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Truffa: si configura il tentativo se la consegna del danaro avviene sotto il controllo della polizia


Sentenze della Corte di Cassazione in relazione al reato di truffa

La massima

In tema di truffa, è configurabile il reato tentato e non consumato nel caso di consegna del denaro o del bene sotto il diretto controllo della polizia giudiziaria allertata dalla persona offesa (c.d. “consegna controllata”), in quanto l'atto di disposizione patrimoniale non avviene per l'induzione in errore in cui sia incorsa la vittima, né si è realizzato il profitto tramite l'acquisizione della disponibilità autonoma e definitiva della cosa. (In motivazione la Corte ha precisato che, diversamente, in caso di estorsione, il reato si consuma non appena l'estorsore riceve il bene del soggetto passivo e ciò perché l'ingiusto profitto con altrui danno si atteggia a ulteriore evento del reato rispetto alla costrizione derivante dalla violenza o minaccia - Cassazione penale , sez. II , 07/07/2020 , n. 27114).


 

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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. II , 07/07/2020 , n. 27114

RITENUTO IN FATTO

1.Con l'ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Busto Arsizio non convalidava l'arresto di Co.Gi. e C.G. in ordine al reato di truffa.


Costoro avevano finto di essere dei corrieri incaricati dalla società "L." di ritirare dei colli presso una maglieria che produceva indumenti per tale nota casa di abbigliamento.


Avvedutasi dell'inganno attraverso il contatto con la "L.", la dipendente della maglieria aveva allertato il legale rappresentante della società ed era stata predisposta, d'accordo con i carabinieri, una "consegna controllata" dei colli agli indagati, con il loro successivo arresto.


Secondo il Tribunale, la condotta commessa dagli indagati andava qualificata come tentativo di truffa, che non ne consentiva l'arresto ai sensi dell'art. 381 c.p.p., comma 2.


Il Tribunale ha ritenuto che non vi fosse la prova che "i soggetti passivi furono indotti in errore dalla condotta truffaldina", essendosi resi immediatamente conto delle intenzioni illecite dei correi, sicchè l'ingiusto profitto conseguito da questi ultimi non era stato causato dall'induzione in errore.


2. Ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto.


La parte pubblica ricorrente - prendendo spunto dagli arresti giurisprudenziali in tema di estorsione con consegna controllata del bene, laddove la fattispecie è stata considerata come consumata e non tentata - sottolinea che "i colli di maglieria entrarono, di fatto e per un più che apprezzabile periodo temporale, nella disponibilità degli indagati, i quali, pertanto, conseguirono il profitto della condotta truffaldina".


L'induzione in errore del soggetto passivo, almeno in origine, vi era stata e ciò bastava per ritenere integrata la fattispecie consumata del reato, posto che la consegna non sarebbe avvenuta se non vi fosse stata l'attività ingannatoria degli agenti, la consegna essendo stata eziologicamente collegata allo "stato decettivo" della vittima; dunque, il nesso causale tra l'induzione in errore e l'atto di disposizione patrimoniale non sarebbe stato "reciso dalle sopravvenienze medio tempore occorse".


Il ricorrente censura il ragionamento giuridico del Tribunale, rilevando ulteriormente che, accedendo alla tesi sostenuta dall'ordinanza impugnata, si giungerebbe all'inaccettabile conseguenza di dover ritenere che la condotta commessa dagli indagati sarebbe penalmente irrilevante, mancando un elemento strutturale della fattispecie astratta quale l'induzione in errore, che non consentirebbe di qualificare il fatto neanche come tentativo punibile.


CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.


1. Deve osservarsi, in generale, come sia pacifico che la truffa è strutturata come un reato di evento, che si perfeziona nel momento del conseguimento da parte dell'agente del profitto della propria attività criminosa (tra le tante, Sez. 2, n. 12795 del 09/03/2011, Beleniuc, Rv. 249861).


L'induzione in errore del soggetto passivo - dovuta agli artifici e raggiri dell'agente - è un elemento costitutivo del reato, che serve a distinguere la truffa da altri reati contro il patrimonio, come il furto o l'appropriazione indebita, che non lo contemplano.


L'induzione in errore deve essere la causa dell'atto di disposizione patrimoniale del soggetto passivo in favore dell'agente, che da quell'atto trarrà il profitto, esattamente come sostiene il ricorrente quando afferma, con altre parole, che l'atto di disposizione patrimoniale deve essere eziologicamente collegato allo "stato decettivo" della vittima.


Sul punto, può richiamarsi la giurisprudenza di legittimità che scolpisce la differenza tra il reato di estorsione ed il reato di truffa, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, laddove si è precisato che nella truffa la persona offesa "si determina alla prestazione, costituente l'ingiusto profitto dell'agente, perchè tratta in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente" (Sez.2, n. 46084 del 21/10/2015, Levak, Rv. 265362 ed altre conformi).


2. Ma ciò non è avvenuto nel caso in esame.


Il Tribunale, attraverso una ricostruzione di merito non rivedibile in questa sede, ha precisato che l'induzione in errore della vittima, pur presente per pochi attimi, certamente non vi era più al momento della consegna del bene agli autori dell'inganno e non l'aveva determinata.


Al contrario, la persona offesa, accortasi degli artifici e raggiri degli agenti - e, dunque, interrompendo la sequenza necessaria al perfezionamento del reato in forma consumata - si era autonomamente risolta, per libera scelta e senza alcuna induzione in errore, a fare intervenire i carabinieri (si potrebbe dire: a sua volta inducendo in errore gli autori del raggiro). La vittima avrebbe, per esempio, potuto, altrettanto liberamente, decidere di non effettuare la consegna una volta compreso che si trattava di una condotta truffaldina ai suoi danni, eventualità che non avrebbe lasciato dubbi sulla qualificazione del fatto come tentativo.


Pertanto, l'atto di disposizione patrimoniale (che produce il profitto in capo all'autore del reato, vale a dire l'ulteriore elemento costitutivo previsto dalla norma) era avvenuto non per l'induzione in errore in cui era incorsa la vittima, ma per altra ragione, correttamente individuata dal Tribunale nella volontà che gli autori della condotta truffaldina fossero assicurati alla giustizia.


In questo senso, deve richiamarsi la pronuncia di questa Corte secondo cui sussiste il tentativo quando la condotta tipica univocamente diretta alla realizzazione dell'evento sia ostacolata da un fatto esterno, che si verifica, come nella specie in tema di truffa, quando vi sia l'allertamento delle forze di polizia da parte della persona offesa a seguire le trattative e ad intervenire per impedire che il delitto si perfezioni o che la realizzazione del profitto si consolidi con l'acquisizione o la possibilità d'uso autonomo del bene oggetto dell'atto di disposizione patrimoniale (Sez. F, Sentenza n. 32522 del 26/08/2010, Cureu, Rv. 248255).


2. Tale statuizione, qui condivisa, sollecita l'approfondimento di altri aspetti della questione giuridica che confermano quanto fin qui sostenuto.


2.1. Il richiamo del ricorrente ai principi della giurisprudenza di legittimità che si sono affermati a proposito della "consegna controllata" nel delitto di estorsione univocamente diretti a configurare tale evenienza come estorsione consumata e non tentata - non è conducente.


Vero è che entrambe le fattispecie penali prevedono il profitto dell'agente come evento del reato (in questo senso va inteso quanto affermato da Sez. U, n. 19 del 1999, Campanella, in quel passaggio motivazionale, costituente un obiter dictum, richiamato dal ricorrente; fg. 5 della motivazione di quella statuizione di legittimità).


Ma è anche vero, come quella stessa sentenza ha precisato e come sarà chiarito dalla giurisprudenza successiva, che il "profitto", nel reato di estorsione, si atteggia in maniera differente rispetto al reato di truffa.


In quest'ultima fattispecie, infatti, tale elemento costitutivo si conforma nel senso indicato all'inizio citando Sez. 2, n. 12795 del 09/03/2011, Beleniuc, Rv. 249861, con la precisazione che esso profitto è collegato, come meglio si dirà qui di seguito, alla acquisizione del bene da parte dell'agente nella propria sfera giuridica di disponibilità, in modo autonomo e definitivo.


Nel delitto di estorsione, invece, "la modalità di lesione si incentra sulla coazione esercitata dall'agente sulla vittima perchè tenga una condotta positiva o negativa in ambito patrimoniale, il cui esito è il profitto che il reo intende procurarsi, che non può essere integrato da altre note, quali la disponibilità autonoma della cosa, senza violare la tassatività della fattispecie" (fg. 6 della motivazione di Sez. U, 19/1999, Campanella).


Sicchè, la successiva giurisprudenza ha ulteriormente chiarito che, in tema di delitto di estorsione, la costrizione, che deve seguire alla violenza o minaccia, attiene all'evento del reato, mentre l'ingiusto profitto con altrui danno si atteggia a ulteriore evento, sicchè si ha solo tentativo nel caso in cui la violenza o la minaccia non raggiungono il risultato di costringere una persona al "facere" ingiunto. (La Corte ha così deciso che se il soggetto passivo consegna la somma di denaro per costringimento derivante dalla violenza o minaccia, il fatto che si sia rivolto alla polizia giudiziaria per denunciare l'altrui condotta antigiuridica non elide l'evento del costringimento, e quindi l'assenso alla collaborazione nelle indagini non elimina il nesso di causalità tra la condotta violenta o minacciosa e la costrizione alla condotta pretesa) (Sez. 2, Sentenza n. 44319 del 18/11/2005, Terrenghi, Rv. 232506).


Da segnalare la più recente pronuncia, che si pone sullo stesso solco, secondo cui, ricorre il delitto di estorsione consumata e non tentata nel caso di consegna da parte della vittima all'estorsore di una somma di denaro sotto il diretto controllo della polizia giudiziaria, che immediatamente dopo provveda all'arresto del responsabile, in quanto l'adoperarsi della vittima affinchè si giunga all'arresto dell'autore della condotta illecita integra una delle molteplici modalità di reazione soggettiva della persona offesa allo stato di costrizione in cui versa, senza eliminarlo. (Conf. Sez. U. n. 19 del 1999 Rv.214642).


2.2. Per altro verso, nel caso in esame non si potrebbe neanche ritenere che il "profitto" si fosse consolidato nelle mani degli agenti.


Deve richiamarsi e ribadirsi, in proposito, il principio giurisprudenziale secondo il quale, poichè la truffa è reato istantaneo e di danno, che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell'autore abbia fatto seguito la "deminutio patrimonii" del soggetto passivo, nell'ipotesi di truffa contrattuale il reato si consuma non già quando il soggetto passivo assume, per effetto di artifici o raggiri, l'obbligazione della "datio" di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l'effettivo conseguimento del bene da parte dell'agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato (Sez. U, n. 18 del 2000, Franzo).


Conformemente, si è sostenuto, in tema di truffa con pagamento tramite bonifico bancario, che, ai fini della consumazione del reato di truffa, è necessario che il profitto dell'azione truffaldina entri nella sfera giuridica di disponibilità dell'agente, non essendo sufficiente che esso sia fuoriuscito da quella del soggetto passivo (Nella specie, il giudice di merito riteneva integrato il reato in quanto il bonifico era uscito dalla sfera giuridica dell'ente erogante ed era entrato in quella del truffatore, sia pure "sub condizione" attraverso l'incasso di un "concorrente inconsapevole", reputando irrilevante che quest'ultimo avesse, a seguito di successivi accertamenti, disvelato l'iniziativa truffaldina dell'imputato; mentre la S.C. afferma sussistente il mero tentativo) (Sez. 5, n. 14905 del 29/01/2009, Coppola, Rv. 243608, fino alla più recente Sez. 2, n. 27833 del 07/05/2019, De Marco, Rv. 276665, in tema di truffa all'INPS, dove si dà rilievo al momento dell'incasso del danaro da parte dell'agente).


Nel caso in esame, il bene non era entrato definitivamente nella sfera di disponibilità degli autori del reato, posto che, stante la peculiarità del fatto siccome ricostruito dal Tribunale, gli indagati erano stati sottoposti a costante controllo della polizia fino al loro arresto.


Qui la vittima, per mezzo dei carabinieri, aveva, di fatto, potuto continuare ad esercitare un controllo sul bene compendio del reato (proprio secondo quello che era il suo scopo allorquando aveva allertato le forze dell'ordine), mentre gli autori di esso, dal canto loro, non avevano acquisito alcuna autonoma ed effettiva disponibilità della cosa che ne consentisse un qualunque utilizzo (in ciò ricordando la già citata sentenza Sez. F, n. 32522 del 26/08/2010, Cureu, Rv. 248255, nella parte in cui fa riferimento al consolidamento del profitto in capo all'agente attraverso "l'acquisizione o la possibilità d'uso autonomo del bene oggetto dell'atto di disposizione patrimoniale").


3. Infine, non è fondato neanche l'ultimo rilievo giuridico del ricorrente.


La condotta degli indagati è penalmente rilevante, ai sensi degli artt. 56 e 640 c.p., poichè, riprendendo un principio più volte espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di truffa, l'idoneità degli artifici e raggiri non è esclusa dal fatto che per svelarli sia necessario il successivo intervento di atti di controllo, atteso che l'idoneità postula che i comportamenti truffaldini siano astrattamente capaci, con valutazione "ex ante", di causare l'evento (Sez. 2, n. 40624 del 04/10/2012, Nigro, Rv. 253452).


La soglia del penalmente irrilevante non può ritenersi oltrepassata solo nella ipotesi di reato impossibile, che, nella specie, va esclusa.


Nella parte motivazionale di Sez. F, n. 32522 del 26/08/2010, Cureu, Rv. 248255, già richiamata (fg. 3), si legge, in proposito: "In relazione alla configurabilità del tentativo, va osservato che, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, l'allertamento delle forze di polizia da parte della vittima di una azione criminosa non rende inidonea la condotta a produrre effetti antigiuridici. Il reato è impossibile per inidoneità della condotta o del mezzo solo se l'azione posta in essere dall'agente può dirsi inidonea in assoluto e, con valutazione ex ante, difetti intrinsecamente di qualsiasi efficacia causale: quando risulti cioè del tutto priva di capacità ad innescare, sia pure in via eccezionale, una sequenza causale diversa dall'insuccesso (Sez. 2, n. 36295 del 22/09/2005, Balestrazzi; Sez. 2, n. 7630 del 14/01/2004, Argenta; Sez. 1, n. 721 del 28/04/1988, Uccellatore; Sez. 1, 7185 del 1987, Addis).


Nel caso in esame, la capacità ingannatoria della condotta degli agenti, tenuto conto delle specifiche circostanze del caso, è fuori discussione, come lo stesso ricorrente sostiene ritenendo che, anche per pochi attimi, la vittima fosse stata indotta in errore.


Dal che, il rigetto del ricorso.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso.


Così deciso in Roma, nella udienza della Camera di consiglio, il 7 luglio 2020.


Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2020

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