RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 13 maggio 2022, il Tribunale di Firenze, previa riqualificazione dei fatti ai sensi dell'art. 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000, anziché ai sensi dell'art. 3 dello stesso decreto legislativo, ha assolto gli imputati dal reato -contestato come commesso in concorso tra loro e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso - di presentazione di dichiarazioni fiscali infedeli, con l'utilizzazione di mezzi fraudolenti, come: annotazioni contabili nei registri obbligatori a fini fiscali inerenti fatture passive inesistenti in quanto mai emesse dai fornitori; annotazioni contabili fittizie tali da consentire alla società di creare una Iva a credito superiore a quelle effettiva, con superamento della soglia di punibilità (negli anni dal 2015 al 2018).
2. Con sentenza del 23 febbraio 2023, la Corte d'Appello di Firenze, riqualificata la fattispecie, come nell'originaria contestazione, ai sensi dell'art. 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000, ha ritenuto gli imputati colpevoli del reato contestato e li ha condannati alla pena di tre anni reclusione, oltre pene accessorie.
3. Avverso la sentenza gli imputati hanno proposto, tramite il difensore e con unico atto, ricorsi per cassazione, chiedendone l'annullamento.
3.1. Con un primo motivo di doglianza, si censura l'inosservanza degli artt. 569,580,591,593-bis cod. proc. pen., sul rilievo che, avverso la sentenza di primo grado, era stato presentato ricorso diretto per cassazione dal Procuratore della Repubblica, con atto del 1 giugno 2022 e che, successivamente (7 giugno 2022), la sentenza era stata impugnata, con atto di appello, dal Procuratore generale della Repubblica. Lamenta la difesa che il Procuratore generale, ai sensi dell'art. 593-bis cod. proc. pen., avrebbe potuto appellare soltanto nei casi di avocazione o qualora il Procuratore della Repubblica avesse prestato acquiescenza al provvedimento. Poiché nessuna delle due ipotesi si era verificata nel caso di specie, l'appello del Procuratore generale avrebbe dovuto essere considerato inammissibile, ai sensi dell'art. 591, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. Ne consegue - secondo la difesa - che il procedimento avrebbe dovuto essere trattato davanti alla Corte di cassazione e non davanti alla Corte di appello. Quest'ultima, del resto, ha espressamente riconosciuto che il Procuratore generale non aveva un autonomo potere di proporre appello, ma ha ritenuto che la proposizione dell'appello avesse comunque l'effetto di rendere applicabile l'art. 580 cod. proc. pen., in forza del quale il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero avrebbe dovuto essere trattato come appello. Nella prospettazione del ricorrente, l'art. 580 citato presuppone mezzi di impugnazione diversi ma ugualmente ammissibili, perché, diversamente opinando, il ricorso per cassazione proposto legittimamente da una parte si convertirebbe automaticamente in appello per iniziativa di un'altra parte non legittimata.
3.2. Con un secondo motivo di doglianza, si denunciano vizi della motivazione della sentenza di appello sulla ritenuta responsabilità penale, con riferimento alla mancanza di argomentazioni rafforzate rispetto a quelle che avevano portato all'assoluzione in primo grado. La difesa premette che la Corte territoriale ha ricordato che il giudice di primo grado ha accolto la prospettazione difensiva secondo la quale la falsificazione era rudimentale e immediatamente percepibile e, come tale, non fraudolenta. Invece, nella ricostruzione operata nella sentenza impugnata, è irrilevante che gli artifici adottati dagli imputati siano stati scoperti senza difficoltà nel corso di una verifica, sia perché l'attività di verifica non è generalizzata, sia perché altrimenti si sconfinerebbe nel reato impossibile. La difesa critica questa conclusione, sostenendo che la capacità decettiva degli artifici è esclusa nel caso in cui si tratti, non dell'uso di documenti falsi, ma della mera alterazione della contabilità interna, come avviene con la falsificazione dei mastrini bancari.
3.3. In terzo luogo, si denuncia la contraddittorietà fra motivazione e dispositivo quanto alla determinazione della pena, sul rilievo che questa sarebbe stata quantificata letteralmente "nel minimo edittale di tre anni di reclusione". Nel ricorso si osserva che, al momento della commissione dei reati, il minimo edittale era di un anno e sei mesi di reclusione e lo stesso è stato elevato a tre anni solo dal D.L. n. 124 del 2019.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di doglianza è fondato.
La stessa Corte d'Appello ha correttamente ritenuto inammissibile l'appello del Procuratore generale della Repubblica, ai sensi dell'art. 591, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., sul rilievo che l'art. 593-bis, comma 2, cod. proc. pen., prevede che "il procuratore generale presso la Corte d'Appello può appellare soltanto nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento"; e nessuna di tali due ipotesi ricorre, pacificamente, nel caso di specie.
Su questa premessa, la sentenza ha però fornito un'erronea interpretazione dell'art. 580 cod. proc. pen., nell'attribuire all'appello inammissibile del Procuratore generale l'efficacia di convertire in appello il ricorso per cassazione, invece ammissibile, del Procuratore della Repubblica. Tale disposizione presuppone, infatti, per la propria operatività, la proposizione di mezzi di impugnazione diversi, ma da parte di soggetti ugualmente legittimati, perché l'ordinamento processuale non può consentire che il ricorso per cassazione proposto legittimamente da una parte si converta automaticamente in appello per iniziativa di un'altra parte non legittimata. Diversamente opinando, si riconoscerebbe alla parte non legittimata la facoltà di influire in modo distorsivo sull'andamento di un processo al quale non può partecipare.
Ne consegue, quanto al procedimento in esame, che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, in accoglimento del primo motivo di ricorso proposto nell'interesse degli imputati, perché la Corte di appello non avrebbe potuto pronunciarsi, in quanto non avrebbe potuto operare la conversione in appello, ex art. 580 cod. proc. pen., del ricorso per cassazione proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale.
2. Spetta dunque a questa Corte di cassazione pronunciarsi sulle impugnazioni proposte dai due diversi uffici di procura.
2.1. Quanto al ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'Appello, lo stesso è da ritenersi pacificamente inammissibile per difetto di legittimazione, in forza di quanto già osservato.
2.2. Deve invece essere esaminato il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale, basato su due motivi di doglianza con i quali si è censurata l'erronea interpretazione degli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000.
2.2.1. Ad avviso del ricorrente, la prima di tali due disposizioni si applica al caso in cui vi siano operazioni simulate oppure l'utilizzazione di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento, ma non richiede un alto grado di sofisticazione della condotta né un'attività esclusivamente extracontabile. La seconda disposizione, disciplina, invece, un reato a carattere residuale, non potendo concorrere con le fattispecie di cui ai precedenti artt. 2 e 3. Nel caso di specie, vi sarebbe una falsificazione di "mastrini" per dare prova di aver effettuato pagamenti di fatture simulate; falsificazione che rappresenta una condotta non rudimentale, ancorché le fatture siano prive di numero, essendo comunque apparentemente emesse da soggetti economici esistenti; il che ha imposto ai verificatori l'interpello degli stessi per il disconoscimento dell'autenticità dei documenti.
2.2.2. Il ricorso è fondato.
La linea di discrimine fra la fattispecie dell'art. 4 e quelle degli artt. 2 e 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000 sta nel suo carattere espressamente residuale ("Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3"). L'art. 4 trova infatti applicazione qualora non vi sia nessuna delle seguenti condotte: l'avvalimento di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2); operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero l'uso di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria (art. 3). La disposizione punisce, infatti, la dichiarazione infedele che non sia fraudolenta, perché l'ipotesi di frode sono sanzionate dai precedenti due articoli (ex plurimis, Sez. 3, n. 28226 del 09/02/2016, Rv. 267409; Sez. 5, n. 36894 del 23/05/2013, Rv. 257190).
Dunque, rientra certamente nell'ambito di applicazione dell'art. 3 e non dell'art. 4 la condotta di chi falsifichi mastrini bancari per creare artificialmente la prova di aver effettuato il pagamento di fatture simulate emesse da soggetti economici apparentemente esistenti, perché tale condotta impone ai verificatori di accertare l'effettiva falsità di tali fatture, attraverso indagini che devono, evidentemente, andare oltre l'apparente posizione contabile e fiscale del contribuente imputato. Ne deriva che la fattispecie in esame non può essere ricondotta all'eccezione prevista dal comma 3 del richiamato art. 3, a norma del quale non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali.
Si è del resto affermato che, ad esempio, il rilascio, da parte di professionista abilitato, di un mendace visto di conformità o di un'infedele certificazione tributaria, di cui rispettivamente agli artt. 35 e 36 del D.Lgs. 9 luglio 1997 n. 241, ai fini degli studi di settore, costituisce un mezzo fraudolento, idoneo ad ostacolare l'accertamento e ad indurre l'amministrazione finanziaria in errore, tale da integrare il concorso del professionista nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (Sez. 3, n. 19672 del 13/03/2019, Rv. 275998). Più in generale, va richiamato e ribadito il principio secondo cui, in tema di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, per la realizzazione del mezzo fraudolento è necessaria la sussistenza di un quid pluris rispetto alla falsa rappresentazione offerta nelle scritture contabili obbligatorie e, cioè, una condotta connotata da particolare insidiosità derivante dall'impiego di artifici idonei ad ostacolare l'accertamento della falsità contabile (Sez. 5, n. 36859 del 16/01/2013, Rv. 258041).
Da quanto precede consegue che - dato atto dell'inammissibilità dell'impugnazione del Procuratore generale presso la Corte di appello, peraltro già dichiarata nella sentenza di secondo grado impugnata - in accoglimento del ricorso per cassazione, proposto per saltum dal Procuratore della Repubblica, la sentenza di primo grado deve essere annullata, con rinvio alla Corte di appello di Firenze, perché proceda a nuovo giudizio, tenendo conto dei principi di diritto sopra enunciati.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e, in accoglimento del primo motivo di ricorso proposto nell'interesse dell'imputato, e pronunciandosi sulle impugnazioni avverso la sentenza di primo grado, dichiara inammissibile l'appello del Procuratore generale e, in accoglimento del ricorso per cassazione del Procuratore della Repubblica, annulla la sentenza di primo grado con rinvio Corte di appello di Firenze.
Così deciso il 4 luglio 2024.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2024.