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Violenza sessuale: consenso deve perdurare durante intero rapporto senza soluzione continuità
Cassazione penale sez. III, 11/12/2018, n.15010
In tema di reati contro la libertà sessuale, nei rapporti tra maggiorenni, il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all'art. 609 bis cod. pen. la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente a un consenso originariamente prestato, intervenga "in itinere" una manifestazione di dissenso, anche non esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà.
Norme di riferimento
La sentenza integrale
RITENUTO IN FATTO
1. Con l'impugnata sentenza, la Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Monza con la quale F.A. era stato condannato, alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione, in ordine ai reati, unificati dal vincolo della continuazione e con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, di cui all'art. 81 c.p. comma 2 e art. 609 bis c.p. (capo A), art. 572 c.p. (capo B) in relazione alle condotte dal 2009 all'ottobre 2012, artt. 582-585 c.p. (capo C), ai danni della moglie F.E..
Con la medesima sentenza l'imputato era stato condannato al risarcimento del danno cagionato alla parte civile, da liquidarsi in separata sede, con l'assegnazione di una provvisionale di Euro 25.000,00.
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso l'imputato, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l'annullamento per i seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.
2.1. Con il primo motivo deduce il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) in relazione alla mancata assunzione di una prova decisiva costituita da perizia medica volta a verificare la compatibilità delle ecchimosi refertate alla persona offesa in sede di pronto soccorso con gli elementi nuovi tratti dai testimoni, di cui era stata chiesta l'assunzione mediante rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, che avevano riferito circa la fragilità dei vasi capillari e dei conseguenti segni a livello epidermico, cosicchè risultava decisiva la perizia richiesta per la verifica della compatibilità delle lesioni a fronte del racconto della donna di un rapporto sessuale violento, negato dall'imputato che ha sempre ammesso un rapporto sessuale consenziente. Allo stesso modo decisiva era la testimonianza della teste S., la cui assunzione era stata chiesta in sede di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello, respinta immotivatamente dai giudici dell'impugnazione.
2.2. Con il secondo motivo deduce il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione alla motivazione apparente della sentenza impugnata che avrebbe acriticamente confermato la pronuncia di condanna omettendo la valutazione di prove e segnatamente delle dichiarazioni rese da P.R., oggetto di specifico motivo di appello, e della decisività della testimonianza della S. che se fosse stata sentita avrebbe ancor più reso evidente l'inattendibilità della persona offesa.
2.3. Con terzo motivo deduce il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione alla contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine al reato di violenza sessuale. La Corte d'appello, anche con travisamento della prova, avrebbe confermato la responsabilità penale dell'imputato in relazione al reato di violenza sessuale con mero richiamo alla motivazione per relationem alla sentenza di primo grado, e con travisamento della prova (referto medico del pronto soccorso) che attestava un mero arrossamento al livello del vestibolo vaginale sull'area perineale elemento insufficiente a ritenere riscontrate le dichiarazioni rese dalla persona offesa che aveva sempre dichiarato di essere stata costretta, con violenza, a subire un rapporto sessuale completo e tenuto conto che l'imputato aveva ammesso di aver avuto un rapporto sessuale su base consenziente. Mancherebbe la prova che il rapporto sessuale fosse stato compiuto contro la volontà della donna non potendo, la prova della violenza/costringimento fisico, essere desunta dal referto medico.
2.4. Con il quarto motivo deduce il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione alla contraddittorietà e illogicità della motivazione in relazione al positivo giudizio di attendibilità della persona offesa in ordine al reato di violenza sessuale e violazione dei criteri di valutazione della prova testimoniale in presenza di costituzione di parte civile. La sentenza impugnata sarebbe affetta da erroneo sillogismo laddove avrebbe tratto la prova del reato dalla prova della violenza fisica che costituirebbe il discrimine tra il consenso ed il vizio del consenso e, dunque, sussisterebbe la violazione dell'art. 192 c.p.p..
3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto che il ricorso sia rigettato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Va, anzitutto, rilevato che le censure del ricorrente concernono unicamente la condanna per il reato di cui al capo A) - violenza sessuale, come espressamente chiarito dal difensore del ricorrente nella esposizione dei motivi di ricorso, sicchè con riguardo ai capi della condanna di cui ai capi B) maltrattamenti - e capo C) - lesioni personali, non essendovi impugnazione la sentenza è passata in giudicato.
5. Seguendo l'ordine logico delle censure, del tutto infondata è la censura di mancata acquisizione di una prova decisiva, la cui mancata assunzione può costituire motivo di ricorso per cassazione, solo ove, confrontata con le argomentazioni addotte in motivazione a sostegno della decisione, risulti "determinante" per un esito diverso del processo, e non anche quella che possa incidere solamente su aspetti secondari della motivazione ovvero sulla valutazione di affermazioni testimoniali da sole non considerate fondanti della decisione prescelta.
Peraltro, deve ricordarsi che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione la perizia per il suo carattere "neutro" è sottratta alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva. Ne consegue che il relativo provvedimento di diniego non integra la violazione di cui art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione è insindacabile in cassazione (S.U. n. 39746 del 23/03/2017, A., Rv. 270936 - 01; Sez. 4, n. 7444 del 17/01/2013, Rv. 255152; Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012, Rv. 253707; sez. 4, n. 14130 del 22/01/2007, Rv. 236191). La motivazione è sul punto (cfr. pag. 11) congrua e logica e dunque incensurabile nel giudizio di legittimità.
Sotto altro profilo, neppure può ritenersi decisiva la testimonianza della S. che era stata ritenuta superflua dai giudici dell'impugnazione, con motivazione immune da profili di illogicità, in ragione del fatto che non era a conoscenza diretta dei fatti (cfr. pag. 11).
6.- Così pure è del tutto infondato il vizio di illogicità dedotto con il secondo motivo di ricorso, sostenuto da valutazioni della prova meramente alternative, in contrasto con il principio per il quale, in tema di sindacato del vizio della motivazione, il giudice di legittimità non è chiamato a sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine alla affidabilità delle fonti di prova, essendo piuttosto suo compito stabilire - nell'ambito di un controllo da condurre direttamente sul testo del provvedimento impugnato - se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, se abbiano analizzato il materiale istruttorio facendo corretta applicazione delle regole della logica, delle massime di comune esperienza e dei criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. 2, n. 21884 del 20/03/2013, Rv. 25517). Da cui consegue la manifesta infondatezza della mancata valutazione della teste P. e mancata assunzione teste S. (oggetto del secondo motivo) che, per come risulta dal motivo di appello di cui il ricorrente lamenta la mancata risposta, era diretta ad introdurre una ricostruzione alternativa (pregressa relazione sentimentale della donna) non consentita in questa sede.
7.- Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso con cui si denuncia il vizio di motivazione in relazione alla mancata valutazione della assunzione dei testimoni P. e S.. A parte l'inammissibile richiesta di verificare una versione alternativa dei fatti con riguardo alla testimonianza P. (mentre con riguardo al teste S. era già stata rilevata la superfluità), deve rammentarsi, in primo luogo, il principio secondo il quale quando le sentenze di primo e secondo grado concordano nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, sicchè è possibile, sulla base della motivazione della sentenza di primo grado colmare eventuali lacune della sentenza di appello (Sez. 4, n. 15227 del 14/02/2008, Rv. 239735).
Parimenti, altrettanto pacifica è l'affermazione secondo cui il giudice dell'impugnazione non è tenuto a rispondere a tutte le deduzioni difensive, essendo sufficiente che egli mostri di averle esaminate e disattese pur implicitamente.
A tale riguardo deve osservarsi che il giudice del merito, per assolvere all'obbligo di motivazione, deve dare conto ed esaminare, nel percorso motivazionale che lo ha condotto alla decisione, le questioni sollevate dalla difesa, ma non è tenuto a disattenderle specificatamente e singolarmente, purchè dal complesso motivazionale si evinca che le stesse sono state esaminate e disattese. Nella motivazione della sentenza il giudice dell'impugnazione non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo (Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià e altri, Rv. 254107).
Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata. Dal canto suo, il difensore che deduca l'omessa risposta deve, anche, rilevarne la decisività della carenza motivazionale sulle questioni sollevate. E ciò in quanto la carenza di motivazione, per rilevare quale vizio di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) devono assumere la capacità di essere decisive, ovvero essere idonee ad incidere il compendio indiziario, disarticolando l'iter logico seguito dai giudici per l'affermazione della responsabilità, decisività da escludersi con riguardo ad entrambe le testimonianze (vedi supra).
8.- Anche il terzo e quarto motivo, che per ragioni di connessione possono essere trattati congiuntamente, sono manifestamente infondati.
Sotto un primo profilo la denunciata illogicità e/o contraddittorietà della motivazione in relazione al positivo giudizio di attendibilità della persona offesa e per la violazione dei canoni ermeneutici di valutazione della prova testimoniale della parte lesa costituita parte civile, oggetto del quarto motivo di ricorso, è manifestamente infondata.
Il Collegio condivide la consolidata giurisprudenza di legittimità sul valore probatorio delle dichiarazioni della persona offesa, costituita parte civile, che possono, da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104; Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575; S.U. n. 41461 del 19/07/2012, Rv.253214).
Anche nei reati in materia sessuale è stato ripetutamente e condivisibilmente affermato il principio secondo cui "... le dichiarazioni della persona offesa possono essere assunte anche da sole come fonte di prova ove sottoposte ad un vaglio positivo di credibilità oggettiva e soggettiva", posto che non esistono nel sistema processuale preclusioni o limiti generali alla capacità della persona offesa di rendere testimonianza (Sez. 3, n. 27742 del 06/05/2008, Z., Rv. 240695).
Dunque, le regole dettate dall'art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di responsabilità, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto e in presenza di controllo più penetrante e rigoroso rispetto a quello a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Peraltro, come si evince dalla motivazione della pronuncia delle Sezioni unite (Cass. S.U., n. 41461 del 19/07/2012, Rv. 253214), la circostanza che l'offeso si sia costituito parte civile non attenua il valore probatorio delle dichiarazioni rendendo la testimonianza omogenea a quella del dichiarante "coinvolto nel fatto", che non soggiace alla regola di valutazione indicata dall'art. 192 c.p.p., comma 3, ma richiede solo un controllo di attendibilità particolarmente penetrante, finalizzato ad escludere la manipolazione dei contenuti dichiarativi in funzione dell'interesse patrimoniale vantato.
A tale dictum si sono attenuti i giudici del merito che con ampia e congrua motivazione hanno confermato l'affermazione della responsabilità penale del ricorrente per avere costretto con violenza la moglie a subire un rapporto sessuale completo, attendibilità corroborata, peraltro, da riscontri obiettivi (certificato medico ginecologico e stato di shock e crisi di pianto rilevato dagli operatori sanitari della clinica (OMISSIS)).
Sotto altro profilo, con riguardo al vizio di motivazione anche con travisamento della prova sul consenso al compimento dell'atto sessuale, come sostenuto dall'imputato, deve rammentarsi il principio secondo cui nei rapporti sessuali tra persone maggiorenni il compimento di atti sessuali deve essere sorretto da un consenso che deve sussistere al momento iniziale e deve permanere durante l'intero corso del compimento dell'atto sessuale (Sez. 3, n. 25727 del 24/02/2004. Guzzardi, Rv. 228687), sicchè la manifestazione del dissenso, che può essere anche non esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà e può intervenire in itinere, esclude la liceità del compimento dell'atto sessuale.
A fronte della struttura del reato come delineata, è onere della parte che lo invoca (imputato) la prova del consenso, mentre l'esimente putativa del consenso dell'avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l'errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale. Poichè rileva unicamente il consenso, che deve essere motivato in relazione al caso concreto, spetta all'imputato la relativa prova per escludere la rilevanza penale del fatto. Solo la prova del consenso esclude il reato. Prova che nel caso in esame è stata meramente allegata ed escluso sulla scorta di indici obiettivi rivelatrici, al contrario, della perpetrazione di una condotta violenta e del compimento dell'atto sessuale in assenza di consenso (cfr. referto medico).
9.- Conclusivamente, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell'art. 616 c.p.p.. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2019
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