti minorenni, fortemente traumatizzati da tali accadimenti.
La De Se. ha tracciato un quadro chiaro dei rapporti intrattenuti con l'odierno imputato, caratterizzati da continue aggressioni verbali e fisiche da parte dell'uomo, il quale, una volta perso il controllo, si scagliava contro la moglie per i più futili motivi, iniziando con insulti e minacce e, poi, passando, in molte occasioni, addirittura alle vie di fatto.
Particolarmente allarmante risulta la circostanza che tali comportamenti avvenivano in presenza e ai danni anche dei figli minori, nei confronti dei quali, pertanto, l'imputato non mostrava alcun sentimento di protezione e di tutela.
Non vi è ragione alcuna di dubitare del narrato della persona offesa, che descrive con linearità i comportamenti di cui è stata vittima. Le sue dichiarazioni mostrano un significativo equilibrio di coerenza interna e non offrono alcuno spunto che induca a considerare l'eventualità che la stessa sia animata da intenti calunniosi, come del resto si evince dall'assenza di qualsiasi riluttanza a riferire anche elementi favorevoli per l'imputato. Del resto, anche i figli della persona offesa (i quali hanno rinunciato a costituirsi parti civili nell'ambito del presente procedimento), pur confermando in dibattimento le condotte violente che l'imputato era solito assumere nei loro confronti e nei confronti della madre, non esitavano a sottolineare che lo stesso, pur essendo carente da un punto di vista affettivo-emotivo, era sempre stato presente economicamente, soddisfacendo ogni loro richiesta. Il racconto della vittima ha, infatti, trovato riscontro, oltre che nella documentazione acquisita agli atti (referto relativo all'episodio del 16 settembre 2017), nelle dichiarazioni degli altri testi a carico escussi, ed in particolar modo in quelle dei suoi quattro figli e della sorella.
In particolare Pa. in più di una occasione ha evidenziato come il padre, oltre a maltrattare la madre, fosse solito maltrattare anche lui, soprattutto in ragione del suo orientamento sessuale. Ed invero, ha riferito di diversi episodi in cui era stato, suo malgrado, vessato e picchiato dal Pe., il quale in moltissime occasioni, lo aveva invitato a togliersi la vita.
Analogamente, gli altri tre figli, pur non avendo subito lo stesso trattamento riservato al fratello Pa., hanno dimostrato di essere comunque fortemente provati psicologicamente da quanto accaduto. Non a caso, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, hanno lasciato trasparire il clima di tensione che si respirava all'interno delle mura domestiche. Ed invero, pur tentando comprensibilmente di difendere il padre, hanno evidenziato in maniera chiara ed evidente l'atteggiamento dispotico e aggressivo assunto quotidianamente dallo stesso.
Peraltro, la sorella della De Se. oltre a ricevere le confidenze della persona offesa in ordine alle condotte vessatorie poste in essere nei suoi confronti dall'ex marito, in più di una occasione ha avuto modo di visionare i segni esteriori di tali condotte, ed in particolare i traumi fisici prodotti dalle aggressioni del Pe..
Pertanto, a fronte delle suesposte risultanze probatorie, le dichiarazioni rese dall'imputato e dai testi a discarico di estraneità dello stesso rispetto alla contestata commissione delle condotte vessatorie, non sono idonee a confutare la portata accusatoria del propalato della persona offesa e degli altri testi escussi, della cui credibilità non vi è motivo alcuno di dubitare, trattandosi di dichiaranti non animati da intenti calunniatori per le ragioni anzidette. Si tratta di dichiarazioni evidentemente strumentali alla difesa del Pe., non corroborate da alcun serio riscontro esterno.
Tutto ciò considerato, quindi, ritiene questo giudice che sussistono certamente i requisiti per l'integrazione del contestato reato di maltrattamenti in famiglia.
Tale delitto sussiste, infatti, quando l'agente sottoponga il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo che i singoli atti vessatori, delittuosi o meno (cfr. sul punto Cass. Pen., Sez. VI, 10 marzo 2016, n. 13422), siano uniti tanto da un legame di abitualità, quanto dalla coscienza e volontà dell'agente di porre in essere in modo continuativo tali atti. Ne discende che, ai fini della sussistenza del delitto in parola, occorre dimostrare che tutti i comportamenti accertati siano tra loro connessi e cementati in maniera inscindibile dalla volontà unitaria.
Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che "integra il delitto maltrattamenti in famiglia, oltre che l'esercizio reiterato di minacce e restrizioni della libertà di movimento di una donna componente del gruppo familiare, anche la sostanziale privazione della sua funzione genitoriale, realizzata mediante l'avocazione delle scelte economiche, organizzative ed educative relative ai figli minori e lo svilimento, ai loro occhi, della sua figura morale" (Cass., Sez. V, 25 marzo 2019, n. 21133).
Come chiarito, i comportamenti vessatori posti in essere dal Pe., seppur non quotidiani, si verificavano in modo abituale, ragion per cui si possono senza dubbio ritenere sussistenti i requisiti per l'integrazione del reato contestato.
È, infatti, sufficiente, ai fini della configurazione del delitto di cui all'art. 572 c.p., che i più atti fisicamente o moralmente violenti, delittuosi o meno, siano realizzati anche in momenti successivi, purché risultino collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un'unica intenzione criminosa di ledere l'integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze.
I fatti e le condotte che costituiscono maltrattamenti nel senso sopra indicato, infatti, sono atti, sia commissivi che omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo (cfr. Cass., Sez. VI, 27 aprile 1995, n. 4636; Cass., Sez. VI, 12 settembre 1996, n. 8396).
Ed infatti l'elemento caratterizzante della condotta di maltrattamento è dato dalla abitualità o reiterazione nel tempo di tali atti: tale requisito non richiede che ci si trovi al cospetto di un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto, ed essendo invece sufficiente che i singoli episodi siano unificati da un dolo unitario che abbraccia e fonde le diverse azioni, consistente nell'inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte.
Secondo il consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale, oltretutto, tale delitto sussiste quando l'agente sottoponga il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo che i singoli atti vessatori siano uniti tanto da un legame di abitualità, quanto dalla coscienza e volontà dell'agente di porre in essere in modo continuativo tali atti.
Ne discende che, ai fini della sussistenza del delitto in parola, occorre dimostrare che tutti i comportamenti accertati siano tra loro connessi e cementati in maniera inscindibile dalla volontà unitaria.
Il reato di maltrattamenti è, infatti, un "reato a condotta plurima", in quanto è tutta la condotta dell'imputato che deve essere considerata come caratterizzata da una serie o insiemi di azioni o omissioni finalizzate e da un comportamento assunto a sistema e distinto dal nesso di abitualità tra i vari fatti, con esclusione assoluta della mera occasionalità e del dolo d'impeto, isolato e frammentario.
Nel caso concreto, la molteplicità e continuatività dei comportamenti aggressivi e svilenti riferiti dalla persona offesa - e confermati dagli altri testi - nell'arco temporale che va dai primi anni di matrimonio fino al 2017, unita al quotidiano regime di soggezione instaurato dal Pe. tra le mura domestiche, non possono che far ritenere integrati gli elementi oggettivi del reato contestato. L'atteggiamento prevaricatore e aggressivo quotidianamente assunto dall'imputato, infatti, di fatto privava la persona offesa della possibilità di fare e dire ciò che desiderasse, in quanto anche il più futile dei motivi costituiva, nell'ottica del Pe., l'occasione propizia per offenderla, minacciarla e vessarla.
Né vale ad escludere la responsabilità dell'odierno imputato l'assenza di un continuativo rapporto di convivenza, interrotto per effetto della separazione, atteso che la giurisprudenza di legittimità ha in più di un'occasione chiarito che "il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche nel caso in cui le condotte proseguano dopo la cessazione della convivenza della vittima con l'agente, allorché non siano venuti meno i vincoli di solidarietà che derivano dalla precedente qualità del rapporto intercorso tra le parti" (Cass., Sez. III, 12 giugno 2019, n. 43701 - fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione di condanna che ha ravvisato il reato anche in relazione alle condotte tenute dal padre nei confronti della figlia naturale dopo la fine della convivenza).
Sul piano dell'elemento soggettivo, sussiste altresì il dolo generico richiesto dalla norma, inteso come consapevolezza e volontà di infliggere una serie di sofferenze alla vittima mediante una pluralità di atti vessatori. L'abitualità dei comportamenti aggressivi e il loro ripetersi in un determinato arco temporale denotano senza dubbio una consapevolezza nell'agente sulle sofferenze inflitte alla persona offesa, la quale era assolutamente succube delle violenze sia morali che fisiche e si era rassegnata a subirle.
Va, infatti, ricordato che nel reato abituale il dolo non richiede - a differenza che nel reato continuato - la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è invece sufficiente la consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 19 marzo 2014, n. 15146).
Infine, attesa l'età che i figli avevano al momento del compimento dei fatti, sussiste la circostanza aggravante di cui all'art 61, n. 11 quinquies c.p., ovvero dell'aver commesso il fatto in presenza di minori di anni diciotto.
Passando al delitto di lesioni contestato al capo B) della rubrica, sulla base delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, riscontrate dal propalato dei suoi figli, in particolare del figlio Pa., e della sorella, nonché dalla documentazione acquisita, risulta dimostrata la realizzazione da parte dell'imputato di una condotta idonea ad integrare gli estremi del reato previsto e punito dall'art. 582 c.p., essendo comprovato che il Pe. abbia cagionato alla De Se., attraverso la sua azione violenta, delle lesioni personali lievi ("traumatismo della testa e contusioni facciali"), descritte nel referto medico acquisito in atti, perfettamente compatibili con la dinamica degli eventi, così come emersa dall'istruttoria dibattimentale.
Al riguardo va, infatti, chiarito che le suddette lesioni ben possono integrare il reato in questione, atteso che ai fini del perfezionamento del delitto in esame, alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale, il concetto di malattia deve essere inteso come comprensivo di qualsivoglia alterazione, anatomica o funzionale, dell'organismo, ancorché lieve e circoscritta, che comporti un processo di reintegrazione, sia pure di breve durata, della salute della vittima. È stato, in particolare, sostenuto in giurisprudenza che anche la contusione escoriata può essere ricondotta al genus della malattia, perché, "ledendo, sia pure superficialmente, il tessuto cutaneo, non si esaurisce in una semplice sensazione dolorosa, ma importa un'alterazione patologica dell'organismo" (cfr., tra le altre, Cass. pen., sez. VI, 16.3.1971, n. 343). Nello stesso ordine di idee, la Suprema Corte ha più volte affermato che anche alterazioni anatomiche di minima rilevanza, quali gli ematomi, le ecchimosi, le escoriazioni o le contusioni, vanno ricompresi nel novero delle "malattie" e, dunque, sussunte nella previsione dell'art. 582 c.p. (cfr., Cass. pen., sez. I, 3.3.1976, n. 9480 e, tra le più recenti, Cass. pen., sez. IV, 19.12.2005, n. 2433; Cass., Sez. V, 29 settembre 2010, n. 43763; Cass., Sez. VII, 31 maggio 2016, n. 29786).
Sussistono, altresì, le circostanze aggravanti contestate, ovvero l'aver commesso il fatto ai danni di un prossimo congiunto (la moglie) e in occasione della realizzazione del reato di cui al capo a), rientrando quanto accaduto in data 16 settembre 2017 nel novero degli episodi in cui si è materialmente concretizzata la condotta persecutoria perpetrata nei confronti della persona offesa (cfr. Cass., Sez. V, 12 ottobre 2020, n. 34504).
Tanto premesso in ordine alla responsabilità del Pe., occorre determinare il trattamento sanzionatorio da applicare nei suoi confronti.
Innanzitutto, i due reati dei quali l'imputato è stato ritenuto responsabile possono essere riuniti sotto il vincolo della continuazione, in considerazione della contiguità temporale delle condotte, che appaiono espressive di un medesimo programma delinquenziale.
Inoltre, in assenza di alcun comportamento positivamente valutabile tenuto dall'odierno imputato, lo stesso non appare meritevole della concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Giova in proposito ricordare che le circostanze attenuanti generiche sono state introdotte per consentire soltanto una migliore individualizzazione della pena al caso concreto e non devono trasformarsi in uno strumento improprio per mitigare il rigore delle sanzioni, tanto che è stato necessario un intervento del legislatore che ha imposto, per legge, dei limiti alla concessione delle stesse. Tali circostanze, invero, per la loro atipicità, possono soltanto consentire al giudice di valutare elementi di fatto particolarmente significativi, sia di natura oggettiva che soggettiva, capaci di far risaltare il valore positivo del fatto, elementi positivi che non sono assolutamente rilevabili nel presente processo.
Quanto alla commisurazione della pena, valutati tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p., avuto riguardo specialmente alle modalità dei fatti ed al loro dispiegarsi in un elevato arco temporale, si ritiene congruo condannare Pe. Fr. alla pena finale di anni due e mesi sei di reclusione, così determinata: pena base per il più grave reato di cui al capo a) della rubrica, anni due e mesi cinque di reclusione (applicata la cornice legalmente prevista per i fatti commessi prima del 9 agosto 2019), aumentata per la continuazione con il reato di cui al capo b) alla pena finale suindicata. Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.
Riguardo alla domanda di natura civilistica formulata nel presente giudizio, va osservato che la realizzazione dei contestati reati da parte dell'imputato ha indubbiamente provocato un pregiudizio alla persona offesa sia di carattere fisico che morale.
Tuttavia, le prove acquisite non consentono di quantificare l'entità di tale danno e, pertanto, Pe. Fr. va condannato al risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi in un separato giudizio. Non potendo ritenersi raggiunta la prova neppure in ordine ad una misura parziale del danno, va rigettata la domanda di condanna al pagamento di una provvisionale formulata dalla parte civile costituita.
Infine, l'imputato, soccombente nel giudizio civile instaurato nell'ambito del processo penale, va condannato al pagamento delle spese di costituzione e rappresentanza affrontate dalla parte civile costituita, che si liquidano in Euro 2.000,00, oltre IVA e CPA e rimborso spese generali nella misura del 15%, come per legge.
Alla luce dei carichi di lavoro, si fissa in giorni sessanta il termine per il deposito della motivazione.
P.Q.M.
Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara Pe. Fr. colpevole dei reati a lui ascritti in rubrica e, riuniti gli stessi sotto il vincolo della continuazione, lo condanna alla pena di anni due e mesi sei di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.
Letti gli artt. 538 e ss. c.p.p. condanna Pe. Fr. al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, da liquidarsi in separato giudizio. Rigetta la richiesta di condanna al pagamento di una provvisionale.
Letto l'art. 541 c.p.p., condanna Pe. Fr. al pagamento delle spese di costituzione e rappresentanza sostenute dalla costituita parte civile, che liquida in Euro 2.000,00 oltre IVA e CPA e rimborso spese generali nella misura del 15%, come per legge.
Fissa in giorni sessanta il termine per il deposito della motivazione.
Così deciso in Nola, il 19 novembre 2021
Depositata in Cancelleria il 18 gennaio 2022