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Ricorso per cassazione: Inammissibile il motivo nuovo avente ad oggetto un punto della decisione non investito dall'atto di ricorso originario

Ricorso per cassazione

Cassazione penale sez. II, 17/02/2023, n.11291

È inammissibile il motivo nuovo di ricorso, presentato ex art. 585, comma 4, c.p.p., avente ad oggetto un punto della decisione non investito dall'atto di ricorso originario, operando la preclusione prevista dall'art. 167 disp. att. e trans. c.p.p. pur nell'ipotesi in cui la deduzione riguardi l'inutilizzabilità di prove acquisite illegittimamente, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento ex art. 191, comma 2, c.p.p., posto che occorre pur sempre che l'eccezione sia proposta con l'atto di ricorso principale. (Fattispecie relativa alla inutilizzabilità di intercettazioni telefoniche acquisite da altro procedimento in difetto dei presupposti di legge, dedotta solo come motivo nuovo).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO F.L., L.M., F.A., P.M.M. ricorrono avverso la sentenza della Corte di appello di Bari del 22/06/2021 che, in riforma della sentenza del Tribunale di Foggia, ha rideterminato la pena loro inflitta in ordine alle imputazioni rispettivamente ascritte. Anche il P.G. presso la Corte di appello di Bari ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe, nella parte in cui ha assolto, perché il fatto non sussiste, L.L. e L.V. dai reati di estorsione aggravata ex art. 416-bis.1 c.p., loro rispettivamente ascritti ai capi D) ed E) della rubrica. Con distinti ricorsi, gli imputati deducono diversi motivi che, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, saranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione. Il difensore di F.A., nel corso della discussione, ha rinunziato al quarto motivo di ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO Ricorso di F.A. (capo B) della rubrica, artt. 110,81 cpv. c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2 in relaz. art. 628 c.p., comma 2, n. 3 e L. n. 203 del 1991, art. 7; unificato il reato, con continuazione interna ed esterna con capo A, art. 416-bis c.p., commi 2, 3 e 4, per cui ha riportato condanna dalla Corte di appello di Bari, con sentenza del 13/04/2018). 1. inosservanza dell'art. 179 c.p.p., D.Lgs. n. 116 del 2017, art. 12, R.D. n. 12 del 1941, art. 43-bis e L. n. 57 del 2016, art. 2, n. 5, lett. b). 1.1. Si reitera l'eccezione di nullità della sentenza di primo grado per avere partecipato al giudizio e concorso a deliberare la sentenza un giudice onorario di pace (all'istruttoria dibattimentale avevano parzialmente partecipato anche altri due g.o.t.), in violazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 116 del 2017, art. 12 e art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), n. 2) e n. 3). 1.2. Si solleva, in subordine, eccezione di legittimità costituzionale del R.D. n. 12 del 1941, art. 43-bis, in riferimento agli artt. 3,24,25 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede il divieto di partecipazione del giudice onorario quale componente del collegio giudicante, ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata. 1.1. L'eccezione di nullità è infondata. La disposizione del D.Lgs. n. 117 del 2017, art. 12 - che ha introdotto il divieto di utilizzare, nei collegi dibattimentali, i giudici onorari di pace (ex got) allorché si proceda per delitti di cui all'art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a) n. 2) e 3) - è entrata in vigore il 15 agosto 2017, mentre il decreto che dispone il giudizio, per quanto è dato ricavarsi dalla lettura della sentenza di primo grado, è del 07/02/2017 (e, dunque, l'esercizio dell'azione penate, da ricondursi alla richiesta di rinvio a giudizio è pure antecedente) e la prima udienza dibattimentale si è tenuta il 03/07/2017 nel corso della quale è stato escusso un teste ed acquisiti, con il consenso delle parti, diversi atti. Pertanto, il processo risulta essersi incardinato prima della vigenza del divieto e, conseguentemente - con riguardo alla trattazione di tale giudizio - erano ben applicabili le disposizioni tabellari che consentivano al presidente del tribunale di integrare, per tutta la durata di quel giudizio, i collegi ricorrendo, stante la necessità, ai giudici onorari. In tal senso depongono le stesse disposizioni del decreto legislativo: l'art. 30, comma 2, dispone che resta ferma l'assegnazione dei procedimenti civili e penali ai giudici onorari di pace in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto come giudici onorari di tribunale effettuata, in conformità alle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura, prima della predetta data, nonché la destinazione degli stessi giudici a comporre i collegi già disposta antecedentemente alla medesima data; l'art. 30, comma 6, stabilisce che, per i procedimenti relativi ai reati indicati nell'art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), iscritti alla data di entrata in vigore del presente decreto, i divieti di destinazione dei giudici onorari di pace di cui al comma 5 nei collegi non si applicano se, alla medesima data, sia stata esercitata l'azione penale. Inoltre, si precisa che la destinazione è mantenuta sino alla definizione dei relativi procedimenti. 1.2. L'eccezione di illegittimità costituzionalità della disposizione di ordinamento giudiziario relativa all'esercizio delle funzioni dei giudici onorari è manifestamente infondata. E', infatti, la stessa Costituzione che prevede il concorso all'esercizio della giurisdizione dei magistrati onorari, con riguardo all'esercizio della giurisdizione di ogni ordine e grado (si pensi al Tribunale per i minorenni, ai Tribunali militari, sino alla Corte di assise ove vi è una maggioranza di giudici popolari). La legge, poi, detta specifiche disposizioni sia in tema di reclutamento che di periodica conferma volte ad assicurarne la professionalità. Sono stabilite molteplici ipotesi di incompatibilità al fine di garantirne l'imparzialità e l'indipendenza. E', poi, stabilita la limitazione all'utilizzo xc di un solo giudice onorario, così assicurandosi, in ragione della stabile presenza dei giudici di carriera il necessario supporto di tipo specializzante. Si tratta, pertanto, di materia riservata alla discrezionalità del legislatore, ove viene in rilievo anche l'interesse costituzionale all'amministrazione della giustizia, non sindacabile in questa sede. 2. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio, con particolare riguardo alla misura dell'aumento di pena a titolo di continuazione (sui fatti di cui alla sentenza emessa dalla Corte di appello di Bari il 13/06/2016) stabilito in ordine al reato per cui è processo, determinato, in assenza di motivazione e di proporzione anche specifica, in anni sei di reclusione a fronte della pena inflitta per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, di pari gravità, stabilita in anni uno di reclusione. 2. Il motivo è fondato. In tema di applicazione della disciplina del reato continuato, il giudice che ritenga di applicare un aumento di pena particolarmente significativo per il reato-satellite, è tenuto a fornire specifica motivazione sulle ragioni dell'entità di detto aumento, atteso che il riconoscimento del medesimo disegno criminoso implica, di per sé, una minore offensività della condotta illecita aggiuntiva, che è stata ricondotta ad uno dei delitti fine riconducibili al delitto associativo di stampo mafioso per cui il ricorrente ha riportato condanna irrevocabile in altro giudizio e in relazione al quale è stata stabilita dall'altra autorità giudiziaria la pena base di anni nove di reclusione. Nel caso in esame, l'aumento a titolo di continuazione non solo risulta particolarmente elevato rispetto alla forbice consentita ex art. 81 cpv. c.p. al giudice che deve stabilire la misura dell'aumento, ma anche rispetto alla stessa pena base stabilita per il reato più grave e, financo, rispetto ad altro reato posto in continuazione dall'altro giudice, in materia di violazione della legge stupefacenti (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1), per il quale è stabilita dalla legge una significativa pena massima al pari del delitto estorsivo. Per come affermato dalle S.U. di questa Corte, il giudice, allorché si discosti dal minimo edittale, è tenuto a dare motivatamente conto anche in ordine all'entità dei singoli aumenti per i reati-satellite ex art. 81 c.p., comma 2, in modo da rendere possibile un controllo effettivo del percorso logico e giuridico seguito nella determinazione della pena, non essendo all'uopo sufficiente il semplice rispetto del limite legale del triplo della pena-base (Sez. u, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269). Il mero e generico riferimento, addotto dalla sentenza impugnata a ragione dell'aumento, ad indici di gravità del reato in ragione del suo perdurare nel tempo non risulta soddisfattivo dell'obbligo di motivazione richiesto in ragione dei principi sopra affermati. 3. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità con riguardo all'estorsione di cui al capo b) della rubrica. La censura attiene tanto all'assenza di idonei elementi di prova, anche di tipo indiziario, a fondare la condanna, a fronte di molteplici criticità attinenti all'affidamento del contenuto delle captazioni ed alla ricostruzione della vicenda estorsiva. 3. Il motivo risulta riproduttivo di profili di censura, eminentemente di merito, sollevati con l'atto di appello e adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dalla Corte territoriale. Quest'ultima, dopo avere ricostruito la sussistenza dell'estorsione sulla scorta del significativo contenuto dei dialoghi captati dei soggetti direttamente coinvolti, ne ha asseverato il coinvolgimento del ricorrente, in aderenza all'imputazione di carattere concorsuale al medesmo elevata, in quanto soggetto stabilmente destinatario delle somme estorte all'imprenditore, per come ricavato dal contenuto delle conversazioni intrattenute dalla persona offesa, nonché dai legami con chi fece da tramite e, soprattutto, dall'esistenza di un preciso nesso di interdipendenza logico-temporale che lega le dazioni a precisi luoghi direttamente riferibili alla sfera giuridica dell'imputato. Una volta asseverato, dunque, che il ricorrente, mediante i suoi tramiti, abbia ricevuto parte del prezzo estorsivo, la circostanza che lo stesso, per quanto prospettato dalla difesa, non sia stato diretto autore della minaccia o non si siano registrati diretti incontri con la persona offesa, non assume alcuna valenza distonica ai fini della sua estraneità al delitto contestato; invero, al di là del fatto che le sentenze di merito precisano come la persona offesa ascrivesse a vere e proprie imposizioni le richieste dell'imputato e allo stesso facesse espresso riferimento nell'ambito della vicenda estorsiva, il ricorrente è indicato di avere rafforzato il proposito criminoso espresso dal fratello: trattandosi di concorso di persone nel reato, la condotta tipica può essere realizzata da taluni degli altri concorrenti, essendo sufficiente, per i coimputati avere apportato un contributo causale, anche di tipo istigatrice o rafforzativo della pretesa espressa da altri, anche previa intesa. E che si tratti di estorsione è stato correttamente ricavato non solo dal contesto mafioso-territoriale in cui vengono inseriti i fatti e gravitano i soggetti coinvolti, tra cui spicca lo stesso ricorrente in considerazione della sua appartenenza alla criminalità organizzata locale, ma anche dall'assenza di una causale al versamento periodico del tandundem da parte dell'imprenditore estorto. Del resto, il ricorrere dell'ipotesi del cd. imprenditore colluso, a cui la difesa fa riferimento, si fonda su un'alternativa lettura delle fonti di prova, motivatamente disattesa dal giudice del merito essendosi precisato - attraverso una interpretazione priva di manifeste illogicità - come nessun diretto corrispettivo in termini di vantaggio derivante all'imprenditore dai rapporti con i mafiosi ne derivasse nell'attività della sua azienda, bensì che altri malavitosi non dovevano importunarlo, secondo il notorio cliché che caratterizza il pagamento sistemico del pizzo ad opera delle attività commerciali ed imprenditoriali. Si e', dunque, al cospetto della cd. estorsione ambientale, che viene perpetrata da soggetti notoriamente inseriti in pericolosi gruppi criminali che spadroneggiano in un determinato territorio e che è immediatamente percepita dagli abitanti di quella zona come concreta e di certa attuazione, stante la forza criminale dell'associazione di appartenenza del soggetto agente, quand'anche attuata con linguaggio e gesti criptici, a condizione che questi siano idonei ad incutere timore e a coartare la volontà della vittima (sez. 2, n. 53652 del 10/12/2014, Bonasorta, Rv. 261632 - 01). In conclusione, in ordine all'affermazione di responsabilità, la sentenza impugnata si sottrae ai vizi di legittimità denunziati, anche in forza del principio di diritto affermato dalla Corte di legittimità, secondo cui la sentenza di merito non è tenuta a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata. (Sez. 4, sent. n. 26600 del 13/05/2011, Rv. 250900). Il richiamo di tale principio consente di escludere il paventato vizio di omessa motivazione nella parte in cui si denuncia una inconciliabilità tra quanto affermato dalla Corte di merito e quanto sarebbe stato asseverato nella sentenza irrevocabile di condanna emessa nel corso del giudizio abbreviato nei confronti dei coimputati F.L. ed A.V.. Del resto, sul punto, va anche precisato che la doglianza, con riguardo all'unica ipotesi estorsiva per cui è stata affermata, al pari dei coimputati, la condanna (ossia quella di cui al capo B della rubrica, essendo l'imputato stato assolto da quella sub C), risulta essere diretta ad una rilettura delle fonti di prova acquisite nel corso del giudizio, preclusa a questa Corte. Inoltre, nessuna preclusione può derivare al giudice del merito dalla rinnovata valutazione delle risultanze probatorie acquisite in un processo svoltosi con forme di acquisizione differenti. 4. Omessa motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio: 4.1. all'esclusione della continuazione interna (mesi tre di reclusione), stante l'unitarietà della condotta (unicità del fine, contestualità, immediato succedersi dei singoli atti); 4.2. all'applicazione della recidiva reiterata, essendosi fatto riferimento alle argomentazioni svolte per giustificare l'aggravante speciale del metodo e della finalità mafiosa, così duplicando la sanzione, la quale trova risposta sanzionatoria nell'art. 628 c.p., comma 3, n. 3 e art. 416-bis.1 c.p.. 4.3. sull'aggravante di cui all'art. 628 c.p., comma 3, n. 3 (mancanza anche grafica della motivazione). 4. I motivi in ordine al trattamento sanzionatorio sono inammissibili sia perché manifestamente infondati, sia perché rinunziati nel corso della discussione orale dal difensore. In particolare: 4.1. la censura è generica, a fronte di una descrizione del fatto in cui i diversi conati posti in essere per procurarsi un ingiusto profitto costituiscono autonome condotte di reato, causalmente efficienti a perseverare e conservare la tangente estorsiva, unificabili con il vincolo della continuazione, in quanto singolarmente considerati in relazione alle circostanze del caso concreto e, in particolare, alle modalità di realizzazione e soprattutto all'elemento temporale, appaiono dotati di una propria completa individualità. 4.2. il motivo è manifestamente infondato, in quanto l'applicazione della recidiva rinviene congrua motivazione, all'interno di un giudizio di maggiore gravità in termini sia di maggiore intensità di colpevolezza che di pericolosità sociale, nell'ambito di un percorso criminale non definitivamente interrotto. A tale riguardo, il giudice del merito, lungi dall'operare un'automatica duplicazione del giudizio di disvalore espresso ai fini circostanziali, ha al contrario valutato tali profili di maggiore gravità del reato alla stregua dei pregressi precedenti penali annoverati dal ricorrente, che risultano essere stati analiticamente apprezzati (v. pag. 107 sentenza di primo grado), sulla scorta di un giudizio complessivo che necessariamente involge il fatto nella sua intera portata di disvalore, in quanto, ai fini della recidiva, ciò che rileva è il "nuovo reato", da intendersi comprensivo di tutte le sue tipiche connotazioni, anche di tipo aggravante che ben possono assumere valenza dimostrativa di maggiore pericolosità. 4.3. la censura è generica, in quanto non si specificano le doglianze mosse al riguardo con l'atto di appello, ossia le ragioni per cui la circostanza non militerebbe per il ricorrente. Peraltro, la circostanza rinviene puntuale motivazione nelle sentenze di merito, ove si è fatto riferimento "alla qualità soggettiva del ricorrente, esponente di rilievo del gruppo criminale ex art. 416-bis c.p., qualità acclarata da sentenze passate in giudicato" (cfr. pag. 104 sentenza di primo grado). 5. In conclusione, va annullata la sentenza impugnata nei confronti di F.A. limitatamente all'aumento disposto a titolo di continuazione per il reato di cui al capo B) della rubrica, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Bari per nuovo giudizio sul punto. Va, invece, rigettato nel resto il ricorso e dichiarata irrevocabile l'affermazione di responsabilità dell'imputato. Ricorso di P.M.M. (capo G) della rubrica, art. 110 c.p., D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinques e L. n. 203 del 1991, art. 7 con attenuanti generiche e pena sospesa; conferma della sentenza del Tribunale di Foggia). 1. Inosservanza degli artt. 270 e 191 c.p.p., per avere acquisito e valutato il risultato di intercettazioni telefoniche da ritenersi inutilizzabili - in quanto acquisite da altro procedimento in difetto dei presupposti normativi essendosi meramente fatto riferimento all'esistenza di un generico collegamento probatorio - sul rilievo che la questione non era stata tempestivamente sollevata nei motivi principali di appello (in quanto proposta soltanto con successiva memoria difensiva). Al riguardo, adduce il ricorrente che la sanzione processuale dell'inutilizzabilità non rientra tra le questioni collocate nella disponibilità delle parti e si è in presenza di un vizio sempre rilevabile d'ufficio. 1. Il motivo non è fondato. Il ricorrente, infatti, non distingue il piano della rilevabilità del vizio con quello del suo accertamento. L'inutilizzabilità è un vizio e in ciò può concordarsi con la prospettazione difensiva - che vive di un perimetro di definizione indefinito: non esiste infatti, un meccanismo di preclusione processuale che derivi dalla mancata devoluzione del vizio, trattandosi di una illegalità che l'ordinamento ritiene di dover trattare in modo peculiare e porvi rimedio attraverso la relativa rimozione nel momento stesso in cui il giudice ne accerti la sussistenza. Ciò non toglie, tuttavia, che il concetto di accertamento del vizio rappresenti una realtà processuale non più eludibile, al pari di qualsiasi altro accertamento giudiziale. Sicché, in presenza di una devoluzione del vizio o di una sua rilevazione ex officio da parte del giudice, quel vizio vive e si identifica nei limiti e nei termini in cui esso ha formato oggetto dell'accertamento di cui si è detto. In quest'ultimo caso, dunque, l'eventuale "riviviscenza" del vizio passa necessariamente attraverso la catena impugnatoria del relativo accertamento al pari di qualunque altro termine che assuma i connotati di una regiudicata. Altrimenti si giungerebbe all'irragionevole conseguenza che, una volta dedotto, esaminato e svolto un accertamento giudiziale sul vizio, l'ordinamento processuale dovrebbe assumere una sorta di posizione di indifferenza rispetto alla mancata successiva deduzione della questione nella conseguente fase impugnatoria, ammettendo una "riviviscenza" di carattere recuperatorio di una preclusione che si è formata in conseguenza della mancata deduzione ad opera della parte che, quel vizio, aveva invece prima introdotto. Al riguardo, proprio con riferimento al caso in esame, può richiamarsi l'orientamento di legittimità, che il Collegio condivide, secondo cui deve ritenersi inammissibile un motivo nuovo di ricorso, presentato ai sensi dell'art. 585 c.p.p., comma 4, avente ad oggetto un punto della decisione non investito dall'atto di ricorso originario, operando la preclusione prevista dall'art. 167 disp. att. e trans. anche se la deduzione riguarda l'inutilizzabilità prevista dall'art. 191 c.p.p., comma 2, occorrendo pur sempre che l'eccezione venga proposta con l'atto di ricorso principale (fattispecie relativa alla inutilizzabilità del risultato delle intercettazioni dedotta solo come motivo nuovo). (Sez. 1, n. 33662 del 09/05/2005, Rv. 232406 - 01; conformi: Sez. 6, n. 30130 del 2021; Sez. 4, n. 12157 del 2021; Sez. 2, n. 11839 del 2018). E tanto a prescindere dall'annessa illustrazione in ricorso dell'incidenza della eventuale eliminazione dell'elemento di prova viziato ai fini della "prova di resistenza". Nell'ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (ex multis v. Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, Rv. 269218 - 01). 2. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all'elemento materiale e psicologico del delitto di cui all'art. 512-bis c.p., nonché vizio di travisamento dei documenti acquisiti. La censura attiene alla natura elusiva dell'operazione; si lamenta che i giudici di merito si siano arrestati alla mera constatazione dell'avvenuta interposizione in difetto degli altri elementi prescritti dalla legge. Mancavano elementi che consentissero di ritenere l'acquisto del bene addebitabile al F.E. (soggetto interposto) e che la somma versata fosse sproporzionata alle sue capacità reddituali come a quelle dello stesso ricorrente. Peraltro, il ricorrente, allorché aveva effettuato la vendita del terreno (il 05/02/2016 in favore di D.S.W.), non aveva ancora conoscenza delle indagini o della pendenza del processo e ciò escludeva un intento strumentale dell'atto negoziale compiuto. 2. La censura è generica. Il ricorrente, infatti, riproduce le medesime doglianze mosse con l'atto di appello ed omette di confrontarsi con la precisa ricostruzione della vicenda che ha portato il giudice del merito ad affermarne il coinvolgimento come concorrente necessario nel reato contestato, in ragione della convergenza delle molteplici fonti di prova indicate dalla sentenza impugnata e da quella del Tribunale richiamata sul punto (esiti delle intercettazioni dei dialoghi intervenuti tra terzi e tra il ricorrente ed il F., s.i. di persone a conoscenza dei fatti, servizi di rilevamento operati dalla polizia giudiziaria). Emerge, infatti, come il F.E. avesse da tempo la disponibilità effettiva del terreno de quo, che lo stesso fosse stato intestato fittiziamente al ricorrente nell'ambito di una stretta conoscenza esistente tra i due da epoca risalente e di gran lunga antecedente al momento in cui poi l'imputato vendette il terreno a terzi nel 2016. Peraltro, lungi dal fondare l'affermazione di responsabilità esclusivamente sul dato oggettivo dell'interposizione - peraltro ricavata anche da quanto appreso al riguardo dalla stessa ex moglie del F. - i giudici di merito hanno indicato una serie di significative intercettazioni da cui risulta come il ricorrente avesse ben presente la caratura criminale del F. e come fosse in realtà un suo prestanome stante il rapporto di subordinazione esistente tra i due. L'epoca delle conversazioni e degli accertamenti eseguiti dalla p.g., il contenuto delle informazioni acquisite e l'esito del procedimento penale che ha portato poi il F. ad essere condannato per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., danno piena contezza, sul piano logico-fattuale, di come tale intestazione fosse coerente con il disegno del F. - riferito anche dalla ex moglie - di sottrarre il bene alla possibile applicazione della misura di prevenzione della confisca, stante anche l'assenza di valide alternative giustificative lecite fornite al riguardo dal ricorrente (e solo genericamente riferite nel presente ricorso) e l'esito degli accertamenti svolti sulla sua incapiente capacità patrimoniale di far fronte all'acquisto del bene (vedi pag. 60 della sentenza impugnata e pagg. 131-132 sentenza di primo grado). Quanto al dolo, poi, le sentenze di merito risultano avere fatto corretta applicazione del principio affermato dalla Corte di legittimità secondo cui risponde di concorso ex art. 110 c.p. in un reato a dolo specifico anche il soggetto che apporti un contributo che non sia soggettivamente animato dalla particolare finalità richiesta dalla norma incriminatrice, a condizione che almeno uno degli altri concorrenti - non necessariamente l'esecutore materiale - agisca con tale intenzione e che della stessa il primo sia consapevole (Sez. 2, n. 38277 del 07/06/2019, Nuzzi, Rv. 276954 - 03; Sez. 5, n. 36198 del 24/05/2022, La Penna, pag. 5; Sez. 5, n. 3555 del 07/07/2021, Coen, pag. 24). 3. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell'aggravante "mafiosa" nella sua declinazione soggettiva dell'agevolazione. La motivazione resa al riguardo dal giudice del merito era apodittica essendosi fatto un laconico riferimento al fatto che l'interposizione fittizia avrebbe consentito di mantenere inalterato il patrimonio del sodalizio, così confondendosi il patrimonio del singolo con quello dell'associazione, essendo stata l'operazione semmai compiuta per vicende strettamente personali e familiari del F. volte al reperimento di un'abitazione. 3. La censura è inammissibile poiché muove da un presupposto di fatto, ossia che l'intestazione fittizia fosse avvenuta per soddisfare esclusive esigenze di carattere personale del F.E., che non solo risulta essere stato asseverato dalle sentenze di merito che hanno, invece, ricondotto una tale operazione alla finalità di consentire all'associazione mafiosa di mantenere intatta la ricchezza accumulata, ma neppure specificamente dedotto, con le dovute allegazioni, nel giudizio di appello. 4. In conclusione, il ricorso va rigettato, condannandosi il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Ricorso di F.L. (capo A), artt. 110,81 cpv. c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2 in relazione all'art. 628 c.p., comma 2, n. 1 e 3, L. n. 203 del 1991, art. 7). 1. Violazione ed erronea applicazione degli artt. 110-629 c.p., in relazione all'art. 192 c.p.p.. Nel ripercorrere i motivi di appello, si evidenzia come la difesa avesse prospettato una lettura diversa della vicenda ed aderente ad una completa disamina delle fonti di prova (le dichiarazioni di C. e soprattutto quelle relative al compendio intercettivo), che vedeva la presunta persona offesa assumere la veste dell'imprenditore colluso (questa era stata destinataria anche di un provvedimento di prevenzione patrimoniale), ascrivendosi i rapporti tra le parti - originati in circostanze occasionali - a contesti privi di connotazione estorsiva (si fondavano su una consolidata amicizia e su reciproci interessi), di talché anche l'ipotizzata fittizia intestazione del rapporto di lavoro doveva collocarsi in diverso ambito, risultando la ricorrente parte legittima di una più ampia comunanza di interessi tra le parti. In sostanza, esclusa qualunque iniziativa della ricorrente in ordine all'instaurarsi del rapporto di lavoro, esistevano tra le parti (l'imprenditore da un lato ed il fratello ed il marito della ricorrente dall'altro), interessi economici reciproci che tale fittizio rapporto di lavoro avrebbe originato: l'imprenditore verosimilmente godeva di agevolazioni nell'aggiudicazione degli appalti sul territorio, i secondi ricevevano una forma di "ricompensa" in denaro. Contraddittoria era dunque la conclusione a cui era pervenuto il Tribunale, che pur aveva ammesso l'esistenza di un rapporto di amicizia tra le parti e la consapevolezza in capo all'imprenditore delle dinamiche criminali del territorio. Frutto di travisamento era l'affermazione che il F.E. controllasse le assunzioni della ditta. Tanto premesso la censura si incentra: - sull'osservanza dei criteri regolanti, ai sensi dell'art. 192 c.p.p., la prova indiziaria e sulla logicità delle motivazioni al riguardo rese; - sulla tecnica motivazione, in quanto il mero riferimento al dictum del Tribunale si traduceva in un non liquet sulle specifiche doglianze sollevate con l'atto di appello, in violazione dell'art. 27 Cost., comma 2, e della regola di cui all'art. 533 c.p.p.; - sull'assenza di motivazione in punto di inutilizzabilità a favore dell'imputata delle dichiarazioni della C., pur assunte in violazione delle regole processuali (senza la presenza del difensore nel corso del dibattimento di primo grado) e su cui la difesa aveva fondato la tesi a discarico: - all'aver valorizzato ai fini della valenza estorsiva della vicenda i dialoghi relativi alla questione del Consorzio, temporalmente successiva ai fatti oggetto di contestazione e comunque estranea alle dinamiche connesse al rapporto di lavoro della ricorrente e ai rapporti con l'imputata, il marito ed il fratello (era, infatti, soltanto in tale contesto che la p.o. afferma che non poteva dirsi di no a certi soggetti); - all'aver valorizzato altra conversazione ai fini della consapevolezza della natura estorsiva della vicenda in capo alla ricorrente, in realtà relativa all'intrusione nei confronti di altro soggetto. Con riguardo, poi, alla qualificazione giuridica del fatto, richiamate le considerazioni svolte sulla presenza di un vantaggio derivante all'imprenditore dall'operazione de quo, si sottolinea come si fosse ricavata l'estorsione dalla natura fittizia del rapporto, omettendo di specificare l'esistenza della violenza e minaccia (da escludersi a detta della difesa in ragione dell'assenza della causale di tipo coercitivo), essendosi fatto generico riferimento all'esercizio di un silente indimostrato potere intimidatorio (cd. suggestione territoriale. Si evidenzia, infine, l'assenza dimostrativa di un legame tra la ricorrente e gli altri imputati, il cui onere chiarificatore non poteva farsi gravare sull'imputata. 1. Il motivo non è fondato. La Corte di appello risulta avere dato sufficiente risposta ad alcuni profili aventi rilievo decisivo, come l'assenza della qualità di "imprenditore vittima del C.", che piuttosto era da qualificarsi come un "imprenditore colluso". In sostanza, attraverso tali argomentazioni, la difesa mira a sostenere che la persona offesa non sia stata oggetto di minacce o destinatario di una effettiva coercizione in grado di condizionarne la volontà, sussistendo piuttosto "rapporti di amicizia". Le censure non colgono nel segno avendo i giudici di merito, con inappuntabili argomentazioni in fatto non censurabili in questa sede, motivato in ordine a tali profili, specificando ampiamente: - la natura fittizia del rapporto di lavoro protrattosi per un periodo non breve; - l'assenza di un rapporto sinallagmatico tra prestazione di lavoro e corresponsione dello stipendio; - la ricorrente, pur formalmente assunta, non si recava sul posto di lavoro e, quindi, nessun datore di lavoro avrebbe accettato simili condizioni; - non è logicamente sostenibile che l'andamento dei fatti sia riconducibile ad un "atto di liberalità"; - la forzosa assunzione - corrispondente ad un salario che dissimulava l'adempimento di una pretesa estorsiva - era inteso dalla persona offesa come un costo aziendale; - la riconducibilità della dazione ad un'ipotesi di estorsione cd. ambientale ne caratterizza tanto la genesi che il successivo svolgimento, caratterizzato dalle continue dazioni quali adempimenti dell'originario pactum assunto, così rendendo non decisive le vicende successive che pur interessano la persona dell'imprenditore, i suoi rapporti con i F. e i mutamenti di equilibri ed asseti tra costoro e la mafia locale. Tali elementi, plurimi e convergenti, escludono che il C. sia un imprenditore colluso, tanto che si evidenzia che " C. dice alla G. che non si poteva dire di no". Le intercettazioni sono state correttamente interpretate e, riguardando questioni di merito, non possono essere rivalutate, avendo sia il Tribunale che la Corte territoriale attribuito ad esse un significato congruo e strettamente aderente ai fatti, tanto che in motivazione si evidenzia "il quadro di una diuturna ed asfissiante ricerca da parte del C. di evitare conseguenze negative ponendosi contro gli esponenti del sodalizio criminale". La ricorrente, pertanto, è parte del disegno estorsivo in quanto risulta avere materialmente agevolato la consumazione del reato, essendosi fatta assumere fittiziamente e riscuotendo le somme destinate al marito e correo L.M. (sul punto vedi anche oltre a proposito del ricorso di tale coimputato). Ne' il quadro probatorio a carico risulta decisamente inficiato dalla prospettata utilizzabilità a favore delle dichiarazioni della C., aventi per lo più carattere generico in quanto non direttamente coinvolta nella specifica vicenda e comunque non tali da disarticolare l'interno costrutto motivazionale della sentenza impugnata. Infine, la motivazione della Corte di merito, anche mediante il richiamo di quella del Tribunale, risulta avere spiegato, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, risultano logicamente incompatibili con la decisione adottata. 2. Violazione ed erronea applicazione della L. n. 203 del 1991, art. 7 e vizio della motivazione. Si lamenta l'assenza da parte degli imputati dell'utilizzo di metodologie mafiose in danno della persona offesa e, in particolare, in capo alla ricorrente, la quale non aveva mai tenuto comportamenti sussumibili nell'alveo dell'art. 416-bis.1 c.p.; lo stesso imprenditore non aveva mai mostrato di trovarsi nei confronti dell'imputata in uno stato di assoggettamento e di omertà; la posizione della ricorrente non poteva essere assimilata a quella degli altri. Ai fini dell'integrazione del metodo si era fatto apoditticamente riferimento all'intimidazione silente finendo per rendere l'aggravante una mera sanzione di tipo ambientale. Nessuno scrutinio si era operato in punto di dolo da parte della ricorrente. Difettavano, altresì, elementi confermativi della finalità agevolatrice (batteria di S.- F.), essendo semmai l'interesse che muoveva L.M. e F.E. personale, la stessa p.o. aveva escluso che questi imputati facessero parte della criminalità organizzata, tanto che il F.E. aveva manifestato contrarietà una volta saputo che il fratello A. voleva intromettersi nel suo rapporto con il C.. 2. La censura è infondata. Nessuna apoditticità è ravvisabile nella sentenza impugnata per avere ricavato la minaccia estorsiva dall'intimidazione di carattere silente propria dei consessi di stampo mafioso. Lungi dal fare riferimento ad un generico ed indimostrato contesto ambientale, il giudice del merito ha tratto la circostanza, dapprima, mediante una ricostruzione di fatto che, sulla scorta di precedenti giudiziari ed elementi ricavati dal complesso investigativo ed intercettivo, ha dato conto dell'esistenza - nel territorio ove risulta avvenuta l'estorsione - di una vasta associazione mafiosa denominata (Omissis) di cui la batteria S.- F. costituisce una delle articolazioni operative e di cui i due coimputati F.E. e L.M. sono indicati essere autorevoli esponenti; poi, sulla scorta di puntuali evenienze ricavate dalle intercettazioni dei soggetti protagonisti dell'odierna vicenda, tra cui emblematiche risultano le captazioni della stessa parte lesa - che dà puntualmente conto dell'inquinamento del tessuto economico sociale conseguente alla presenza di tali articolazioni (vedi pagg. 12-15) e dell'inserimento, in tale contesto, dei correi della ricorrente - la sentenza impugnata ha dato atto di come il pagamento degli "emolumenti" fosse chiara conseguenza del timore dell'imprenditore di evitare le ripercussioni negative che sarebbero derivate alla sua sicurezza personale ed aziendale garantita dalla protezione mafiosa laddove non si fosse provveduto ad assecondare quanto veniva preteso. Del resto, le captazioni della parte lesa ed il chiaro comportamento reticente tenuto al processo danno ragionevolmente conto di come questa avesse ben chiara la portata prevaricatrice della pretesa, ascrivibile ad un consesso mafioso, piuttosto che all'agire di singoli. Sul tema, del resto, la Corte di legittimità ha affermato che in tema di estorsione cd. "ambientale", integra la circostanza aggravante del metodo mafioso, la condotta di chi, pur senza fare uso di una esplicita minaccia, pretenda dalla persona offesa il pagamento di somme di denaro per assicurarle protezione, in un territorio notoriamente soggetto all'influsso di consorterie mafiose, rilevando soltanto le modalità in sé della richiesta estorsiva, che, pur formalmente priva di contenuto minatorio, ben può manifestare un'energica carica intimidatoria - come tale percepita dalla vittima stessa - alla luce della sottoposizione del territorio in cui detta richiesta è formulata all'influsso di notorie consorterie mafiose (ex multis Sez. 2, n. 19742 20/05/2010, Pistolesi, Rv. 247117 - 01). Quanto poi al rilievo costituito dall'assenza in capo alla ricorrente di atti di violenza e minaccia, l'obiezione non tiene conto che nell'ambito del concorso di persone nel reato la condotta tipica può essere realizzata indifferentemente da taluno dei concorrenti; l'assenza di contropartite lecite alla fittizia assunzione e la provenienza qualificata dei due correi che muovono le fila dell'ordito illecito, dà ragionevolmente conto dell'esistenza di una situazione di ingiustizia "ambientale" che non poteva non essere oggetto di chiara rappresentazione ad opera dell'imputata. E tanto basta ad affermare la necessaria soggettività concorsuale dell'aggravante. Quanto all'agevolazione, la censura si fonda su un'alternativa di merito che risulta essere stata motivatamente esclusa dalle sentenze di merito che, invece, hanno ricondotto la costrizione subita dall'imprenditore anche all'esigenza di rafforzare la relativa cosca aumentando le sue finanze e comprovando il controllo sul territorio. Del resto, al riguardo la Corte di legittimità ha affermato che "il dolo specifico di agevolare l'organizzazione criminale di riferimento, non presuppone necessariamente l'intento del consolidamento o rafforzamento del sodalizio criminoso, essendo sufficiente l'agevolazione di qualsiasi attività esterna dell'associazione, anche se non coinvolgente la conservazione ed il perseguimento delle finalità ultime tipizzate dall'art. 416-bis c.p. (Sez. 6, n. 53691 del 17/10/2018, Rv. 274615 - 01). 3. Violazione ed erronea applicazione dell'art. 81 cpv. c.p. in relazione all'art. 629 c.p., dovendosi ritenere la condotta estorsiva frutto di un'unica azione e non di plurime condotte avvinte dal medesimo disegno criminoso, difettando la reiterazione delle necessarie plurime condotte di violenza e minaccia commesse per ottenere l'ingiusto profitto, nell'ambito, peraltro, di un'intimidazione definita silente, ascrivibile ad un'unica ed originaria minaccia. 3. Il motivo è fondato. Affinché possano essere integrate più fattispecie di estorsione è necessaria la reiterazione delle minacce o degli episodi di violenza a cui facciano seguito le dazioni. Occorre, pertanto, pur nell'unicità del fine, che le modalità di realizzazione della condotta appaiano dotate, anche sul piano del disvalore, di una propria completa individualità (Sez. 2, n. 37297 del 28/06/2019, C, Rv. n. 277513 - 01). Nel caso in esame, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, la pretesa estorsiva genera da un'intimidazione di carattere ambientale - qualificata come si/ente - proveniente dagli imputati, quali soggetti appartenenti e/o gravitanti nella locale consorteria criminale, che in ragione di tale diffusa condizione, costringono l'imprenditore ad assumere fittiziamente la loro moglie e sorella. L'assunzione risulta, infatti, diretta conseguenza del timore della vittima delle ripercussioni negative alla propria incolumità e alla sicurezza della sua azienda garantita dalla protezione mafiosa. Oggetto della pretesa estorsiva e', dunque, la sottoscrizione del rapporto di lavoro che reca fisiologicamente in sé le plurime dazioni di denaro che si rappresentano da subito, sia agli agenti che alla persona offesa, quale conseguenza "forzata" e naturale della concludenza dell'unica condotta estorsiva. A nulla vale, pertanto, richiamare - come ha fatto la Corte territoriale a pag. 38 l'individualità delle mensilità stipendiali percepite dalla F.L., in ragione anche dei possibili conguagli fiscali ecc. Al di là della natura fittizia del rapporto e dell'assenza di causali lecite sottostanti alle erogazioni periodiche, a seguire il ragionamento svolto dalla sentenza impugnata potrebbe tutt'al più configurarsi un'ipotesi di estorsione a consumazione prolungata, mutuandosi i principi dettati da questa Corte in tema di frode in danno di enti previdenziali per ricezione indebita di emolumenti periodici, laddove è configurabile il reato di truffa c.d. a consumazione prolungata quando le erogazioni pubbliche, a versamento rateizzato, siano riconducibili ad un originario ed unico comportamento fraudolento, mentre si configurano plurimi ed autonomi fatti di reato quando, per il conseguimento delle erogazioni successive alla prima, sia necessario il compimento di ulteriori attività fraudolente; ne consegue che, ai fini della prescrizione, nella prima ipotesi il relativo termine decorre dalla percezione dell'ultima rata di finanziamento, in quanto il reato va considerato, anche quoad poenam, unico, mentre nella seconda dalla consumazione dei singoli fatti illeciti (Sez. 2, n. 53667 del 02/12/2016, Bellucci, Rv. 269381 - 01). 4. Violazione ed erronea applicazione degli artt. 62-bis, 81 e 133 c.p. e vizio di motivazione. 4.1. La censura attiene al mancato riconoscimento del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche e alla determinazione della pena in senso più favorevole per la ricorrente, stante la diversità della sua posizione rispetto a quella degli altri coimputati, gravati da elementi di reità superiori, nonché da recidiva (in favore dei quali si era operato il giudizio di equivalenza). 4.2. Peraltro, a fondamento del trattamento sanzionatorio - in peius rispetto a quello inflitto dal Tribunale stante l'accoglimento sul punto dell'appello del P.M. - si era evocata la negazione dei fatti ad opera dell'imputata, in contrasto con il principio nemo se detegere potest. 4.3. Privo di motivazione era stato, poi, l'aumento della pena (altri mesi sei) a titolo di continuazione, facendosi generico richiamo agli indici di cui agli artt. 133 e 133-bis c.p. senza indicarne nemmeno uno. 4. Le doglianze in tema di trattamento sanzionatorio risultano manifestamente infondate. 4.1. In tema di concorso di circostanze, va ribadito che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra aggravanti ed attenuanti sono censurabili in sede di legittimità soltanto nell'ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di un ragionamento illogico e non anche qualora risulti sufficientemente motivata la soluzione dell'equivalenza (Sez. 5, n. 5579 del 26/09/2013, dep. 2014, Sulo, 258874 - 01). 4.2. Quanto alla preclusione per il giudice del merito di ricavare elementi ostativi ai fini circostanziali dal comportamento processuale dell'imputato, la Corte di legittimità ha affermato che la condotta processuale dell'imputato che mantenga un atteggiamento "non collaborativo" può giustificare il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. (In motivazione, la S.C. ha osservato che se l'esercizio del diritto di difesa rende, per scelta del legislatore, non penalmente perseguibili dichiarazioni false rese a propria difesa dall'imputato, ciò non equivale affatto a rendere quel tipo di dichiarazioni irrilevanti per la valutazione giudiziale del comportamento tenuto durante lo svolgimento del processo, agli effetti e nei limiti di cui all'art. 133 c.p.).(Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Rv. 270339 - 01). 4.3. Il motivo è inammissibile per carenza di interesse stante la fondatezza di quello dedotto sub 3 sull'unicità del delitto estorsivo. 5. In conclusione, va annullata senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di F.L. limitatamente all'aumento di pena di anni uno di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa complessivamente disposto per la continuazione interna (nella misura di mesi sei di reclusione ed Euro 500,00 di multa dal Tribunale (v. pag. 83) e nell'ulteriore misura di mesi sei di reclusione ed Euro 700,00 di multa dalla Corte d'appello in conseguenza dell'impugnazione del P.M., sull'originaria pena base di anni cinque di reclusione ed Euro 2.500,00 di multa)) che deve essere eliminato. Va, invece, rigettato il ricorso nel resto. Ricorso di L.M. (capo A), artt. 110,81 cpv. c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2 in relazione all'art. 628 c.p., comma 2, nn. 1 e 3, L. n. 203 del 1991, art. 7). 1. Inosservanza dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. a), artt. 179 c.p.p., art. 33 c.p.p., D.Lgs. n. 116 del 2017, artt. 11 e 12 e art. 3 Cost.. Si reitera l'eccezione di nullità della sentenza di primo grado per avere partecipato al giudizio e concorso a deliberare la sentenza un giudice onorario di pace (all'istruttoria dibattimentale aveva parzialmente partecipato anche altri due g.o.t.), in violazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 117 del 2017, art. 12 e art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), n. 2) e n. 3). 1. Il motivo è infondato per le ragioni già esposte a proposito dell'analoga censura fatta valere dalla difesa di F.A.. 2. Violazione di legge ex artt. 521, 522 c.p.p., art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., commi 1 e 2; art. 111 Cost., artt. 110-629 c.p. e L. n. 203 del 1991, art. 7; art. 175 c.p.p., art. 606 c.p.p., lett. e) per omessa motivazione. Si denuncia la violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, in quanto al ricorrente viene contestata una condotta di tipo materiale, di minaccia profferita nel 2008; posto che successive minacce estorsive dal medesimo non possono essere state materialmente profferite a cagione dello stato di detenzione in cui si trovava, si era dunque asseverato un concorso morale, diverso da quello contestato. Peraltro, la minaccia descritta nel capo di imputazione era databile nel 2014 e non poteva essere ascritta all'imputato. Ne' allo stesso poteva ricondursi la minaccia ambientale in difetto di contatti in quel periodo con la vittima del reato. 2. La censura è manifestamente infondata. La Corte di legittimità ha precisato che non sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l'imputato, cui sia stato contestato di essere l'autore materiale del fatto, sia riconosciuto responsabile a titolo di concorso morale, giacché tale modifica non comporta una trasformazione essenziale del fatto addebitato, né può provocare menomazioni del diritto di difesa, ponendosi in rapporto di continenza e non di eterogeneità rispetto alla originaria contestazione (Sez. 2, n. 12207 del 17/03/2015, Rv. 263017 - 01). Tanto più nel caso in esame, ove la contestazione abbraccia un arco temporale in cui l'imputato non era ancora detenuto (da giugno 2008 ad almeno maggio 2014). La circostanza, poi, che l'istruttoria, a detta del ricorrente, abbia collocato nel 2014 la materiale minaccia alla parte lesa, di talché egli, essendo detenuto, ne sarebbe chiamato a rispondere a titolo di concorso morale, costituisce, semmai, questione di merito che non involge la ritualità della contestazione, di carattere più ampio ed omnicomprensivo per come è dato ricavarsi dalla lettura del relativo capo. 3. Violazione di legge, vizio di motivazione e travisamento della prova in ordine alla prova della minaccia estorsiva, anche nella forma ambientale. La censura attiene alla insussistenza della minaccia integrativa del delitto estorsivo, in difetto di qualsiasi prospettazione di un male ingiusto ad opera del ricorrente. Il reato era stato illogicamente ricavato dalla mera affermazione della sussistenza di un rapporto di lavoro fittizio attivato in favore del coniuge, facendone poi discendere il coinvolgimento del ricorrente su una presunta consapevolezza della illiceità della dazione in ragione della sua caratura criminale. Dalle evenienze istruttorie si ricava poi che la F.L. lavorava presso l'azienda del C. ancor prima che fosse ipotizzabile qualunque minaccia, in un tempo precedente a quello indicato in imputazione (sin da aprile 2008 a tempo indeterminato) e del presunto incontro che vi sarebbe stato tra il ricorrente e la parte lesa. Peraltro, a conferma dell'assenza della minaccia si evidenzia come fosse stato proprio l'imprenditore a proporsi, costituendo l'assunzione un espediente per un tornaconto personale. 3. Il motivo è manifestamente infondato in quanto volto a prefigurare una rivalutazione e/o alternativa rilettura delle fonti probatorie, estranee al sindacato di legittimità e avulse da pertinente individuazione di specifici travisamenti di emergenze processuali valorizzate dai giudici di merito. In particolare, quanto alla condizione di detenuto che escluderebbe il rilievo della sua compartecipazione al delitto estorsivo, in realtà l'imputato è stato condannato quale concorrente nel reato e, pertanto, non rileva se abbia direttamente compiuto uno o più atti integrativi dell'azione criminosa, essendo sufficiente che l'agente abbia concordato con i correi il compimento dell'azione illecita. La previa intesa alla commissione del reato - la cui origine è comunque temporalmente collocata dal giudice del merito ben prima del sopravvenuto stato di detenzione del ricorrente - emerge dalla sua condizione di marito della dipendente falsamente assunta e di cognato dei F., nonché di soggetto beneficiario del tandundem estorsivo e di appartenente all'omonima consorteria alla quale si deve l'estorsione, volta anche a finanziare la cosca di appartenenza, al fine di riaffermare il controllo sul territorio e sul tessuto economico imprenditoriale ivi insistente. Ne' è ipotizzabile, quanto al coinvolgimento del ricorrente nei fatti e all'elemento psicologico, che quanto accaduto fosse avvenuto a sua insaputa o che egli non se ne avvantaggiasse, atteso che le sentenze di merito hanno al riguardo sottolineato: - è del tutto inimmaginabile che entrate così cospicue a beneficio della moglie - pari a quelle dello svolgimento di un lavoro - potessero essere ignorate dal ricorrente; - in orario lavorativo incompatibile con la prestazione da eseguire la moglie si trovava spesso in carcere in visita ove era ristretto; - la minaccia era desumibile dalla provenienza da un ambiente ben determinato e a favore di soggetti di elevata caratura criminale ed appartenenti a contesti di criminalità organizzata; - sono applicabili i principi generali in tema di "estorsione ambientale" per la protezione in aree connotate da fenomeni criminali organizzati, diffusi e capillari; dalle intercettazioni si desume chiaramente la causale dei pagamenti relativi alla fittizia assunzione della moglie per conservare "buoni rapporti di amicizia"; - i pagamenti erano diretti al ricorrente - detenuto in carcere - senza passare per intermediari anche per il rispetto dovuto ai F.; - il pagamento era funzionale alla protezione mafiosa di C. da atti di intimidazione mafiosa o da minacce provenienti da batterie mafiose; - il pagamento dello stipendio alla moglie del ricorrente per il fittizio rapporto di lavoro è equiparato agli altri pagamenti a favore dei F.; - la natura apparente del rapporto di lavoro è desumibile anche dai dialoghi nei quali si cerca una copertura in caso di controlli e si escogita la "giustificazione dello svolgimento di servizi esterni". A ciò si aggiunge quanto specificamente evidenziato dalle sentenze di merito riguardo la posizione della moglie F.L., dovendo escludersi "atti di liberalità" o "rapporti di natura paritaria" tra le parti, posto che la prestazione lavorativa si è protratta per un periodo non breve. La natura "non paritaria" del rapporto si evince dai dialoghi captati in cui l'imprenditore C., dovendo licenziare F.L., teme il momento in cui avrebbe dovuto affrontare la questione con i parenti della donna ed avrebbe dovuto comunicare tale determinazione, che contraddice logicamente l'esistenza di un rapporto paritario e l'esistenza di un atto di liberalità. 4. Violazione degli artt. 110-629 c.p. in relazione alla coartazione della vittima. Difettava la coartazione della vittima, se non al termine della vicenda allorché il ricorrente si trovava detenuto, per come asseverato dalla sentenza di primo grado (p. 68). Di conseguenza, anche laddove il ricorrente fosse stato il beneficiario delle somme - in realtà destinate alla moglie - non potrebbe assumere la veste di concorrente in assenza della condotta tipica, reciuts della conoscenza, anche unilaterale, della condotta altrui da parte di ciascun correo. Del resto (nel successivo motivo) a conferma dell'esclusione del coinvolgimento del ricorrente al momento in cui il C. avrebbe preso cognizione di essere coartato (nel 2014) non militava soltanto la sua detenzione, ma anche la circostanza che, allorquando emerge la possibilità per l'imprenditore di entrare nel consorzio Nuova Italia per pagare i gruppi criminali contrapposti, C. si pone il problema della reazione del F.E. e non di L.M. (a quest'ultimo va spiegato il licenziamento della moglie, ma si tratta di un fatto privato non dovuto alle logiche estorsive (ma derivato dal fatto che il pagamento della tangente al Consorzio deve essere scontato da qualcuno con riduzione dei costi). Ciò testimonia che l'assunzione della F. è estranea a logiche estorsive, bensì dovuta ad un fatto privato stante l'amicizia tra il C. ed il ricorrente. 4. La censura è infondata per quanto osservato al precedente motivo in ordine al coinvolgimento concorsuale del ricorrente e all'assenza di rilievo del suo sopravvenuto stato detentivo, nonché in ragione della natura ambientale dell'estorsione commessa. Peraltro, l'assenza di una causale iniziale lecita ascrivibile al rapporto di amicizia è ben confutata dalle sentenze di merito le quali, richiamando sul punto il compendio intercettivo e, in particolare quello relativo ai dialoghi captati dell'imprenditore ne hanno invece tratto - con interpretazione non affatto illogica e in relazione alla quale nel ricorso si finisce per propugnare una lettura alternativa non consentita in questa sede - che tale rapporto fosse invece inquinato proprio dal rapporto di supremazia svolto dal ricorrente ed i F. quali appartenenti alla consorteria locale, per come comprovato anche dalla reiterata reticenza della parte lesa non solo a denunciare i fatti, ma a fornire una versione della vicenda che collimasse con quanto dallo stesso riferito nel corso dei dialoghi intercettati. 5. Violazione di legge e vizio di motivazione e travisamento della prova rispetto ad atti del processo relativi alla prova della coartazione della vittima. Si richiamano gli elementi - soprattutto ricavati dal contenuto del compendio intercettivo - da cui si evince, secondo la prospettazione difensiva, l'assenza di coartazione della p.o. nella libertà di autodeterminazione, né a seguito della minaccia dell'imputato, né della cappa di condizionamento che si pretende derivi dalla mafia foggiana. In particolare, si evidenzia come il C., lungi dall'essere sussunto nell'alveo della figura dell'imprenditore estorto, in realtà si ascrivibile a quella dell'imprenditore colluso o meglio spregiudicato. Si tratta, quindi, anche in ragione del rapporto di amicizia che lega il C. a F.E., di un do ut des, assunzioni a fronte di favori. 5. A corredo dell'infondatezza della doglianza può richiamarsi quanto osservato nei precedenti motivi. A ciò può aggiungersi che manca nel processo una prova che dia conto dei "favori" che l'imprenditore riceveva dal duo L.- F. che, a detta della difesa, ne caratterizzerebbero la figura di "colluso" e non di estorto. Pertanto, la conclusione del giudice del merito che si tratti della usuale protezione da danni non è manifestamente illogica e risulta aderente comunque alle fonti di prova declinate dal Tribunale e dalla Corte di appello, essendosi anche fatto riferimento, sulla scorta di giudicati, precedenti ed esiti giudiziari aventi anche carattere individualizzante, al contesto territoriale e di fatto in cui si svolge la vicenda, quale substrato logico e fattuale di necessario riferimento. Quanto, poi, alla doglianza con cui la difesa censura, sotto il profilo del travisamento, le risultanze interpretative del contenuto delle intercettazioni, si tratta, in realtà, di un aspetto che attiene alla valutazione della prova che la Corte di merito risulta avere correttamente svolto in ossequio anche ai canoni probatori a mente dei quali gli indizi raccolti nel corso di conversazioni telefoniche intercettate, a cui non abbia partecipato l'imputato, possono costituire fonte diretta di prova, senza necessità di reperire riscontri esterni, a condizione che siano gravi, precisi e concordanti (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Rv. 263714 - 01). In motivazione, i giudici di merito (vedi anche sentenza del Tribunale) hanno precisato che il contenuto delle conversazioni è chiaro, avendone anche trascritto i brani significativi; che non vi è dubbio che gli interlocutori si riferiscano anche all'imputato; che non vi sia alcun motivo per ritenere che parlino non seriamente degli affari illeciti trattati; che non vi sia alcuna ragione per ritenere che l'imprenditore riferisca il falso. 6. Violazione di legge, vizio di motivazione e travisamento della prova rispetto ad altri atti del processo relativi alla prova della non fittizietà del rapporto di lavoro. Si censura la portata dimostrativa degli elementi di prova - criticamente passati in rassegna dal ricorrente (compendio intercettivo, esito dei servizi di osservazione) - da cui il giudice del merito ha tratto la fittizietà del rapporto di impiego della F.L.. 6. Il motivo è manifestamente infondato, in quanto anche sotto tale profilo il dedotto travisamento attiene al contenuto delle intercettazioni dalle quali - anche expressis verbis - è stata dedotta l'inesistenza del rapporto e non all'uso di un'informazione inesistente. E tanto a prescindere anche dal contenuto degli accertamenti di polizia giudiziaria svolti e richiamati dal giudice del merito a corredo della fittizietà del rapporto di lavoro instaurato tra l'imprenditore C. con la moglie del ricorrente. 7. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di un'estorsione continuata, ravvisabile in ciascuna delle dazioni di denaro, anziché di un'unica fattispecie. 7. Il motivo è fondato per le ragioni esposte a proposito del motivo comune svolto nel ricorso della coimputata F.L. (vedi sub 3). 8. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell'aggravante della recidiva. La censura attiene alla portata di disvalore anche in punto di attualità dei precedenti annoverati dal ricorrente ed alla motivazione resa in ordine alla maggiore pericolosità derivante dalla commissione del reato de quo. 8. Il motivo è manifestamente infondato rinvenendo la mancata esclusione della recidiva adeguata motivazione, essendosi dato conto del fatto che la condotta costituisce significativa prosecuzione di un processo delinquenziale già avviato: nel caso in esame, infatti, si è sottolineato come il reato commesso sia espressione, per modalità e contesto ed i precedenti penali specifici annoverati, di un giudizio di maggiore gravità in termini sia di maggiore intensità di colpevolezza che di pericolosità sociale, nell'ambito di un percorso criminale non definitivamente interrotto. Tanto basta a ritenere assolto l'onere di motivazione e ad escludere qualsiasi paventata violazione di legge. 9. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'aggravante delle più persone riunite. 9. Il motivo è fondato. Ai fini dell'integrazione della circostanza è necessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed al momento in cui si realizza la violenza o minaccia, non essendo sufficiente che il soggetto passivo percepisca che la violenza o la minaccia provengano da più persone (Sez. U, n. 21837 del 29/03/2012, Alberti, Rv. 252518 - 01). Il fatto che si tratti di estorsione ambientale e che la vittima abbia chiaramente percepito la provenienza da consessi mafiosi della minaccia rileva certamente ai fini dell'integrazione dell'aggravante speciale del metodo, ma non basta ai fini di quella in contestazione, in cui l'aumento di pena si lega proprio al disvalore legato alla compresenza dei correi al momento della condotta. Ne' a tal fine può valorizzarsi l'incontro tenutosi presso l'abitazione del F., a cui era presente il ricorrente e la vittima, in quanto, al di là dell'assenza di specifici riferimenti alla condotta minacciosa, si tratta di circostanza riferita dalla C. ritenuta inutilizzabile dalla stessa Corte d'appello. Ne', parimenti, può farsi riferimento al fatto che le somme venivano pagate direttamente alla F.L., moglie dell'imputato e sorella del concorrente F.E., con la conseguenza che "sarebbe pertanto facile comprendere che, allorché l'imputato si trovava in carcere, la notizia di una sospensione dei pagamenti, a cui propendeva la persona offesa, sarebbe pervenuta ai concorrenti". La dazione di somme di denaro alla F. costituisce, per l'unicità di fine e la genesi della minaccia, l'evento del reato, che va collegato alla prima ricezione del fittizio stipendio, mentre per le successive si è al cospetto di un post factum non punibile. 10. violazione di legge in relazione all'art. 628 c.p., comma 2, n. 3 e vizio di motivazione in ordine alla realizzazione del fatto con persone che fanno parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis c.p.. 10. La censura è manifestamente infondata. Il giudice del merito ha asseverato che l'elargizione patrimoniale effettuata al ricorrente non può disgiungersi dai pagamenti effettuati a F.E. e A., quali esponenti di rilievo del clan F.- S., nell'ambito di un condizionamento estorsivo di tipo ambientale. Pertanto, nel caso in esame, vale il principio di diritto affermato dalla Corte di legittimità secondo cui, in tema di estorsione, la circostanza aggravante della commissione del fatto ad opera di un partecipe all'associazione di tipo mafioso non richiede che tutti gli agenti rivestano tale qualità, in quanto a seguito della sostituzione del testo dell'art. 118 c.p. ad opera della L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 3, al concorrente non si comunicano più le circostanze soggettive concernenti i motivi a delinquere, l'intensità del dolo, il grado della colpa e quelle relative all'imputabilità ed alla recidiva, ma sono ancora valutato riguardo a lui le altre circostanze soggettive indicate dall'art. 70 c.p., comma 1, n. 2, cioè quelle attinenti alle qualità personali del colpevole (Sez. 1, n. 5639 del 03/11/2005, dep. 2006, Rv. 233839 - 01; Sez. 6, n. 41514 del 25/09/2012, Rv. 253807 - 01). 11. Violazione di legge in relazione alla sussistenza dell'aggravante del metodo mafioso. Per un verso la condotta estorsiva era priva dei connotati caratterizzanti la circostanza, per altro in assenza di ricorso, ad opera del ricorrente, di un atteggiamento di siffatta gravità (nell'unico incontro avuto unitamente al F. con la persona offesa nessuno aveva ostentato l'appartenenza a consessi mafiosi o rivolto minacce, successivamente il ricorrente era detenuto). 12. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza della finalità di agevolazione mafiosa. Si lamenta l'insussistenza dei presupposti per l'ipotizzabilità e comunicabilità della circostanza a carico del ricorrente, posto che l'assunzione della F.L. non aveva portato denari alla cosca, ma vantaggi esclusivamente rispetto al singolo presunto sodale, con la conseguenza che il fine di profitto era personale. 11-12. I motivi sono manifestamente infondati in quanto si risolvono in un'alternativa di merito secondo cui il rapporto di lavoro, seppur fittizio, originerebbe dai rapporti di amicizia intrattenuti tra il ricorrente e la persona offesa, motivatamente esclusi dalla Corte territoriale. Nel caso di specie, a fronte della fittizia assunzione e del versamento di una retribuzione non dovuta, ma necessaria per ottenere la protezione in un contesto territoriale ad alta densità mafiosa, sono stati applicati correttamente i principi giurisprudenziali secondo cui: - in tema di estorsione cd. "ambientale", integra la circostanza aggravante del metodo mafioso (art. 416-bis.1 c.p.), la condotta di chi, pur senza fare uso di una esplicita minaccia, pretenda dalla persona offesa il pagamento di somme di denaro per assicurarle protezione, in un territorio notoriamente soggetto all'influsso di consorterie mafiose, senza che sia necessario che la vittima conosca l'estorsore e la sua appartenenza ad un clan determinato (Sez. 2, n. 21707 del 17/04/2019, Rv. 276115). - ricorre la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis.1 c.p. dell'agevolazione mafiosa "la continuativa erogazione di danaro a una consorteria di tal tipo da parte di un imprenditore sia finalizzata a ottenere "protezione" e sostegno nell'acquisizione di commesse economiche" (Sez. 3, n. 23335 del 28/01/2021, Rv. 281589). 13. Violazione degli artt. 3 e 27 Cost., in relazione all'art. 81 c.p., comma 4, nella parte in cui prevede l'aumento di pena fissa ed obbligatoria in caso di recidiva reiterata. 13.1. Violazione degli artt. 3,25 Cost., art. 27 Cost., commi 1 e 3, in relazione all'art. 69 c.p., u.c., nella parte in cui preclude il giudizio di prevalenza delle attenuanti rispetto alla recidiva di cui all'art. 99 c.p., comma 4. 13. Il motivo è inammissibile per carenza interesse. Dal calcolo della pena operato dal Tribunale di Foggia (v. pagg. 81-82) risulta che non sia stato apportato alcun aumento per la recidiva, ma tale circostanza è stata "neutralizzata", al pari delle aggravanti della rapina, con le attenuanti generiche, a cui è correttamente conseguito l'aumento (uno solo peraltro) per le aggravanti speciali D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, neutralizzate di nuovo con le attenuanti generiche e fissandosi una pena base di anni 7 di reclusione a cui è stato applicato l'aumento v art. 81 cpv. c.p. di mesi sei per la continuazione interna del delitto estorsivo. La Corte d'appello non ha toccato la pena base di anni 7 di reclusione (che, come evidenziato, non contiene alcun aumento per la recidiva) ma ha valutato l'aggravante - in aderenza all'appello del PG - ai fini del nuovo aumento per la continuazione ex art. 81 c.p., comma 4. Essendo, però venuto meno, a seguito dell'unicità del delitto estorsivo, l'aumento per la continuazione (che a seguito dell'annullamento pronunciato da questa Corte va eliminato), viene meno l'interesse del ricorrente a far valere la doglianza. 13.1. L'eccezione è manifestamente infondata. In tema di recidiva, la Corte di legittimità ha ripetutamente affermato: - che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 99 c.p., comma 4, nella parte in cui stabilisce aumenti di pena in misura fissa per la recidiva reiterata, in riferimento all'art. 3 Cost., in quanto si tratta di opzione sanzionatoria rientrante nella discrezionalità del legislatore e non manifestamente irragionevole, siccome insuscettibile di produrre "ex se" sperequazioni prive di "ratio" giustificativa nel trattamento di situazioni omogenee, e in riferimento agli artt. 25 e 27 Cost., per incompatibilità con i principi di gradualità e finalismo rieducativo, poiché la tendenziale contrarietà delle pene fisse al "volto costituzionale" dell'illecito penale va riferita alle pene fisse nel loro complesso e non anche ai trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide ed articolazioni elastiche, in maniera tale da lasciare comunque adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, ai fini dell'adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete (Sez. 6, n. 8291 del 10/02/2022, Castrofilippo, Rv. 282910 - 01); - che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3,25 e 27 Cost., dell'art. 69 c.p., comma 4, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alla recidiva reiterata ex art. 99 c.p., comma 4, in quanto tale deroga alla ordinaria disciplina del bilanciamento si riferisce ad una circostanza attenuante comune e la sua applicazione, quindi, non determina una manifesta sproporzione del trattamento sanzionatorio, ma si limita a valorizzare, in misura contenuta, la componente soggettiva del reato, qualificata dalla plurima ricaduta del reo in condotte trasgressive di precetti penalmente sanzionati (Sez. 6, n. 16487, del 23/03/2017, Giordano, Rv. 269522 - 01). 14. Violazione di legge in relazione all'art. 240-bis c.p. e vizio di motivazione in ordine alla giustificazione dell'acquisto del bene in confisca. Si lamenta l'assenza dei presupposti della confisca di "sproporzione" sia in ragione della mancanza di nesso temporale con il periodo in cui si è manifestata la pericolosità (conclusasi nel 2014 a fronte di un acquisto del 05/02/2016) sia in ragione dell'esistenza di risorse lecite destinate a far fronte all'acquisto del bene (vendita di una precedente auto e finanziamento) sia, infine, sulla scorta della capacità reddituale del nucleo familiare L.- F.. 14. Il motivo è fondato. Per quanto precisato dalla stessa sentenza impugnata l'acquisto del veicolo è avvenuto al di fuori del "periodo spia" (di due anni). Di conseguenza, se è certamente corretto avere escluso dal compendio patrimoniale e finanziario giustificativo dell'acquisto le somme di cui il nucleo familiare L.M. e F.L. ha illegittimamente beneficiato in virtù del fittizio rapporto di lavoro instaurato a vantaggio della seconda, occorreva, proprio in ragione della dilatazione temporale tra condotta criminosa e momento successivo dell'acquisto, soffermarsi compiutamente sulla valenza delle fonti di prova addotte dalla difesa a giustificare l'acquisto - avvenuto nel periodo di pericolosità - dell'auto la cui successiva permuta ha consentito di far fronte, in tutto o in parte, all'acquisto del veicolo poi sequestrato. Invero, la difesa, con l'atto di appello, risulta avere indicato la percezione in capo al nucleo familiare di somme derivanti da risarcimenti assicurativi, da reddito di inserimento e da altre fonti lecite sulla cui possibile rilevanza giustificativa la motivazione della sentenza impugnata non risulta essersi compiutamente soffermata. 15. In conclusione: - va annullata senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all'aumento di pena (pari ad anni due e mesi dieci di reclusione ed Euro 1.100,00 di multa) per la continuazione interna che va eliminato, nonché in relazione alla ritenuta sussistenza dell'aggravante delle più persone riunite (oggetto di bilanciamento); - va annullata, altresì, la sentenza impugnata limitatamente alla misura di sicurezza della confisca con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Bari per nuovo giudizio sul punto e per la rideterminazione della pena in conseguenza dell'annullamento del trattamento sanzionatorio sopra evidenziato; - va rigettato nel resto il ricorso e dichiarata irrevocabile l'affermazione di responsabilità dell'imputato. Ricorso del P.G. presso la Corte di appello di Bari (nei confronti di L.L. e L.V. assolti dai reati di estorsione aggravata ex art. 416-bis.1 c.p., loro rispettivamente ascritti ai capi D) ed E) della rubrica). Al riguardo, deduce il vizio di motivazione, essendo la Corte di merito pervenuta ad un ribaltamento della condanna inflitta dal Tribunale mediante una lettura parcellizzata del materiale probatorio valorizzato dal primo giudice, omettendo di confrontarsi con tutte le argomentazioni poste a fondamento di quella decisione. 1. Il ricorso non è fondato. Invero, dalla lettura della sentenza impugnata risulta che la Corte di merito, pur ricorrendo ad una motivazione sintetica, è comunque pervenuta ad un ribaltamento dell'affermazione di colpevolezza degli imputati sulla scorta di una ricognizione delle fonti di prova in forza delle quali se ne era affermato il coinvolgimento rispettivamente nelle estorsioni rubricate ai capi D) ed E) dell'imputazione. In particolare, l'assoluzione dei due ricorrenti, conseguente alla differente lettura operata dalla Corte territoriale, non si pone in termini distonici rispetto alla ricostruzione del fenomeno estorsivo delineato con riguardo ai capi A) ed E), in quanto il ribaltamento si fonda su un giudizio attinente alla mancanza di univocità degli elementi di prova relativi alla fittizietà del rapporto di lavoro sottostante, quale necessario presupposto dimostrativo dell'ipotesi estorsiva di cui al capo D) e all'avvenuta consegna della somma pretesa in favore dell'imputato, con riguardo all'ipotesi estorsiva di cui al capo E). Del resto, l'esistenza del condizionamento ambientale e di una posizione subalterna dell'imprenditore rispetto alla cosca locale, non può ritenersi, in assenza di prova certa della fittizietà del rapporto di lavoro o dell'erogazione che si sostiene imposta, sufficiente ad asseverare l'ipotesi estorsiva, proprio perché l'erogazione sine causa costituisce l'ingiusto profitto dei reati, con conseguente danno patrimoniale per l'imprenditore. Ne' questa Corte può procedere ad una rilettura degli elementi di prova e, in particolare del compendio intercettivo, trattandosi di profili di esclusiva competenza del giudice del merito e non ravvisandosi manifeste illogicità nella interpretazione dei dialoghi effettuate dalla Corte territoriale. Del resto, nel giudizio di appello, la Corte di legittimità ha affermato che, in caso di diversa valutazione del materiale probatorio in primo grado ritenuto idoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, per la riforma della sentenza non occorre che la motivazione esprima una forza persuasiva superiore, ma è sufficiente che la diversa valutazione sia dotata di pari o addirittura minore plausibilità di quella operata dal primo giudice, perché l'assoluzione a differenza della condanna non presuppone la certezza dell'innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza (Sez. 4, n. 14194 del 18/03/2021, Sisti, Rv. 281016 02; Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv. 251066; Sez. 5, n. 35261 del 6/04/2017, Lento, Rv. 270721; Sez. 5, n. 2499 del 15/11/2016, dep. 2017, Vizza, Rv. 269073; Sez. 3, n. 46455 del 17/02/2017, M., Rv. 271110; Sez. 5, n. 46061 dell'08/09/2022, non mass.). P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di F.L. limitatamente all'aumento di pena per la continuazione interna che elimina. Rigetta il ricorso nel resto. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di L.M. limitatamente all'aumento di pena per la continuazione interna ed alla sussistenza dell'aggravante delle più persone riunite che elimina. Annulla, altresì, la sentenza impugnata nei confronti di L.M. limitatamente alla confisca con rinvio ad altra sezione della Corte di appello Bari per nuovo giudizio sul punto e per la rideterminazione della pena. Rigetta nel resto il ricorso e dichiara irrevocabile l'affermazione di responsabilità di L.M.. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di F.A. limitatamente all'aumento disposto a titolo di continuazione per il reato di cui al capo B) della rubrica, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Bari per nuovo giudizio sul punto. Rigetta nel resto il ricorso e dichiara irrevocabile l'affermazione di responsabilità. Rigetta il ricorso di P.M.M. che condanna al pagamento delle spese processuali. Rigetta il ricorso del Procuratore generale. Così deciso in Roma, il 17 febbraio 2023. Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2023
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