RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 30 gennaio 2023, la Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza del 21 dicembre 2021, con la quale il Tribunale di Monza ha condannato B.A. alla pena di anni 2 di reclusione in relazione ai reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, per avere, nella sua qualità di rappresentante legale della P.A.K.A s.r.l. a socio unico, al fine di evadere l'IVA, indicato nella dichiarazione presentata per l'anno di imposta 2014, relativa a detta imposta operazioni imponibili riferibili ad acquisti intracomunitari effettuati da società di diritto polacco, per un ammontare inferiore a quello effettivo con conseguente maggiore IVA dovuta per Euro 427.503,00 in (Omissis).
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso per Cassazione l'Avv. D'Addea Alessandro, difensore di fiducia di B.A., e ne ha chiesto l'annullamento per i seguenti motivi.
2.1. Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità all' art. 606 c.p.p., lett. c), per avere la Corte d'appello ritenuto l'imputato a conoscenza del processo, basandosi sull'avvenuto perfezionamento delle notifiche all'indirizzo estero di quest'ultimo, in base alla disciplina dell'irreperibilità, che sarebbe del tutto inconferente rispetto all'esigenza di accertare la volontà dell'imputato di sottrarsi al processo, che sarebbe stata dedotta in modo apodittico. Deduce, in premessa, il difensore che, in ogni caso, per l'applicazione dell'art. 581-quater, che impone al difensore il deposito del mandato ad impugnare rilasciato dopo la pronuncia della sentenza, non dovrebbe essere applicata al ricorso in esame, trovando tale regola il proprio presupposto nella nuova disciplina della dichiarazione di assenza, prevista dalla nuova formulazione dell'art. 420-bis c.p.p..
2.2. Errata applicazione della legge penale in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. e), per avere la Corte d'appello ritenuto sussistente l'elemento soggettivo del reato, basandosi sulla posizione di amministratore del ricorrente, senza aver considerato che si tratta di soggetto straniero, residente all'estero, divenuto rappresentante legale dell'impresa durante il periodo delle ferie estive, ovvero appena un mese e mezzo prima del deposito della dichiarazione, e, inoltre, che mai si era occupato di contabilità, che veniva invece gestita da altro soggetto.
3. Il PG, con requisitoria scritta depositata telematicamente in data (Omissis), ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso. Secondo il PG, il ricorso è inammissibile per genericità e perché manifestamente infondato. E' anzitutto affetto da genericità per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi motivazionali le identiche doglianze difensive svolte nel motivo di appello (che, vengono, per così dire "replicate" in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elemento di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849). Lo stesso è inoltre da ritenersi proposto per motivi non consentiti dalla legge, in quanto non scanditi da necessaria critica analisi delle argomentazioni poste a base della decisione impugnata, risolvendosi invero in una critica sterile e non argomentata delle ragioni per le quali la sentenza sarebbe affetta dai dedotti vizi. Ed invero, dall'esame congiunto delle sentenze di primo grado e di appello (che, com'e' noto si integrano reciprocamente: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 -dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), risulta palese la manifesta infondatezza di entrambi i motivi, atteso che la Corte d'appello, con percorso argomentativo immune da vizi logici, indica nell'impugnata sentenza le ragioni per le quali ha ritenuto, da un lato, di dover escludere la fondatezza della tesi difensiva circa la nullità del decreto di citazione a giudizio per mancata conoscenza del processo e per l'assenza del dolo in capo all'imputato. Ed invero, quanto al primo motivo, i giudici di appello, nel rispondere all'argomentazione difensiva si conformano correttamente alla giurisprudenza di legittimità, Difatti, nella specie, le notifiche di avviso ex art. 415-bis c.p.p. e del decreto di citazione a giudizio risultano compiute ex art. 169 c.p.p., comma 1, presso il difensore d'ufficio dell'imputato, il quale, residente all'estero in luogo certo, non ha ritirato la raccomandata contenente l'invito prescritto dalla ridetta norma, restituita con la dicitura "pas reclame". Si è stabilita la non possibilità di dedurre l'irreperibilità dell'imputato che residente o dimorante all'estero in luogo certo, che rifiuti di ricevere la raccomandata con avviso di ricevimento, contenente l'informazione sull'addebito e l'invito ad eleggere o dichiarare domicilio in Italia, o ne ometta il ritiro all'ufficio postale, con conseguente impossibilità di dare luogo allo svolgimento di nuove ricerche (Sez. V, n. 47542/2016). La compiuta giacenza della raccomandata equivale ad effettiva ricezione, con conseguente perfezionamento della procedura di notificazione. Non si comprende allora per il PG la premessa riportata nei motivi di doglianza. La Corte territoriale si è conformata al principio esegetico in materia, stabilito, senza applicare la norma richiamata ex art. 581 c.p.p., comma 1-quater, del resto al di fuori del suo contesto temporale di deducibilità ante riforma. In punto, non vi è stata alcuna mancata ricezione della raccomandata, utile per la disposizione di nuove ricerche al fine di dichiararne la irreperibilità (Sez. 3, n. 46813 del 10/11/2021). Non ritirando il plico inoltratogli, l'imputato si è volontariamente sottratto alla conoscenza del processo, come correttamente riportato in sentenza, con ritualità della notifica per il combinato disposto ex artt. 97 e 169 c.p.p., con altrettanto corretta dichiarazione di assenza dell'imputato. Omologhe considerazioni valgono, secondo il PG, per il secondo motivo. I giudici di appello, nel rispondere all'argomentazione difensiva si conformano al principio esegetico per il quale in tema di reati tributari, la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione può essere desunta dall'entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell'esatto ammontare dell'imposta dovuta (Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016, Rv. 267022 - 01). Deve, a tal proposito, essere evidenziato come l'obbligo della presentazione della dichiarazione dei redditi incombe direttamente sul contribuente e, in caso di persone giuridiche, su chi ne abbia la legale rappresentanza, tenuto a sottoscrivere la dichiarazione a pena di nullità (D.P.R. n. 322 del 22 luglio 1998, art. 1, comma 4). Il fatto che il contribuente possa avvalersi di persone incaricate della materiale predisposizione e trasmissione della dichiarazione (D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, commi 3 e 3-bis) non vale a trasferire su queste ultime l'obbligo dichiarativo che fa carico direttamente al contribuente il quale, in caso di trasmissione telematica della dichiarazione, è comunque obbligato alla conservazione della copia sottoscritta della dichiarazione (D.P.R. n. 322 del 1998, art. 1, comma 6). L'adempimento formale, dunque, fa carico al contribuente il quale deve essere a conoscenza delle relative scadenze e può anche giovarsi, a fini penali, del termine di 90 giorni concesso dalla legge in caso di infruttuoso superamento del termine (D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 7, e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, comma 2). Ne consegue che il solo fatto di aver affidato ad un professionista, già incaricato della tenuta della contabilità, il compito di predisporre e trasmettere la dichiarazione dei redditi, non è circostanza che giustifichi di per sé la violazione dell'obbligo o possa escludere la consapevolezza della inutile scadenza del termine. La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di rilevare come solo la forza maggiore può giustificare tale omissione (Sez. 3, n. 3928 del 25.2.1991, Pasquino, rv. 186784), ma nella valutazione della sua sussistenza non si può prescindere dal fatto che il contribuente ha, come detto, 90 giorni di tempo dalla scadenza del termine per adempiere all'obbligo. L'affidamento ad un professionista dell'incarico di predisporre e presentare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera infatti il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il delitto di omessa dichiarazione (D.Lgs. n. 74 del 10 marzo 2000, art. 5), in quanto, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale ed indelegabile il relativo dovere. Ma la prova del dolo specifico di evasione non deriva dalla semplice violazione dell'obbligo dichiarativo né da una "culpa in vigilando" sull'operato del professionista che trasformerebbe il rimprovero per l'atteggiamento antidoveroso da doloso in colposo, ma dalla ricorrenza di elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato ha consapevolmente preordinato l'omessa dichiarazione all'evasione dell'imposta per quantità superiori alla soglia di rilevanza penale (Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015, Rv. 265087 - 01). In altra pronuncia, precedente, affermando lo stesso principio, si è stabilito che una diversa interpretazione, che trasferisca il contenuto dell'obbligo in capo al delegato, finirebbe per modificare l'obbligo originariamente previsto per il delegante in mera attività di controllo sull'adempimento da parte del soggetto delegato (sez. 3, n. 9163 del 29.10.2009, dep. 2010, Lombardi, rv. 246208). Gli obblighi fiscali, infatti, hanno carattere strettamente personale e non ammettono sostituti ed equipollenti poiché essi rispondono ad una speciale finalità di diritto tributario, quale quella di colpire il complesso dei redditi tassabili. Pertanto, i già menzionati obblighi non possono considerarsi adempiuti dal contribuente con il semplice conferimento dell'incarico ad uno studio professionale, dato che ciò comporterebbe una estrema facilità di evasione (sez. 3, n. 116 del 3.11.1983, dep. 1984, Taiano, rv. 162025). I Giudici di merito, puntualizza il PG, hanno sindacato correttamente che il tempo per la presentazione della dichiarazione fosse congruo e tale da fornire la consapevolezza o comunque l'assunzione concreta del rischio di dare luogo ad una dichiarazione mendace. Il tutto con giudizio fattuale corretto e non sindacabile. In particolare, a rafforzare il convincimento dei giudici di appello circa la responsabilità del ricorrente, nonché della sua volontà di non presentare la dichiarazione al fine di evadere le imposte, milita, come si legge in sentenza, la circostanza, desunta dal comportamento successivo del reo, desumibile dal mancato pagamento delle imposte dovute e non dichiarate. Difatti, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze del ricorrente si appalesano manifestamente infondate, in quanto si risolvono nel "dissenso" sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per un presunto vizio di erronea valutazione in punto di elemento soggettivo con cui, in realtà, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte del Giudice di legittimità. Il controllo di legittimità non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 - dep. 31/01/2000, Moro, Rv. 215745). E sotto tale profilo la decisione non merita censura.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Preliminarmente, occorre analizzare il profilo, evidenziato dallo stesso ricorrente, della applicabilità o meno al presente ricorso di quanto stabilito dall'art. 581 c.p.p., comma 1-quater, introdotto dalla c.d. "riforma Cartabia" (D.Lgs. n. 150 del 2022, art. 33, comma 1, lett. d), a mente del quale "nel caso di imputato rispetto al quale si è proceduto in assenza, con l'atto d'impugnazione del difensore è depositato, a pena d'inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l'elezione di domicilio dell'imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio".
Nel caso in esame, preme evidenziare come la sentenza impugnata sia stata pronunciata in assenza dell'imputato il 30 gennaio 2023.
Tale data è rilevante, in quanto, ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2022, art. 89, comma 3, le disposizioni dell'art. 581 c.p.p., commi 1-ter e 1-quater, (così come quelle degli artt. 157-ter, comma 3, e 585 c.p.p., comma 1-bis) si applicano per le sole impugnazioni proposte avverso sentenze pronunciate in data successiva a quella di entrata in vigore del (lo stesso) decreto", ossia in data successiva al 30 dicembre 2022 (v. art. 99-bis del decreto stesso).
La questione è stata recentemente affrontata da Sez. 5, n. 39166 del 04/07/2023, N., n. m. (conforme, sul punto, Sez. 4, n. 43718 dell'11/10/2023, BEN KHALIFA MOHAMED KHMAYES CUI 05PJCSB, n. m.), la quale ha evidenziato che la collocazione della norma nel corpo dell'art. 581 c.p.p., che fa parte delle disposizioni generali sulle impugnazioni, in mancanza di contrari indici normativi, regola anche il ricorso per cassazione, per cui la nuova disciplina deve trovare applicazione a tutti i provvedimenti emanati dalla data di entrata in vigore della legge.
Non ignora, peraltro, il Collegio l'esistenza di un precedente difforme (Sez. 1, n. 43523 del 28/06/2023, Cop, n. m.), ritenendo tuttavia condivisibile la soluzione ermeneutica cui è giunta la giurisprudenza prevalente, ritenendo di non poter avallare la tesi, sostenuta dal ricorrente, che la nuova disciplina dell'art. 581 del codice di rito potrebbe trovare applicazione ai soli casi in cui sarebbe applicabile la più stringente disciplina del novellato art. 420-bis c.p.p., poiché altrimenti si perverrebbe ad una interpretatio abrogans della norma transitoria dianzi analizzata.
Non a caso, infatti, il comma 1 della disposizione in esame stabilisce che "salvo quanto previsto dai commi 2 e 3, quando, nei processi pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, è stata già pronunciata, in qualsiasi stato e grado del procedimento, ordinanza con la quale si è disposto procedersi in assenza dell'imputato, continuano ad applicarsi le disposizioni del codice di procedura penale e delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale in materia di assenza anteriormente vigenti, comprese quelle relative alle questioni di nullità in appello e alla rescissione del giudicato", con ciò espressamente facendo salva l'immediata applicazione ai processi in corso della disciplina prevista dal novellato art. 581 c.p.p., non espressamente richiamato.
2. Il ricorso - assorbite pertanto entrambe le doglianze difensive, peraltro inammissibili per le ragioni rappresentate dal PG con la sua requisitoria scritta, che questo Collegio condivide e fa proprie (e che, per economia motivazionale, devono in questa sede essere integralmente richiamate) - deve pertanto essere dichiarato inammissibile ai sensi dell'art. 581 c.p.p., comma 1-quater, in quanto non contenente lo specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l'elezione di domicilio dell'imputato.
3. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 9 novembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2023