RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 30 novembre 2022, la Corte di appello di Palermo ha confermato la decisione, resa all'esito del giudizio abbreviato, con cui An.Bu., previo riconoscimento del vizio parziale di mente e della fattispecie attenuata di cui al terzo comma dell'articolo 609-bis cod. pen., era stato condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione in relazione ai reati di violenza sessuale e di diffusione di immagini indebitamente ottenute, attinenti alla vita privata e intima, di cui all'art. 615 bis, secondo comma, cod. pen., commessi in danno di An.Cr.
2. Avverso la sentenza, per il tramite del proprio difensore di fiducia, l'imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, con il primo motivo, il vizio di motivazione in relazione alla sua ritenuta identificazione quale autore delle condotte, non avendo i giudici di merito svolto alcun accertamento sulla effettiva riconducibilità a lui del profilo Facebook utilizzato per commettere i reati ed avendo erroneamente affermato che la persona offesa lo aveva riconosciuto per averlo incontrato di persona: ciò non era invece mai accaduto e il riconoscimento si fondava unicamente sull'inserimento della foto dell'imputato, da altri effettuata, sul profilo social aperto a suo nome.
3. Col secondo motivo si lamentano violazione di legge e vizio di motivazione nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto sussistente il reato di violenza sessuale consumata a fronte di mere minacce che avevano indotto la persona offesa a ritrasmettere all'imputato immagini da lei in precedenza realizzate in modo consenziente e spontaneamente già trasmesse. Il fatto si dovrebbe pertanto riqualificare, con conseguente riduzione della pena, in violenza privata ovvero nel tentativo di violenza sessuale non giunto a consumazione.
4. Con il terzo motivo si deduce il vizio di motivazione in riferimento alla condotta di cui all'articolo 615-bis cod. pen. sul rilievo che non poteva dirsi provata la natura indebita dell'acquisizione delle fotografie diffuse dall'imputato, che le aveva ricevute spontaneamente dalla persona offesa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile per genericità, manifesta infondatezza e perché proposto per ragioni non consentite.
Esso, infatti, si presenta come pedissequamente ripropositivo delle doglianze sollevate in grado di appello, disattese con non illogica motivazione dalla sentenza impugnata, nonché rivalutativo del quadro probatorio ricostruito con doppia decisione conforme dai giudici di merito.
Ed invero, va in primo luogo osservato che la genericità del ricorso sussiste non solo quando i motivi risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568). In particolare, i motivi dei ricorso per cassazione - che non possono risolversi nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito - si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicché è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto d'impugnazione, atteso che quest'ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).
Alla Corte di cassazione, poi, sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507), così come non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D'Ippedico e a., Rv. 271623; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362).
2. Quanto al primo motivo, la sentenza impugnata ha del tutto logicamente ritenuto che l'autore delle condotte andasse individuato nell'imputato, valorizzando il fatto che il profilo Facebook attraverso il quale l'uomo aveva agito era a lui intestato, recava la sua fotografia, era associato all'utenza telefonica intestata alla di lui madre convivente e che la persona offesa aveva riconosciuto l'uomo non solo perché la foto profilo era la sua, ma anche per averlo concretamente visto. Se già i primi elementi valorizzati consentono di ritenere non illogica la motivazione sul punto, a fronte delle generiche contestazioni mosse in ricorso e poggianti sulla fantasiosa tesi - priva di alcun aggancio a concreti dati di fatto emersi in processo - che terzi non meglio identificati potrebbero aver utilizzato per commettere i reati un profilo Facebook illecitamente aperto a nome dell'imputato ed associato all'utenza telefonica della sua abitazione intestata alla di lui madre, la contestazione dell'ultima argomentazione spesa in sentenza, che integrerebbe un travisamento probatorio, è del tutto inidonea alla luce dei principi ermeneutici che consentono di delimitare il concetto di travisamento della prova.
2.1. Ed invero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il suddetto vizio deve risultare dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal ricorrente, ed è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell'elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del "devolutum" in caso di cosiddetta "doppia conforme" e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez. 5, del 02/07/2019, S., Rv. 277758; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e a., Rv. 258774). Quanto al primo dei cennati profili, il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere coerente e logica rispetto agli elementi di prova in essa rappresentati ed alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica. Sotto il secondo profilo, la motivazione non deve risultare incompatibile con altri atti del processo indicati in modo specifico ed esaustivo dal ricorrente nei motivi del suo ricorso (c.d. autosufficienza), in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (cfr. Sez. 2, n. 38800 del 01/10/2008, Gagliardo e a., Rv. 241449). Ne deriva che il ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l'omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l'inammissibilità, ad addurre l'esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece, a) identificare l'atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato nonché della effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l'atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816; Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Damiano, Rv. 249035).
2.2. Non solo l'imputato non ha assolto a questi oneri, ma la sentenza di primo grado (pag. 7) attesta che la mamma della persona offesa aveva dichiarato che la figlia aveva intrattenuto videochiamate con l'autore delle condotte illecite e per questo era in grado di riconoscerlo, sì che il riferimento, contenuto nella sentenza impugnata (pag. 2 della motivazione), al "fisico incontro" tra i due va quantomeno inteso in questo senso e non risulta quindi scardinata la logicità dell'affermazione resa.
3. Quanto al secondo motivo, la sentenza impugnata - con cui il generico ricorso non si confronta - ha non illogicamente attestato, in modo conforme alla decisione di primo grado, che, dopo aver inizialmente ottenuto immagini intime che rappresentavano la persona offesa nuda, da lei spontaneamente autoprodotte ed a lui trasmesse nell'ambito di un iniziale rapporto telematico consenziente, l'imputato aveva poi costretto la ragazza, che a ciò si era determinata per timore delle minacce ricevute (di violenza, anche di morte, e di diffusione telematica a terzi del primo materiale pornografico spontaneamente trasmesso), a mandargliene altre e ad inviargli anche video riproducenti atti di autoerotismo parimenti commessi a seguito di costrizione, donde la corretta qualificazione del fatto quale violenza sessuale consumata.
3.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti - prevalentemente elaborata in relazione all'analogo delitto di cui all'articolo 609-quater cod. pen., ma con l'espressione di principi di valenza generale - si deve ritenere che anche ai fini del reato qui sub iudice gli atti di masturbazione rilevano quali atti sessuali non solo quando con costrizione praticati dall'agente a terzi o da costoro al primo, ma pure laddove la persona offesa sia stata costretta a praticarli su sé medesima, non essendo necessario il contatto fisico fra l'agente e la vittima (cfr. Sez. 3, n. 26809 del 04/04/2023, S., Rv. 285060; Sez. 3, n. 25822 del 09/05/2013, T.P., Rv. 257139). Non può, quindi, negarsi la possibilità della realizzazione del reato contestato anche per via telematica, quando il reo, utilizzando strumenti per la comunicazione a distanza quali il telefono, la videochiamata, la chat, costringe la persona offesa a compiere atti sessuali pur se questi non comportino alcun contatto fisico con l'agente (cfr. Sez. 3, n. 20521 del 19/04/2011, n.m.).
3.2. Evidenziano, inoltre, i secondi giudici, che di un eventuale "reinvio" di foto precedentemente fornite spontaneamente - circostanza posta a fondamento anche dell'ultimo motivo di ricorso e sulla quale subito si ritornerà - non esiste alcuna traccia nelle chat intercorse tra persona offesa ed imputato, non essendosi questi mai lamentato che quanto richiesto ed ottenuto con minaccia fosse la mera ritrasmissione di materiale già in suo possesso.
4. Le circostanze di cui si è appena dato conto rivelano la manifesta infondatezza e genericità anche del terzo motivo di ricorso, posto che la sentenza di primo grado (pag. 12) e quella di appello (pag. 8) convergono nel ritenere che sussista il requisito della "indebita" acquisizione delle immagini riproducenti la vita intima e privata della persona offesa successivamente diffuse dall'imputato, in quanto ottenute, appunto, sotto costrizione dovuta a minaccia. Se questa corretta conclusione non viene in diritto contestata, la ricostruzione fattuale sostenuta dal ricorrente, secondo cui le immagini trasmesse sarebbero quelle ottenute consensualmente dalla persona offesa prima delle minacce, è in sentenza non illogicamente definita "teorica e congetturale", non avendo l'imputato prodotto né allegato alcun elemento idoneo a sostenere la tesi alternativa a quella non illogicamente argomentata dai giudici di merito sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e dalla di lei madre.
5. Alla declaratoria dell'inammissibilità consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento. Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere del versamento della somma, in favore della cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 23 gennaio 2024.
Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2024.