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Metodo mafioso e tentata estorsione: configurazione dell’aggravante e valore probatorio delle dichiarazioni della vittima (Giudice Paola Scandone)

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Tribunale Napoli sez. uff. indagini prel., 26/04/2012, (ud. 02/04/2012, dep. 26/04/2012), n.787

L’aggravante del metodo mafioso ex art. 7 L. 203/91 si configura quando il reato è commesso con modalità idonee a evocare l’intimidazione tipica delle associazioni di tipo mafioso, anche senza una specifica appartenenza dell’autore a tali sodalizi. Il tentativo di estorsione realizzato mediante minacce implicite e riferimenti a figure di spicco della criminalità organizzata rientra tra le condotte sanzionate dalla norma. La responsabilità dell’imputato può fondarsi sulle dichiarazioni della persona offesa, se giudicate intrinsecamente coerenti e supportate da riscontri oggettivi.

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La sentenza integrale

MOTIVI DELLA DECISIONE
A seguito di emissione di decreto di giudizio immediato, la difesa dell'imputato chiedeva la definizione del procedimento con le forme e i mezzi del giudizio abbreviato (in prima battuta, condizionato ad un'integrazione probatoria - richiesta rigettata dalla scrivente - e successivamente declinata senza la stessa).

Esaurita la fase relativa al controllo riguardo la regolare costituzione in giudizio delle parti, nel corso dell'udienza del 2/4/12 si dava corso alla discussione, all'esito della quale le parti rassegnavano le rispettive conclusioni e la scrivente si ritirava in camera di consiglio, all'esito della quale la presente sentenza veniva resa pubblica mediante lettura del relativo dispositivo.

Prima di valutare il merito della vicenda, da cui trae origine l'attuale processo, è opportuno svolgere alcune, seppure brevi, considerazioni, che involgono anche una disamina a carattere squisitamente processuale.

Per esemplificare: la peculiare prospettiva cognitoria entro la quale è chiamato a pronunciarsi il giudice adito allorquando, come nel caso di specie, l'imputato, chieda di essere giudicato attraverso la celebrazione del rito abbreviato.

Ebbene, non vi è dubbio che, in tale evenienza, la verifica della responsabilità dell'imputato, in uno alla rinuncia delle garanzie che si riconnettono al contraddittorio e alla formazione della prova orale, passa per un vaglio esclusivamente cartolare e documentale delle fonti di prova.

Siffatta circostanza, se, in via astratta, può sottendere il rischio di una limitazione alla piena cognizione del fatto, limitazione, giova sottolinearlo, accettata e voluta dallo stesso imputato, nel caso per cui è processo non si profila affatto.

Nella presente vicenda giudiziale, in ciò omettendo di anticipare rilievi nel merito, deve considerarsi che, ad avviso della scrivente, il nucleo centrale dell'attuale impianto accusatorio, è particolarmente diretto in punto di efficacia dimostrativa, e stringente nella sua valenza probante.

Del pari, non vi è dubbio che la prova orale, condensata nelle denunce della persona offesa, denunce assolutamente convincenti e attendibili, nonché adeguatamente sorrette da riscontri di rigorosa e inoppugnabile valenza logica, attingono da verbali dichiarativi, per loro natura, di estrazione unilaterale e dal tenore descrittivo necessariamente sintetico, atteso che, proprio in ragione della scelta processuale, gli stessi non si sono sviluppati nell'alveo di un'istruttoria, e di un conseguente dibattimento orale, gioco forza, in grado di esprimere una maggiore ricchezza descrittiva.

Tale essendo la necessaria premessa, occorre, a questo punto, delineare, con chiarezza di contorni, i fatti storici confluiti nella presente vicenda giudiziale nonché le ragioni di fondo che hanno legittimato la pronuncia conclusiva di condanna a carico dell'attuale imputato.

La presente indagine prende le mosse da quella relativa all'arresto di tali M.S. e D.T.M., entrambi tratti in arresto in data 07 giugno 2011 per la tentata estorsione aggravata dal metodo e dalla finalità camorristica in danno di alcuni imprenditori e commercianti di Cercola, tra i quali F.P., fratello di F.A., cui la condotta minacciosa descritta in imputazione è stata immediatamente rivolta (cfr. o.cc. agli atti del procedimento).

Alla stregua di ogni vicenda dalla foggia squisitamente estorsiva, apparve, subito, evidente agli inquirenti che si trattava di una tipica manifestazione di gruppi criminale nella costante ricerca di acquisire fonti di reddito parassitarie chiaramente illecite nell'ambito territoriale ove esercitano la propria egemonia, in ciò ricorrendo, quanto alla materiale riscossione delle tangenti estorsive, al tipico "protocollo" mafioso di esigere i pagamenti a Natale - Pasqua - periodo estivo.

In quella peculiare vicenda, non a caso, gli stessi denuncianti, nella ricostruzione offerta dalle persone offese, facevano riferimento alla circostanza che l'anno precedente il regalo di agosto non fosse stato cacciato dagli estorti.

Parimenti, gli arrestati, si presentavano quali emissari o comunque amici della famiglia FU. di Cercola, richiedendo il regalo per i carcerati.

D'altra parte, sempre non a caso M.S. risultava effettivamente essere nipote di FU.P., figura apicale dell'omonimo clan unitamente ai fratelli E. e P.

Quanto ai nomi che riecheggiano nella vicenda, che, si badi, è a monte del presente procedimento, correttamente, e al fine di contestualizzare meglio i fatti, il P.M. ripercorre lo scenario criminale che fa da sfondo ai fatti in trattazione, vicende che hanno avuto ad oggetto il controllo della città di Cercola come ormai storicamente accertate, grazie soprattutto al contributo dichiarativo dei collaboratori di giustizia provenienti dal Clan SA. (per anni egemone su quel territorio proprio in alleanza con il Clan FU.-PO.), dallo stesso clan FU. PO. (quali ad esempio G.N.) e infine di altri collaboratori di giustizia (tra i quali ad esempio D.A.V.) provenienti da gruppi succedutisi nel controllo della città dopo lo sfaldamento del clan Sarno.

Sul punto, correttamente il P.M. titolare delle indagini, fa riferimento al compendio processuale che può sintetizzarsi, a titolo di mera esemplificazione, nei seguenti termini: - l'ordinanza n. 54360/10 r. gip resa dal G.i.p. sede Ufficio II in data 13 dicembre 2010 nell'ambito del procedimento n. 63011/10 r.g.n.r., avente ad oggetto reiterati episodi omicidiari legati al controllo criminale di Cercola; - l'ordinanza n. 54360/10 r gip resa dal G.i.p. sede Ufficio II in data 24 gennaio 2011 nell'ambito del procedimento n. 63011/10 r.g.n.r., avente ad oggetto il duplice omicidio MA.-T., parimenti legato al controllo criminale di Cercola; - il procedimento numero 31751/2004 r.g.n.r. e confluite nella ordinanza RG GIP 24052/05 resa dal G.i.p. sede Ufficio II in data 24.1 1.2009 avente ad oggetto una pluralità di episodi di estorsione tentata e consumata in Cercola, S. Sebastiano e Massa di Somma e soprattutto atti di intimidazione nei confronti di collaboratori di giustizia e prossimi congiunti degli stessi, anche in questo caso a partire da luglio fino a novembre 2009. Ed infine, giova rammentare, sempre in tema di contestualizzazione dei fatti-reato, la sentenza resa in data 03.12.2010 dal G.u.p. 3^ presso il Tribunale di Napoli in ordine ai fatti di cui al capoverso che precede, a carico di A.D. + 4; l'attività investigative relative all'episodio del tentato omicidio in danno di R.S. (cfr. ordinanza a carico di CL.F., numero n. 24052/05 r. gip e n. 108/11 o.c.c, resa in data 15.02.2011 nell'ambito del procedimento n. 31751/04 r.g.n.r.).

Tutte le pronunce sopra indicate si occupano, incidentalmente della esistenza del clan FU. PO., oggetto di accertamento diretto - tra le altre - da parte della sentenza proc. 39423/2002rgnr, n. 794/2006rg sent. resa in data 04.5.2006 da parte del Tribunale di Nola, Sezione II Collegio D, a carico di FU.P. più altri.

Da una pletora di atti giudiziari, confluiti, in alcuni casi, in un vero e proprio notorio giudiziario, sostanzialmente si apprende, in tale territorio di interesse (coincidente con l'area acerrana e dintorni), che, a seguito della disgregazione del clan Sarno, e la collaborazione con la giustizia intrapresa da praticamente tutti gli affiliati con ruoli di vertice, si registra un avvicendamento, per così dire, "anarchico" di gruppi criminali contrapposti, in uno al tentativo, messo a punto dagli stessi, di acquisire nuovamente il controllo diretto del territorio.

In questo scenario, deve chiaramente collocarsi il tentativo, andato poi fallito, da parte di soggetti come M.S. e D.T.M. di riaffermare il proprio controllo sulle attività delittuose a carattere tipicamente predatorio, quali quelle dalla foggia estorsiva.

Tornando al merito del presente procedimento, e analizzando il primo capo d'imputazione, si apprende dagli atti di indagine che l'odierno imputato R.P., detto o' marziano, - la cui vicinanza ai gruppi operanti nell'area, e in particolare a quello riferibile a G.PO. e ai fratelli FU., è confermata dalle dichiarazioni di D.A.V. in data 07.7.2010 e soprattutto di G.N. in data 09.02.2011 (cfr. entrambi i verbali di interrogatorio, in stralcio, agli atti del presente procedimento), si rende autore, in base alla chiara e inequivocabile denuncia della persona offesa, di un tentativo, come si vedrà, per nulla affidato al caso, di avvicinare il F., il tutto all'evidente e malcelato fine di sollecitarlo affinché il fratello ritratti le proprie dichiarazioni.

Deve subito premettersi, in ciò convenendo con la generale impostazione accusatoria, che tale manovra di avvicinamento è prudentemente improntata ad un tenore dialogico stringato e criptico; del pari, la sollecitazione con la quale l'imputato agisce, "avvicinando" la persona offesa, è effettuata con i toni della minaccia, evidentemente allusiva - come impone il codice di camorra - ma non per questo meno chiara nel riferimento - al mittente del messaggio P. (evidentemente FU.P.), - alla effettiva appartenenza degli arrestati all'ambito familiare e criminale del medesimo FU.P. (appartengono veramente a lui..) - alla causale nelle stessa sottesa (sono due buoni guaglioni) - infine, alle possibili, e certamente non beneauguranti, conseguenze (ti volevo solo far sapere che tra poco i FU. escono).

Tipica, inoltre, della modalità camorristica anche l'allusione generica a terze persone non identificate (ci sono presone che ti vogliono parlare per sistemare la cosa), utile a rafforzare la capacità di intimidazione della propria persona, in ciò volendo, in qualche misura, dare l'impressione, da parte dell'imputato, di agire solo alla stregua di emissario di un'informazione, che per le implicazioni che sottende, si vuole addossare ad altri, evidentemente muniti di una maggiore carica di persuasione.

Il contenuto delle frasi rivolte a F.A. e dallo stesso riportate alla P.G., e testualmente riportate nel capo di imputazione, non è equivoco, e consente la certa individuazione della vicenda alla quale ci si riferisce, e della struttura criminale nel cui alveo sia gli arrestati, di cui si è detto in premessa, che il presente imputato agiscono.

In tale contesto argomentativo, per nulla casuale, è l'espressa indicazione in P. di quello tra i fratelli FU. maggiormente interessato alla questione, per essere come detto M.S. nipote di quest'ultimo.

Non possono, inoltre, sorgere dubbi in ordine alla qualificazione giuridica della vicenda, non rilevando la circostanza che il destinatario immediato delle minacce sia persona diversa da colui il quale avrebbe dovuto compiere la ritrattazione ovvero la falsa testimonianza. Lo stesso imputato, nel rivolgersi al suo interlocutore, ritagli a quest'ultimo il compito di ragguagliare debitamente di ciò il fratello.

Parimenti, non vi sono infine dubbi in ordine all'identificazione dell'odierno imputato quale autore della condotta minacciosa.

Vale, sul punto, l'individuazione fotografica da parte della persona offesa, che peraltro da subito dichiara la pregressa conoscenza e indica l'autore delle minacce come Paoluccio o'marziano", lo stesso appellativo utilizzato da G.N. per individuare R.P. con riferimento ai fatti oggetto del già menzionato interrogatorio.

Quanto al capo 2) dell'imputazione, occorre evidenziare che, in data 29.6.2011, la verbalizzazione delle dichiarazioni della persona offesa si apriva con una frase apparentemente priva di senso.

Invero, in occasione della manovra illecita di "avvicinamento" da parte dell'imputato alla persona offesa, manovra sin qui descritta e integrante gli estremi del reato sub A), F.A. arricchiva il suo racconto, ragguagliando gli operanti circa una "peculiare" domanda rivoltagli dalla persona poi identificata in R.P., nei seguenti testuali termini: "chi è o' mastro qua? ... fermate i lavori" e la propria successiva risposta 'fammi capire come li vuoi", aggiungendo di avere pronunciato tale ultima frase scendendo dalla impalcatura sulla quale si trovava brandendo il martello che stava utilizzando.

In quella sede, la verbalizzazione delle dichiarazioni di F.A. proseguiva con la descrizione delle frasi a lui rivolte da R.P. finalizzate alla ritrattazione della denuncia già presentata dal fratello F.P. (fatti, sin qui descritti, integranti il capo sub 1). Assunto, successivamente, a sommarie informazioni dalla Polizia Giudiziaria della Procura della Repubblica di Napoli, in data 24 ottobre 2011, F.A., nel confermare le dichiarazioni già rese alla Tenenza di Cercola, precisava il senso di quelle dichiarazioni, riferendo che la persona identificata in R.P., nella medesima circostanza di cui ai fatti di causa, aveva "chiesto un regalo" affinché i lavori di carpenteria metallica in corso potessero proseguire. Lo stesso R.P. aveva aggiunto che "se fosse andato lui personalmente da mio fratello P. a chiedergli l'estorsione, le cose sarebbero andate diversamente", in ciò lasciando intendere che il fratello probabilmente non avrebbe avuto la stessa capacità di fronteggiare la situazione, soccombendo all'illecita richiesta.

Infine, nuovamente dinanzi ai Carabinieri della Tenenza di Cercola, in data 04 novembre 2011, F.A. rendeva ulteriori dichiarazioni di conferma delle precedenti.

Ritiene il giudice che il quadro fattuale che emerge dalle dichiarazioni complessive di F.A. integra certamente il delitto di tentata estorsione, posta in essere con le usuali modalità camorristiche:

vi è la generica richiesta di un regalo;

vi è la usuale minaccia di fare interrompere i lavori in corso;

vi è il riferimento alla analoga vicenda avvenuta in danno di F.P. e soprattutto alla (millantata) maggiore capacità da parte di R.P. di gestire vicende del genere;

vi è il riferimento ai personaggi di maggiore carisma criminale operanti sulla zona (i fratelli FU. dell'omonimo clan).

Quanto all'omessa indicazione in verbale, da parte della p.g. operante, della descrizione di tale ulteriore episodio, di per sé integrante gli estremi di un tentativo di estorsione, la stessa non può essere additata alla stregua di un elemento di discontinuità narrativa, tale da elidere di coerenza il narrato della persona offesa, e di qui, come sostenuto dalla difesa tecnica, di minare il vaglio di attendibilità della stessa.

La logica, prima ancora che una notoria prassi giudiziaria, insegna che un imprenditore, in un contesto territorio di particolare impatto criminale, per l'avvicendarsi sullo stesso di gruppi camorristici in continua ascesa, a meno di non volere, a tutti costi, attentare la vita propria e quella della famiglia, non solleverebbe mai una falsa denuncia di estorsione al solo fine di determinare una falsa incolpazione su soggetti, per giunta gravitanti, in una "temibile" area criminale.

Risponde, viceversa, ad un parametro di maggiore logica e buon senso, il fatto che il mancato riferimento esplicito alla vicenda de qua, nel corso della denuncia resa in data 29 giugno 2011 presso la Tenenza Carabinieri di Cercola, appare conseguenza dell'urgenza degli operanti di verbalizzare il tentativo di subornazione illecita, del pari riferita dal denunciante, e non di una volontà reticente da parte del dichiarate, il quale ha poi peraltro chiarito e ribadito, sempre nei medesimi termini descrittivi, l'intera vicenda.

In tale prospettiva, l'allegazione, da parte della difesa tecnica, di varia documentazione (allegata al verbale di udienza del 2/4/12), concernente, per quella più conducente sul piano temporale e dunque da potere prendere in considerazione in questa sede, all'annullamento del titolo cautelare da parte del Tribunale del Riesame di Napoli rispetto ad altra e completamente diversa vicenda delittuosa (relativa all'omicidio di MI.G. per conto del clan D.L.B.), la stessa non appare conferente rispetto ai fatti di causa, anche in ragione del fisiologica "fluidità" che connota decisioni in fase di cognizione sommaria, e per la registrata attitudine dei gruppi e protagonisti di cui si è parlato nel presente procedimento, di arruolarsi a compagini camorristiche di volta in volta diverse, nell'aspirazione costante di "aprire" varchi di acquisizione di flussi di denaro provento di attività illecite.

Quanto alla contestata circostanza aggravante, è noto che l'art. 7 della legge 203/91 prevede una circostanza aggravante ad effetto speciale allorché i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo siano commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l'attività di associazioni di tipo mafioso.

Si tratta di due ipotesi distinte, quantunque logicamente connesse.

La prima, a differenza di quella prevista dall'art. 628, comma terzo, n. 3 cod. pen, ricorre quando l'agente o gli agenti, pur senza essere partecipi o concorrere in reati associativi, delinquono con metodo mafioso, ponendo in essere, cioè, una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica - non necessariamente su una o più persone determinate, ma, all'occorrenza, anche su un numero indeterminato di persone, conculcate nella loro libertà e tranquillità - con i caratteri propri dell'intimidazione derivante dall'organizzazione criminale della specie considerata.

Sussiste quando la violenza o la minaccia assumano la veste propria della violenza o della minaccia mafiosa, quella cioè ben più penetrante, energica ed efficace che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici ed efferati delitti: ed una volta accertato che il metodo "mafioso" è stato utilizzato, l'aggravante si applica necessariamente a tutti i concorrenti nel reato, ancorché le azioni di intimidazione e minaccia siano state materialmente commesse solo da alcuni di essi (cfr. Cass. Sez. 2^ sent. n.2204 del 31.3.1998).

Nella prima ipotesi prevista dall'aggravante, non è necessario che l'associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della più grave condotta dell'agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà fenomenica; essa può essere anche semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalità che la distinguono sia già di per sé tale da evocare nel soggetto passivo l'esistenza di consorterie e sodalizi amplificatori della valenza criminale del reato commesso (cfr. Cass. Sez. 1 sent. n. 1327 del 18/3/1994 - 14/4/199 nello stesso senso cfr. Cass. Sez. 2 sent. n.3061 del 3/2/2000 - 10/3/2000).

Inoltre, la "ratio" della disposizione di cui all'art.7 del D.L 152/91 non è soltanto quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando "metodi mafiosi" o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l'atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino "da mafiosi", oppure ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi, quella particolare coartazione o quella conseguente intimidazione, propria delle organizzazioni della specie considerata (cfr. Cass. Sez. 6^ sent. n. 582 del 9.2.1998 - 9.4.1998).

La seconda delle due ipotesi previste dal citato art. 7, postulando che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso, implica invece necessariamente l'esistenza reale e non più semplicemente supposta di questa, essendo impensabile un aggravamento di pena per il favoreggiamento di un'entità solo immaginaria.

Ne discende, come insopprimibile conseguenza, che nella fase del giudizio il giudice, per la certa configurabilità dell'aggravante, deve dimostrare anche l'esistenza dell'associazione agevolata, mentre, nella fase delle indagini preliminari, ai fini dell'eventuale applicazione di misure cautelari, è sufficiente la prova dell'elevata probabilità dell'esistenza dell'associazione suddetta.

Le considerazioni sopra svolte, in ordine alle modalità di realizzazione della condotta contestata, alla sussistenza e rinnovata operatività del clan FU. PO. sul territorio di Cercola, e alla esistenza di legami organici e personali tra R.P. e detta associazione, inducono ad affermare in termini di certezza anche la sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 7 L. 203/1991, per entrambi i reati in contestazione.

Sotto il profilo eminentemente giuridico, deve precisarsi che, in casi come quello per cui è processo, la fonte probatoria dalla quale può validamente attingersi la prova provata del reato contestato è il narratum della persona asseritamene offesa, ed il conseguente giudizio di positiva attendibilità che, del caso, può fare il giudicante all'esito di un penetrante vaglio condotto con i consueti crismi che la giurisprudenza di legittimità impone in tali ipotesi.

Per esemplificare: nella testimonianza della persona offesa occorre rinvenire un carattere di necessaria e perdurante linearità, coerenza intrinseca ed estrinseca posto che, in tal caso, l'assunto accusatorio, trasfuso in un giudizio, proviene da un soggetto che, sebbene rivesta la formale qualifica di teste, è pur sempre collettore di un interesse, quello volto a dimostrare la fondatezza di un'accusa nei confronti di un soggetto, che non sempre appare completamente neutrale ed equidistante rispetto alle ragioni di fondo del processo.

È evidente, infatti, che quest'ultime sono costantemente volte alla insopprimibile ricerca di una verità, si badi, anche solo processuale, che, a rigore, può anche tradire le aspettative di tutela giuridica reclamata dà una parte che si ritenga offesa da un fatto costituente reato.

In premessa non può sfuggire che in giudizi, come il presente processo, l'affermazione di colpevolezza si fonda principalmente, anche se, nel caso che ci occupa, non esclusivamente sulla testimonianza e successiva nonché speculare, individuazione della persona offesa.

Ebbene, alla luce di tale considerazione, la scrivente ritiene, certamente, di attribuire i caratteri di una serena attendibilità alla testimonianza resa dalla persona offesa e le ragioni sottese a tale vaglio negativo a breve saranno esaminate.

Ed invero, ricostruito il fatto secondo la versione offerta dal teste principale, occorre brevemente ricordare come la prova testimoniale sia da ascriversi - nella classificazione tradizionale - nell'ambito della prova rappresentativa, in quanto il risultato di prova "'si fa presente", a differenza di quanto accade per la prova critica, nella quale il fatto accertato è diverso da quello direttamente oggetto del giudizio, dovendo giungere a tale ultimo risultato a mezzo di un'operazione di mediazione intellettuale.

Se non è sempre vero che la testimonianza possa ritenersi immune dalla necessità di una mediazione intellettuale (ciò che conta è invero l'oggetto della stessa, che può anche non essere identico al thema probandum, ma collaterale e quindi solo idoneo a costituire un "punto di partenza" del ragionamento inferenziale), nel caso in esame nessuna operazione induttiva dovrebbe compiere il giudice, poiché la teste principale, in quanto persona offesa dal reato, è anche colei che ha vissuto direttamente il fatto contestato.

E dunque, la valutazione che deve effettuare il giudice attiene, per lo più ed in via preliminare, alla verifica dell'attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese.

Sul punto, la giurisprudenza ha, ormai, consolidato l'orientamento che richiede una valutazione effettuata con spirito critico e con prudente apprezzamento, in ragione della scelta compiuta dal legislatore che ha inteso irrinunciabile il contributo probatorio, nell'ottica della ricerca della verità processuale, della persona offesa.

D'altro canto, la Suprema Corte ha sviluppato tale principio ritenendo che in concreto il giudice, nel fondare il giudizio di responsabilità dell'imputato, sé può richiamarsi, in modo sufficiente ai fini della motivazione, alle sole dichiarazioni della persona offesa, pur nell'ipotesi in cui si sia costituita parte civile, deve anche verificare l'attendibilità sostanziale della deposizione (Cass., 11-01-1988, Saporita, Riv. pen., 1989, 203), richiedendosi, comunque, che la stessa sia sottoposta ad una disamina, che dimostri la coerenza della deposizione, oltre che la rispondenza della stessa alle circostanze soggettive ed oggettive emergenti degli atti del procedimento (Cass., 30-09-1985, Curzi, Giust. pen., 1986, III, 539 ; Cass. 4.3.1994, n. 2732; Cass. 23.6.1994, 7241); ed ancora, il giudice non è esentato dal compiere un esame sull'attendibilità intrinseca del dichiarante, che deve essere particolarmente rigoroso quando siano carenti dati obiettivi emergenti dagli atti a conforto dell'assunto della persona offesa.

Ebbene nel caso di specie, la versione di privata accusa, immune da qualsivoglia intento calunniatorio stante la mancata pregressa conoscenza dell'imputato con la persona offesa; la denuncia viene resa nell'immediatezza del fatto patito in uno all'individuazione fotografica dell'imputato e dell'appellativo convenzionalmente attribuito allo stesso dalla persona offesa.

Affermata, pertanto, la penale responsabilità dell'imputato in ordine ai reati in contestazione, occorre a questo punto passare alla determinazione della pena da irrogare.

Al riguardo, valutati tutti i criteri di cui all'art. 133 cp, negate le circostanze attenuanti generiche per il negativo curriculum giudiziario che connota l'imputato, uniti i fatti in continuazione, stante l'evidente medesimezza del disegno criminoso sotteso alle due vicende, sostanzialmente riferibili ad un unico episodio, anche sul piano spaziale e temporale, si stima equa la pena di anni quattro, mesi otto di reclusione e 3.500,00 euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e a quelle di custodia cautelare ( pena così determinata: pena base computata sul più grave reato di tentata estorsione sub 2), anni quattro di recl. e 3.000,00 ero di multa, aumentata per effetto della contestata aggravante ex art. 7 L. 203/91 alla pena di anni 5 mesi 4 di recl. e 4.500,00 euro di multa, ulteriormente aumentata per la continuazione con il reato sub 1) alla pena di anni 7 di recl. e 5.000,00 euro di multa, ridotta a quella inflitta per effetto della diminuente del rito.

Segue ex lege la condanna dell'imputato all'interdizione legale in corso di espiazione della pena e all'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.

Giorni trenta per il deposito della motivazione.

P.Q.M.
Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p. dichiara R.P. responsabile dei reati a lui ascritti, uniti gli stessi in continuazione, operata la riduzione per la scelta del rito, lo condanna alla pena di anni quattro, mesi otto di reclusione e 3.500,00 euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e a quelle di custodia cautelare.

Dichiara l'imputato interdetto legalmente nel corso dell'espiazione della pena e interdetto dai pubblici Uffici per la durata di anni cinque.

Giorni trenta per il deposito della motivazione.

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