RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 4 novembre 2015, il Tribunale di Belluno ha condannato l'imputato alla pena sospesa di anni 2 di reclusione - nonché: alle pene accessorie di cui all'art. 609-nonies, primo comma, nn. 2) e 5) ed al risarcimento del danno in favore di Ri.Ci., costituitasi parte civile - per i reati di cui al capo 1) - artt. 81,582,585,576, primo comma, n. 5), e 609-bis, ultimo comma, cod. pen. - perché, con violenza e minaccia, rivolgendole al contempo frasi a sfondo sessuale, la costringeva a compiere atti sessuali consistiti in toccamenti delle parti intime dell'uomo, causandole altresì lesioni personali, rappresentate da contusioni lievi agli arti superiori. Con medesima sentenza, il Tribunale di Belluno ha assolto l'imputato dal delitto di cui all'art. 609-bis cod. pen., contestato al capo 2) dell'imputazione, commesso ai danni della parte civile Fo.Fe. - a lui contestato perché costringeva la donna, con la quale aveva da pochissimo interrotto una relazione sentimentale, a subire un rapporto sessuale, nonostante la resistenza opposta da costei, che lo scongiurava ripetutamente di smetterla, e che aveva poi subito passivamente la violenza, memore di un precedente episodio di aggressione, subita sempre ad opera dell'imputato - perché il fatto non sussiste ex art. 530, comma 2, cod. proc. pen.
La Corte di appello di Venezia, con sentenza del 5 aprile 2023, ha parzialmente riformato il provvedimento di primo grado, dichiarando non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine al reato di cui agli artt. 582,585 e 576, primo comma, n. 5), cod. pen., per essere lo stesso estinto per prescrizione e condannando l'imputato per il reato di cui al capo 2) - riconosciute le circostanze attenuanti generiche, con la continuazione con il reato di cui all'art. 609-bis, ultimo comma, cod. pen., di cui al capo 1) - alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione, alle pene accessorie di cui all'art. 609-nonies cod. pen. e a quella dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni 5, nonché al risarcimento del danno a favore della persona offesa Fo.Fe., liquidato in via definitiva in Euro 10.000,00, ed alla rifusione delle spese legali, in favore delle parti civili costituite, liquidate in Euro 1.418,00 per Ri.Ci. ed in Euro 2.752,00 per Fo.Fe. : con conferma, nel resto, dell'impugnata sentenza di primo grado.
2. Avverso la sentenza, l'imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si lamenta la violazione degli artt. 581 e 591 cod. proc. pen., 6 CEDU, 24 e 111 Cost., per essere gli appelli, proposti dal Pubblico Ministero presso il Tribunale e dal Procuratore Generale presso la Corte di appello, inammissibili ex art, 581, comma 1, lettere b), c) e d), cod. proc. pen., in ragione del carattere meramente assertivo delle censure, nonché della mancanza di enunciazione delle prove delle quali si deduce l'omessa o erronea valutazione e dei motivi, mancando l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto a sostegno della richiesta di riforma in peius della decisione assolutoria di primo grado.
In primo luogo, sostiene la prospettazione difensiva che l'atto di gravame proposto dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Belluno avrebbe omesso qualsivoglia critica alla valutazione del materiale probatorio posto a fondamento della decisione assolutoria del giudice di primo grado; né esso avrebbe proposto alcuna diversa, e più plausibile, interpretazione a sostegno dell'ipotesi accusatoria, limitandosi, non solo ad una mera critica della prima pronuncia, ma anche alla semplice riproposizione delle tesi già scartate in primo grado. Il Pubblico Ministero, non si sarebbe confrontato né con il tema della manifestazione del dissenso, né con la valenza persuasiva di quei dettagli fattuali - afferenti alle consuete modalità sessuali "aggressive" del Gi.Gi. e della Fo.Fe., nonché alla forte dipendenza affettiva e al comportamento accomodante della donna per il timore della fine della relazione con l'imputato - che, a parere del Tribunale di Belluno, avrebbero fondato un ragionevole dubbio in ordine all'effettiva percezione, da parte dell'odierno ricorrente, di un inedito dissenso della persona offesa, mancando di identificare con precisione quegli elementi che, all'opposto, nell'ambito di una generale accondiscendenza della donna rispetto alle attitudini sessuali del ricorrente, avrebbero potuto provare, oltre ogni ragionevole dubbio, l'effettivo dissenso quel giorno manifestato da costei. Insufficiente sarebbe, del resto, il richiamo alle mere dichiarazioni della persona offesa: a) da un lato, infatti, il verbale di audizione dibattimentale della Fo.Fe. rappresenterebbe il medesimo materiale istruttorio su cui il Tribunale di Belluno avrebbe fondato l'assoluzione dell'imputato, di talché la pubblica accusa avrebbe dovuto individuare specificamente quei passaggi fattuali che avrebbero potuto consentire di dimostrare l'effettivo dissenso al rapporto sessuale, manifestato dalla persona offesa, e di avallare, dunque, la tesi della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato in capo al Gi.Gi.; b) dall'altro lato, l'impugnazione avrebbe potuto investire la questione della credibilità oggettiva e soggettiva della dichiarante, precisando le ragioni per le quali la versione resa dalla donna avrebbe dovuto essere considerata più veritiera rispetto a quella fornita dall'imputato. Secondo il ricorrente, la concreta impostazione dell'atto di gravame ha impedito alla Corte di appello di identificare correttamente i limiti del sindacato ad essa devoluto, così violando l'art. 597 cod. proc. pen.
Quanto invece all'impugnazione proposta dalla Procura Generale presso la Corte di appello, sostiene l'imputato che, pur non consistendo nella mera riproposizione della tesi accusatoria, essa avrebbe comunque omesso di confrontarsi con l'apparato motivazionale della decisione di primo grado, fallacemente derivando l'erroneità delle conclusioni attinte dal primo giudice dall'espressione di un inaccettabile giudizio etico, anziché da un'inesatta valutazione del materiale probatorio acquisito.
Ne consegue che, a parere del ricorrente, la Corte di appello di Venezia avrebbe dovuto riconoscere la carenza dei presupposti minimi per ritenersi validamente investita del potere di riesaminare la decisione di primo grado, così dichiarando l'inammissibilità degli appelli.
2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si censurano i vizi della motivazione, con riguardo alla violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata in caso di reformatio in peius, relativamente alla valutazione di credibilità oggettiva e soggettiva della persona offesa e di attendibilità intrinseca ed estrinseca della deposizione, anche alla luce della contraddittorietà tra le dichiarazioni rese nel corso dell'istruttoria dibattimentale di primo grado e quelle rese in sede di rinnovazione nel giudizio di appello.
Dopo avere richiamato le posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza in ordine al mancato soddisfacimento dell'obbligo di motivazione rafforzata, sostiene il ricorrente che, nel caso di specie, la Corte di appello di Venezia, nel disattendere le conclusioni del Tribunale, anziché limitarsi a riferire il fatto, invero incontestato, della esplicita manifestazione del dissenso della donna nella fase iniziale dell'approccio, avrebbe dovuto indicare specifica mente gli elementi fattuali sulla base dei quali si poteva ritenere che il dissenso fosse reiterato per tutta la durata del rapporto. Si sarebbe dovuta svolgere un'analisi critica delle dichiarazioni della Fo.Fe., spiegando altresì come avrebbe potuto conciliarsi una violenza tanto grave con il fatto che la persona offesa non aveva deciso di denunciare immediatamente il fatto né allontanato subitaneamente l'uomo, continuando invece a cercarlo con insistenza - anche tramite l'amica Ri.Ci. - al fine di riprendere con lui la relazione sentimentale precedentemente interrotta. Nello specifico, la sentenza impugnata sarebbe caduta in contraddizione, nel ritenere sussistente, sin dall'inizio del rapporto, il dissenso della donna, salvo poi riconoscere che, soltanto dopo la violenza perpetrata dal Gi.Gi. ai danni dell'amica, la Fo.Fe. si sarebbe effettivamente resa conto della gravità di quanto accaduto, così confermando, a parere dell'imputato, la tesi della mancata percezione, da parte di costui, di un dissenso esplicito al rapporto.
I giudici dell'appello non avrebbero pertanto rispettato l'obbligo di motivazione rafforzata, non avendo operato la falsificazione logica dell'ipotesi assolutoria ricostruita dal giudice di primo grado, ed essendosi limitati a fornire una diversa versione dei fatti in contestazione - priva, tuttavia, di quella intrinseca credibilità logica e prevalenza rispetto all'iniziale ricostruzione assolutoria, necessarie dinnanzi a sentenze di condanna pronunciate in riforma di precedenti assoluzioni - ed omettendo altresì fallacemente di considerare che la motivazione assolutoria del Tribunale riguardava la possibilità che, per le stesse modalità di esternazione, per il contesto dell'azione e per i rapporti pregressi tra l'imputato e la persona offesa, il dissenso di questa potesse non essere stato adeguatamente percepito dall'imputato, sì da porre in dubbio la ricorrenza dell'elemento soggettivo della fattispecie. Nemmeno in sede di rinnovazione obbligatoria della prova dichiarativa, del resto, si sarebbero affrontati i temi della effettiva percezione del dissenso e della equivocità dei comportamenti tenuti dalla Fo.Fe. a seguito della presunta violenza sessuale: più precisamente, non si sarebbe analizzato il contesto circostanziale sulla base del quale il giudice di primo grado era arrivato a ritenere che l'imputato potesse non aver validamente compreso il diniego della donna, né si sarebbero chiarite le molteplici contraddizioni emerse tra le dichiarazioni giudiziali di costei e la deposizione resa nell'imminenza dei fatti.
3. Con memoria datata 2 aprile 2024, la difesa della parte civile Fo.Fe. ha chiesto che il ricorso sia rigettato.
Quanto al primo motivo di doglianza, se ne rileva l'inammissibilità, sulla base della considerazione che entrambi gli atti di impugnazione delle Procure appellanti sarebbero pienamente conformi agli standard di specificità intrinseca ed estrinseca richiesti dalla sentenza n. 8825 del 27 ottobre 2016 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
In relazione al secondo motivo di censura, se ne deduce l'infondatezza. Dopo avere ricordato che, per la riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado, l'obbligo motivazionale rafforzato va commisurato al percorso giustificativo seguito dalla sentenza appellata - con la conseguenza che, laddove il provvedimento assolutorio abbia un contenuto motivazionale generico e meramente assertivo, non vi sarà neppure la concreta possibilità di confutare argomenti e considerazioni alternative del primo giudice, essendo il giudizio d'appello l'unico realmente argomentato - la difesa della parte civile sostiene che, a fronte di una sentenza di primo grado lacunosa, sia dal punto di vista della ricostruzione del fatto che sotto il profilo dell'esposizione delle ragioni di diritto fondanti l'assoluzione, la motivazione del provvedimento impugnato sarebbe completa, coerente e puntuale, laddove: a) riconoscendo la piena capacità della persona offesa di operare tale distinzione, ha spiegato la differenza intercorrente tra i rapporti violenti e "alternativi" ma consenzienti e quelli violenti ma non voluti; b) ha chiarito e motivato, con vari richiami alla giurisprudenza di legittimità, quando possa ritenersi sussistente o meno il consenso della parte alla consumazione del rapporto sessuale; c) ha valorizzato la deposizione della stessa Ri.Ci. confermativa della genuinità del racconto della Fo.Fe. e del dissenso di costei al rapporto sessuale, nonché la consapevolezza che di esso doveva avere l'imputato, avendo la donna specificato che l'incontro era finalizzato al solo parlare della fine della loro relazione e chiarito di non volere alcun rapporto, avendo il ciclo mestruale ed essendo presenti, al piano superiore, i suoi figli; d) ha enfatizzato le scuse rivolte dall'imputato alla persona offesa il giorno successivo a quanto accaduto; scuse che, a parere di quest'ultima, sarebbero state immotivate qualora vi fosse stata la pretesa prestazione del consenso da parte di costei alla consumazione del rapporto sessuale.
4. In data 2 aprile 2024, anche la difesa dell'imputato ha depositato memoria, con la quale insiste in quanto già dedotto.
In primo luogo, ribadisce il ricorrente la denunciata inammissibilità degli appelli proposti dalla Procura della Repubblica di Belluno e dalla Procura Generale di Venezia, i quali, non soddisfacendo i requisiti minimi di specificità estrinseca dei motivi di impugnazione - come individuati dalle Sezioni Unite Galtelli e poi positivizzati nel nuovo comma 1 -bis dell'art. 581 cod. proc. pen., introdotto dall'art. 33, comma 1, lettera d), del D.Lgs. n. 150 del 2022 - non avrebbero legittimamente investito la Corte di appello del potere di riesaminare la decisione del Tribunale.
In secondo luogo, si ribadisce la censura circa l'inadempimento dell'obbligo di motivazione rafforzata in caso di reformatio in peius: a parere del ricorrente, infatti, la Corte di appello di Venezia, lungi dall'identificare, con precisione, quegli elementi di fatto o di diritto non valorizzati dal giudice di primo grado che, sul piano logico probatorio, avrebbero invece reso certa, ogni oltre ragionevole dubbio, l'effettiva percezione di un dissenso inequivoco al rapporto sessuale, da parte dell'imputato, si sarebbe limitata a proporre una propria soggettiva lettura dei fatti, travisando la portata dell'attitudine della coppia a rapporti improntati ad una certa violenza e della conseguente accettazione degli stessi da parte della Fo.Fe., a partire dal precedente specifico risalente al 2012.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso - limitato al reato contestato come commesso in danno di Fo.Fe.- è infondato.
1.1. Il primo motivo di censura, relativo alla violazione degli artt. 581 e 591 cod. proc. pen., 6CEDU, 24 e 111 Cost. - per essere gli appelli, proposti dal Pubblico Ministero presso il Tribunale e dalla Procura Generale presso la Corte di appello, inammissibili ex art. 581, comma 1, lettere b), c) e d), cod. proc. pen., in ragione del carattere meramente assertivo delle censure nonché della mancanza di enunciazione delle prove pretermesse o erroneamente valutate - è manifestamente infondato.
Secondo quanto chiaramente espresso dall'art. 591, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., l'impugnazione è inammissibile quando non sono osservate le disposizioni dell'art. 581 cod. proc. pen. Tale ultima norma, a sua volta, nel testo vigente prima dell'entrata in vigore della legge n. 103 del 23 giugno 2017, prevedeva, nella lettera c), che l'impugnazione dovesse contenere l'enunciazione "dei motivi, con l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta". Sull'interpretazione di tale testo è intervenuta la sentenza Gattelli delle Sezioni Unite (n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017) che, risolvendo un contrasto relativo all'applicabilità della sanzione dell'inammissibilità per "genericità estrinseca" anche all'appello, ha precisato che i motivi di impugnazione in genere - e dunque anche di appello - sono affetti da "genericità estrinseca" quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato. Sono invece affetti da "genericità intrinseca" quando risultano intrinsecamente indeterminati, risolvendosi sostanzialmente in formule di stile (fermo restando che, in tal caso, non vi era dubbio sulla possibilità di dichiararne l'inammissibilità, anche prima della citata sentenza).
La ricordata legge n. 103/2017 ha modificato il testo dell'art. 581, introducendo nella lettera b) un requisito prima non previsto - l'indicazione, cioè, "delle prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione o l'omessa o erronea valutazione" - e precisando che ciascuno dei requisiti indicati nella norma doveva essere oggetto di "enunciazione specifica". Il testo della lettera c) è stato spostato nella lettera d).
La recente novella introdotta con il D.Lgs. n. 150 del 2022 ha ulteriormente recepito l'esigenza di specificità, introducendo un nuovo comma 1 -bis nel testo dell'art. 581, con espresso riferimento all'atto di appello.
Ebbene, quando il ricorrente sostiene che entrambe le Procure appellanti avrebbero omesso qualsivoglia critica alla valutazione del materiale probatorio posto a fondamento della decisione assolutoria del giudice di primo grado, sta in realtà rivolgendo la sua critica al merito degli appelli, cioè alla fondatezza o meno delle argomentazioni spese in ciascun atto, attestandone implicitamente l'ammissibilità.
Del resto, come è chiaramente evincibile da tali atti e dal loro resoconto rinvenibile nella sentenza impugnata, tanto il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Belluno, quanto il Procuratore Generale presso la Corte di appello si sono adeguatamente confrontati con le conclusioni assolutorie attinte dal giudice di primo grado in relazione al secondo capo dell'imputazione e, dunque, con il tema della manifestazione del dissenso, opponendovi logicamente le proprie argomentazioni contrarie, mediante l'indicazione specifica e puntuale sia dei punti e/o capi della sentenza da censurare sia delle ragioni poste a fondamento di ciascuna doglianza, nonché delle prove erroneamente valutate.
1.2. Il secondo motivo di doglianza - con il quale si censurano i vizi della motivazione, con riguardo alla violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata in caso di reformatio in peius, relativamente alla valutazione di credibilità oggettiva e soggettiva della persona offesa e di attendibilità intrinseca ed estrinseca della deposizione, anche alla luce della contraddittorietà tra le dichiarazioni rese nel corso dell'istruttoria dibattimentale di primo grado e quelle rese in sede di rinnovazione nel giudizio di appello - è, invece, infondato.
Secondo quanto sancito dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di motivazione della decisione, la sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, pena altrimenti il difetto motivazionale, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata da elementi di prova diversi o diversamente valutati (ex plurimis, Sez. 4, n. 24439 del 16/06/2021, Rv. 281404; Sez. 6, n. 10130 del 20/01/2015, Rv. 262907; Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005, dep. 2006, Rv. 233083).
Conformemente a ciò, nel caso di specie, la Corte di appello di Venezia, a pag. 22 del provvedimento impugnato, ha espressamente censurato la decisione assolutoria assunta dal Tribunale di Belluno - nella parte in cui, non essendo in contestazione la materialità del fatto di reato, essa fonda il proprio convincimento in ordine alla mancata percezione del dissenso da parte dell'odierno ricorrente sulla base della natura violenta dei rapporti precedentemente intercorsi tra costui e la persona offesa e del comportamento di quest'ultima, continuamente teso a riallacciare i rapporti con l'uomo - evidenziandone puntualmente l'insostenibilità sul piano logico, oltre che giuridico, analizzata anche in considerazione della rinnovazione istruttoria espletata nel giudizio di secondo grado.
In primo luogo, la Corte di appello ha opportunamente chiarito l'impossibilità di ricondurre un episodio di violenza sessuale alla normale vita di coppia dell'imputato con la persona offesa sul rilievo della presunta natura violenta dei rapporti sessuali solitamente intercorsi tra i due, valorizzando, nello specifico, in maniera del tutto logica e coerente, la capacità della stessa persona offesa di distinguere un atto di violenza sessuale dai rapporti, ancorché non convenzionali, consumati, in maniera consenziente, con l'imputato.
In punto di diritto, pare dunque opportuno precisare che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, in tema di reati sessuali, gli atti sessuali "non convenzionali", possono essere ritenuti leciti nella misura in cui si svolgano in base ad un consenso dei partecipanti che deve protrarsi per tutta la durata degli stessi (Sez. 3, n. 43611 del 19/10/2021, Rv. 282099; Sez. 3, n. 31513 del 04/10/2019, dep. 2020, Rv. 278250); né alcun rilievo può conferirsi ai costumi sessuali della persona offesa, i quali sono ininfluenti sulla sua credibilità e non possono costituire argomento di prova per l'esistenza, reale o putativa, del suo consenso (Sez. 3, n. 46464 del 09/06/2017, Rv. 271124).
Ebbene, nel caso di specie, le dichiarazioni rese dalla donna, nel momento subito antecedente la violenza, appaiono certamente univoche nel senso della mancata volontà di acconsentire al rapporto, risultando ella ferma nel sottolineare, non solo il fine esclusivamente chiarificatore dell'incontro, ma anche la propria indisposizione dovuta al ciclo mestruale e alla presenza dei figli al piano superiore dell'abitazione, non potendosi in alcun modo valorizzare le contraddizioni in cui, secondo la prospettazione difensiva, sarebbe incorso il narrato della persona offesa, invero irrilevanti giacché non attinenti al nucleo essenziale del fatto di reato per il quale si procede. Del resto, è manifestamente erronea la tesi difensiva secondo cui, per escludere il reato di violenza sessuale, il dissenso della persona offesa deve essere manifestato per tutta la durata del rapporto. Ciò vale certamente per il consenso, il quale, in quanto elemento negativo della fattispecie, la cui esistenza si pone come impeditiva ai fini della completa integrazione del reato, deve perdurare pacificamente nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all'art. 609-bis cod. pen. la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente ad un consenso originariamente prestato, intervenga in itinere una manifestazione di dissenso, anche non esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà (ex multis, Sez. 3, n. 15010 del 11/12/2018). Ma lo stesso non può dirsi in relazione al dissenso, il quale, non richiedendo, in linea generale, una necessaria manifestazione - avendo la giurisprudenza di legittimità più volte affermato l'insussistenza di un indice normativo dal quale possa effettivamente ricavarsi un onere, ancorché implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella propria sfera di intimità sessuale, dovendosi piuttosto ritenere che tale dissenso sia da presumersi, laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare l'esistenza di un, sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco, consenso - a maggior ragione non deve essere espresso nell'arco dell'intera durata del rapporto sessuale, essendo sufficiente anche la sua manifestazione soltanto iniziale. La manifestazione esplicita del dissenso, in altri termini, non può mai ritenersi superata da comportamenti concludenti ed impliciti contrari, ovvero non può mai ritenersi consentito fare affidamento sulla mancata veridicità di un dissenso esplicito.
In applicazione di tali principi, lungi dal limitarsi a fornire una diversa versione dei fatti in contestazione, priva di intrinseca credibilità logica e sub-valente rispetto all'iniziale ricostruzione assolutoria, i giudici di merito hanno affrontato, in modo logico e coerente, sia il tema della effettiva percezione del dissenso che quello della equivocità dei comportamenti tenuti dalla Fo.Fe., a seguito della presunta violenza sessuale, invero comprensibili alla luce della dinamica complessiva della vicenda, così adempiendo adeguatamente all'obbligo di motivazione rafforzata incombente sul giudice in caso di reformatio in peius.
2. Tenuto conto delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
L'imputato deve essere anche condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Fo.Fe., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte d'Appello di Venezia con separato di decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 del D.P.R. n. 115 del 2002, con pagamento in favore dello Stato. Nulla è dovuto per le spese sostenute dalla parte civile Ri.Ci., non essendovi stata impugnazione dell'imputato nei suoi confronti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte d'Appello di Venezia con separato di decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 del D.P.R. n. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Nulla per le spese sostenute dalla parte civile Ri.Ci.
Così deciso il 18 aprile 2024.
Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2024.