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Furto tentato sui rapporti con la contravvenzione di cui all'art. 175 d.lg. 22 novembre 2004 n. 42

Furto

Cassazione penale sez. V, 16/05/2023, n.36928

Integra il delitto di furto tentato, e non la contravvenzione di cui all'art. 175 d.lg. 22 novembre 2004, n. 42, la condotta di chi si introduca all'interno di un parco archeologico in assenza di concessione amministrativa, allo scopo di impossessarsi di beni culturali oggetto di ritrovamento nel sito. (In motivazione, la Corte ha chiarito che la sottrazione, tentata o consumata, dei beni culturali reperiti a seguito dell'attività di esplorazione archeologica abusiva non ricade nel perimetro applicativo dell'art. 175 d.lg. n. 42 del 2004, che sanziona la mera ricerca non autorizzata, in quanto svolta in assenza di concessione ovvero avvenuta in violazione delle prescrizioni impartite dalla pubblica amministrazione).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La Corte d'appello di Palermo, con sentenza del 28 aprile 2021, ha confermato la sentenza del Tribunale di Sciacca che, all'esito del giudizio abbreviato, ha ritenuto responsabili gli imputati del reato di tentato furto pluriaggravato di beni di interesse archeologico. Si legge nella motivazione che, al fine di contrastare numerosi furti e danneggiamenti perpetrati nel sito archeologico denominato (Omissis), ubicato in (Omissis), veniva organizzato un servizio di PG finalizzato all'individuazione dei responsabili; alle 20:00 del (Omissis) le forze dell'ordine, nel corso di un controllo del predetto sito, notavano la presenza di due autovetture e gli operanti, udendo distintamente dei rumori di zappa sul terreno, ritenevano che nella suddetta zona archeologica vi fossero dei "tombaroli" in azione e, pertanto, adottando le dovute cautele, si incamminavano lungo la recinzione sino a raggiungere il lato nord-ovest dove constatavano che la recinzione era stata danneggiata per consentire un agevole passaggio a chi proveniva dall'esterno. Predisposto un servizio di appostamento, che si protraeva sino a circa le 04:00 del mattino, venivano notate delle lampadine accendersi e puntare il terreno per brevi momenti e si udivano delle voci; dopo circa 8/9 ore di attività, i malfattori, terminata l'attività di scavo, si allontanavano dalla zona archeologica per ritornare alle loro auto; a causa dell'oscurità non era possibile quantificare con precisione il numero dei "tombaroli" anche se a giudicare dalle voci si trattava di più persone; queste, giunte all'altezza della recinzione manomessa, utilizzando una lampadina tascabile, si adoperavano per sistemare alla meglio la recinzione e, raggiunte le autovetture alle ore 4,35 si dirigevano verso la statale per essere quindi subito bloccati dalla pattuglia; nel frattempo sulla stessa strada sterrata, percorsa poco prima dalle due autovetture, si metteva in marcia un terzo veicolo che, giunto sulla statale, faceva perdere le proprie tracce; all'esito del controllo, dopo l'identificazione degli odierni ricorrenti che venivano condotti in caserma, si procedeva a perquisizione, ma non veniva rinvenuta né la refurtiva, né gli arnesi per lo scavo, ma solo, nel possesso di ciascuno dei ricorrenti, una piccola torcia tascabile. 2. Avverso la sentenza tutti gli imputati propongono ricorso per cassazione e affidano le proprie censure a cinque comuni motivi qui riportati a norma dell'art. 173 disp. att. c.p.p. nei limiti strettamente necessari alla motivazione. 2.1. Con il primo motivo, proposto a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), b) ed e), lamentano la violazione di legge e il difetto e/o illogicità della motivazione in quanto sarebbero state violate e disapplicate le disposizioni in tema di valutazione della prova indiziaria poiché il giudice di merito si sarebbe limitato a una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi senza considerare i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza e saggiarne l'intrinseca valenza dimostrativa al fine di attribuire agli imputati, all'esito di un giudizio globale, al di là di ogni ragionevole dubbio, la responsabilità per il fatto loro addebitato. I ricorrenti, in particolare, valorizzano il dato che nella loro disponibilità non erano stati rinvenuti attrezzi atti allo scavo bensì esclusivamente l'attrezzatura necessaria per la pesca e che essi, sentiti singolarmente, nell'immediatezza dell'arresto, spontaneamente e senza la possibilità di concordare preventivamente un'eventuale linea comune di difesa, avevano dichiarato di essersi recati nel sito archeologico per una battuta di pesca. 2.2. Con il secondo motivo, proposto a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), lamentano la violazione della regola di giudizio "al di la di ogni ragionevole dubbio" e deducono che la sentenza di condanna a cui è pervenuta la Corte d'appello non avrebbe considerato che l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza, ma la mera incertezza in ordine alla colpevolezza e che il giudizio deve essere informato al principio in dubio pro reo. 2.3. Con il terzo motivo, proposto a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), lamentano l'erronea applicazione della norma penale e la mancanza e/o illogicità della motivazione in ordine alla richiesta, ritualmente reiterata con il secondo motivo di appello, di derubricazione del fatto contestato nella contravvenzione di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 175, che, in tema di violazioni in materia di ricerche archeologiche, punisce nello specifico le "ricerche archeologiche effettuate in difetto di concessione". Deducono che la sentenza impugnata avrebbe totalmente omesso di esaminare la problematica relativa agli elementi materiali e psicologici del reato in contestazione al fine di valutare l'evenienza che esso potesse avere una connotazione giuridica diversa e, precisamente, potesse essere inquadrato nell'ambito della previsione di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 175 e 176. 2.4. Con il quarto motivo, proposto a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), censurano la denegata applicazione del beneficio di cui all'art. 131-bis c.p.p. per non avere effettuato la Corte palermitana alcuna valutazione in ordine alla modalità della condotta e all'esiguità del danno che, alla luce dei criteri direttivi di cui all'art. 133 c.p., avrebbe potuto portare ad un giudizio favorevole in ordine alla particolare tenuità dell'offesa. 2.5. Con il quinto motivo, proposto a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), lamentano la mancata concessione delle attenuanti generiche nonostante la modestia dell'attività offensiva, l'assoluta collaborazione mostrata dagli imputati ai verbalizzanti, il comportamento tenuto e, infine, l'incensuratezza di L.V. e A.S.. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono inammissibili in quanto i motivi addotti, reiterativi di quanto già lamentato in appello, sono assolutamente privi di specificità, del tutto assertivi e scevri da ogni adeguato confronto con la motivazione della Corte distrettuale che è logica, congrua e corretta in punto di diritto e, quindi, immune dai denunciati vizi di legittimità. 2. Il primo e il secondo motivo dei ricorsi possono essere esaminati congiuntamente perché trattano di argomenti che presentano elementi comuni. 2.1. Orbene, si può pervenire all'affermazione di penale responsabilità di un imputato anche sulla base di meri indizi senza che questi, necessariamente, debbano trovare riscontro in altri elementi esterni, purché siano: gravi, ovvero attendibili e convincenti; precisi e non equivoci, ossia tali da esprimere l'elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto, in cui si identifica il tema di prova, ovvero non suscettibili di altra interpretazione altrettanto verosimile; concordanti, ossia non contrastanti tra loro ed anche con altri dati desunti da elementi certi. Come chiarito da Sez. U, n. 42979 del 26.6.2014, Squicciarino, Rv. 260018, il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti: il primo è diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione degli indizi, ciascuno considerato isolatamente nella sua valenza qualitativa, tenendo presente che tale livello è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale gli elementi indizianti conducono al fatto da dimostrare ed è inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza; il secondo è costituito, invece, dall'esame unitario dei dati acquisiti al fine di dissolverne la relativa ambiguità, posto che, nella valutazione complessiva, ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, confluendo in un medesimo contesto dimostrativo, sicché l'incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria e l'insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678; Sez. U, n. 6682 del 4/2/992, Musumeci, Rv. 191231). 2.2. La Corte d'appello ha fatto buon uso di tali principi là dove, dopo avere esposto in modo completo e approfondito i fatti, ha evidenziato: la falsità dell'alibi addotto dagli imputati, avendo gli stessi dichiarato di essere andati nel sito per pescare nonostante sul posto non vi fossero né laghi, né fiumi, né mare né alcun corso d'acqua (l'unico lago, denominato (Omissis), è "proprio dall'altra parte; nel lato opposto a diversi chilometri in linea d'aria"); la notte in cui si è proceduto all'arresto il sito archeologico era stato interessato da scavi abusivi da parte di "tombaroli"; gli imputati erano stati visti, da uno dei carabinieri, uscire dal sito archeologico utilizzando il varco aperto e adoperandosi per richiuderlo; il D.S. è gravato da numerosi precedenti per furto, mentre il G. è stato condannato per reato correlato al possesso di beni di interesse archeologico. In tale situazione, in difetto di ulteriori elementi di segno contrario, correttamente rileva la Corte, conformemente alla sentenza di primo grado a cui si salda per formare un unicum inscindibile percorso argomentativo, che "non è ipotizzabile sulla base degli atti esaminati nessuna ricostruzione alternativa dotata di una minima plausibilità logica". I ricorrenti si confrontano con la sentenza impugnata in modo del tutto apparente in quanto sollevano censure che sono meramente reiterative di quanto già in precedenza contestato con il ricorso in appello senza apportare alcun elemento di novità e senza fornire alcuna spiegazione logica utile a disarticolare la valutazione, unitaria e globale, dei dati raccolti fornita dai giudici di merito omettendo, in primis, di fornire una spiegazione plausibile sul perché essi si trovassero durante la notte nel sito archeologico permanendovi per parecchie ore. Non risulta quindi minimamente violata la regola di giudizio compendiata nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio" in quanto alle valutazioni della Corte distrettuale, supportate da un altro grado di credibilità razionale, non sono state opposte ipotesi alternative dotate di un pur minimo concreto riscontro nelle risultanze processuali ma piuttosto è stata ventilata una ricostruzione del tutto avulsa dalla normale razionalità umana. Come costantemente affermato da questa Corte di legittimità, "La regola di giudizio compendiata nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio" rileva in sede di legittimità esclusivamente ove la sua violazione si traduca nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza, non avendo la Corte di cassazione alcun potere di autonoma valutazione delle fonti di prova" (Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, D'Urso, Rv. 270108). A fronte di una sentenza, qual è quella impugnata, lineare, logica e coerente, "l'apprezzamento della capacità dimostrativa delle singole prove, come anche dei complessi indiziari (che è attività tipica ed esclusiva della giurisdizione di merito) non può essere in alcun modo devoluta alla giurisdizione di legittimità se non nei limitati casi in cui si deduca, e si alleghi, un travisamento. Diversamente, in sede di legittimità la violazione delle regole di valutazione delle prove e, segnatamente, del criterio indicato dall'art. 533 c.p.p. è invocabile solo quando precipiti in una illogicità manifesta del percorso argomentativo. " (così, in motivazione, Sez. 1, "D'Urso", cit.). 3. Il terzo motivo di ricorso è anch'esso inammissibile. Costituisce principio costantemente applicato dalla giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui "Non è censurabile, in sede di legittimità, la sentenza che non motivi espressamente in relazione a una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando il suo rigetto risulti dalla complessiva struttura argomentativa della sentenza" (Sez. 4, n. 5396 del 15/11/2022, dep. 2023, Lakrafy, Rv. 284096; Sez. 5, n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, Currò, Rv. 275500; Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, Caniello, Rv. 256340). Orbene, nella fattispecie in esame, pur senza esplicitamente rispondere al motivo di appello riguardante la richiesta di derubricazione del reato di tentato furto in quello di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 175, reiterativo di una richiesta già formulata in primo grado e motivatamente respinta in tale sede, la Corte territoriale ha evidenziato gli elementi significativi e rilevanti per la configurabilità del delitto di furto tentato, tratti dalla dinamica dei fatti che hanno evidenziato che gli imputati si erano recati nel sito non certo per "eseguire ricerche archeologiche o, in genere, opere per il ritrovamento di cose indicate all'art. 10 senza concessione o (senza osservare) le prescrizioni date dall'amministrazione" (così, art. 175 cit.) quanto piuttosto allo scopo di impossessarsi di beni storici e culturali. Con le disposizioni di cui al predetto art. 175 vengono sanzionate infatti le ipotesi di ricerca archeologica eseguita senza concessione e non osservando le prescrizioni date dalla pubblica amministrazione; la ratio è quella di riservare allo Stato il compimento di ricerche archeologiche o le opere per il ritrovamento dei beni culturali di cui all'art. 10 del medesimo codice. In tali casi, il peculiare disvalore della condotta ruota espressamente attorno all'offesa al patrimonio culturale e non è richiesta la sottrazione della cosa a chi la detiene o (il tentativo di sottrazione), ma la mera attività di ricerca che, per essere consentita, deve avvenire tramite modalità e tecniche scientifiche tali da garantire la correlazione diretta dell'impossessamento con un'attività di ricerca o ritrovamento. In tale perimetro normativo, come si desume dalla ricostruzione operata nella sentenza impugnata, non rientra la condotta furtiva ascritta agli imputati come ricostruita nella sentenza impugnata che ha, quindi, implicitamente condiviso e fatta propria la motivazione espressamente adottata dal giudice di primo grado che ha puntualmente affermato che "La dinamica dei fatti e le condizioni in cui gli imputati hanno nottetempo ed "in modo furtivo" posto in essere la loro azione criminosa, determina questo decidente a ritenere che gli stessi si siano recati nel parco archeologico di (Omissis) non per effettuare "ricerche finalizzate alla mera scoperta di beni di interesse archeologico" in assenza di apposita concessione da parte dell'autorità amministrativa (...) bensì allo scopo di impossessarsi dei beni storici e culturali oggetto di ritrovamento nel suddetto sito archeologico siciliano". 4. Parimenti inammissibile è il quarto motivo di ricorso. Ed invero, come precisato da questa Corte nella sua massima composizione (Sez. U, n. 13681, del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590-01), ai fini del riconoscimento o dell'esclusione del beneficio in questione occorre procedere ad un'equilibrata valutazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta in quanto è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore. Il giudice, dunque, una volta accertata la sussistenza del reato, deve effettuare una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133 c.p., comma 1, delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo onde poter valutare l'entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena. Evidenziano le Sezioni Unite che è "la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore; qualunque reato, anche l'omicidio, può essere tenue, come quando la condotta illecita conduce ad abbreviare la vita solo di poco". La Corte d'appello si è attenuta a tali insegnamenti e, nel decidere in ordine alla applicabilità della causa di esclusione della punibilità, ha valorizzato, da un lato, "l'intrinseca gravità della condotta criminosa tutt'altro che estemporanea anzi pianificata anche attraverso la precostituzione del falso alibi (vedi il porto delle attrezzature da pesca)" e, dall'altro, la mancanza "di alcun sintomo di resipiscenza" che ha portato, unitamente ad ulteriori elementi ad escludere la concessione delle attenuanti generiche e, quindi, in radice, la tenuità e la minima offensività della condotta. 5. Le considerazioni di cui sopra portano altresì a escludere l'accoglimento dell'ultimo motivo, anch'esso inammissibile. Ed invero, nessun vizio tra quelli dedotti è ravvisabile nella motivazione in parte qua della Corte d'appello che, nel confermare la decisione di primo grado in ordine al diniego delle attenuanti generiche, ha motivato adeguatamente richiamando la gravità del fatto, l'atteggiamento tutt'altro che collaborativo degli imputati, la dolosa preordinazione dell'azione, la conseguente intensità del dolo e l'assenza di qualunque elemento di valore desumibile dal contegno, anche processuale, degli imputati. Tanto basta per ritenere la motivazione del tutto immune da censure non essendo necessaria la considerazione di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, essendo invece sufficiente il riferimento agli elementi ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri (in particolare l'incensuratezza di L. e di A.) disattesi o superati da tale valutazione (ex multis, Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549 02; Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899). 4. In ultimo si rileva che il delitto contestato è divenuto procedibile a querela per effetto della L. n. 150 del 2022. Tale improcedibilità, però, non prevale sull'inammissibilità dei ricorsi "poiché, a differenza dell'ipotesi di abolitio criminis, non è idonea a incidere sul c.d. "giudicato sostanziale" (Sez. U, n. 40150 del 21/6/2018, Salatino, Rv. 273551; Sez. 5, n. 5223 del 17/1/2023, Colombo Maiomi, Rv. 284176). 5. All'inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento, nonché al pagamento in favore della Cassa delle ammende, della somma di Euro 3000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000,00 in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 16 maggio 2023. Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2023
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