RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 29 maggio 2019, la Corte di assise di appello di Venezia confermò la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Venezia in data 25 luglio 2018 con la quale P.S., in esito a giudizio abbreviato, era stato condannato alla pena dell'ergastolo in quanto riconosciuto colpevole dei reati, unificati dalla continuazione, previsti dagli art. 81 cpv. c.p., art.575 c.p., art.577 c.p., primo comma, nn. 2 e 3, (capo A), dagli artt. 609 bis c.p., comma 2, n. 1, art. 609 ter c.p., comma 1, nn. 2 e 5 ter, art.61 c.p., n. 4, (capo B), art.593 bis c.p., comma 2, così riqualificata l'ipotesi originariamente contestata ai sensi della L. 22 maggio 1978, n. 194 art. 18, comma 2, (capo C), nonché dall'art. 410 c.p., comma 2; fatti commessi in (OMISSIS), nella notte tra il 17 e il 18 giugno 2017.
1.1. Secondo quanto ritenuto dalle due sentenze di merito, P.S. soggetto ben inserito sul piano socio-lavorativo, ma con gravi compromissioni della sfera sessuo-affettiva, a causa delle quali non era riuscito a vivere soddisfacenti relazioni sentimentali, diventando uno stabile fruitore di materiale pornografico - aveva maturato una fortissima attrazione nei confronti di una giovane straniera che frequentava le sue lezioni scolastiche, A.S., la quale, pur intrattenendo un rapporto di amicizia con l'imputato, ne aveva respinto le ripetute avances. Ciò aveva progressivamente determinato l'insorgere, in capo a P., di un sentimento di fortissima ostilità nei confronti della ragazza, esacerbato da un episodio verificatosi (OMISSIS), allorché l'imputato, recatosi in aeroporto, all'insaputa della giovane, per accoglierla al rientro da un viaggio, aveva appreso che ella era legata sentimentalmente a un altro uomo; episodio che lo aveva indotto a rimuginare propositi di vendetta nei confronti di colei che, ai suoi occhi, lo aveva umiliato. Con il passare dei mesi, A.S. aveva intrapreso una nuova relazione con un giovane, B.B., rimanendo incinta. P., in un crescendo di aggressività, aveva progettato un'azione violenta nei confronti della ragazza, documentandosi, via internet, sugli effetti del cloroformio e acquisendo video che rappresentavano degli abusi sessuali ai danni di ragazze cloroformizzate; e dopo avere acquistato, on line, il medicinale con effetti ipno-induttivi Stilnox, alcuni flaconi di cloroformio, dei divaricatori vaginali e un attrezzo metallico, l'uomo aveva invitato a cena i due fidanzati presso la propria abitazione. Quivi, l'uomo, dopo averli dapprima resi inoffensivi, somministrando loro una forte dose di sonnifero sciolta in una bevanda alcolica, aveva costretto i due giovani a inalare del cloroformio. Indi, dopo. avere ripetutamente abusato sessualmente della donna mentre una telecamera riprendeva l'intera scena, aveva dapprima ucciso il suo compagno soffocandolo con una dose letale di cloroformio e colpendolo ripetutamente al capo con l'attrezzo acquistato via internet; e aveva, quindi, cagionato la morte anche della giovane, somministrandole altro cloroformio, in parte facendoglielo inalare con uno straccio imbevuto della sostanza e in parte costringendola a ingerirlo. Infine, P. aveva compiuto ulteriori atti sessuali sul corpo ormai senza vita della ragazza, ancora davanti alla telecamera. Dopo avere denunciato al "113" quanto accaduto e avere ammesso, a colloquio con l'operatore telefonico, le sue responsabilità, sia pure cercando di giustificarle con il comportamento della donna che lo aveva respinto, e dopo avere ribadito la stessa versione, nell'immediatezza dei fatti, alla polizia giudiziaria (e successivamente anche al Pubblico ministero in sede di interrogatorio), P. era stato sottoposto a perizia psichiatrica, che ne aveva confermato, nonostante il diverso avviso del consulente della difesa, la piena capacità di intendere e di volere all'epoca dei fatti. Giudizio che era stato confermato dopo l'espletamento di un supplemento peritale, disposto dal Giudice per approfondire alcuni aspetti connessi a una presunta coprofilia dell'imputato, ipotizzata a seguito del rinvenimento delle sue feci all'interno del frigorifero di casa e alle dichiarazioni dallo stesso rese in ordine al loro possibile impiego per infliggersi una punizione per le proprie cattive azioni.
Nessun dubbio doveva ritenersi sussistente, secondo i Giudici di merito, in relazione alla intenzionalità dei due omicidi e, anzi, in relazione alla esistenza della premeditazione, considerato: il contenuto di alcuni video rinvenuti nell'abitazione di P. (alcuni dei quali documentavano il fortissimo astio da lui nutrito verso la ragazza o riproducevano lo stupro nei confronti di alcune ragazze cloroformizzate); l'acquisto, per corrispondenza, dello Stilnox, del cloroformio, dei divaricatori e dell'attrezzo usato per uccidere B.; le ammissioni compiute dall'imputato al "113" e agli operanti nell'immediatezza dei fatti, nonché, in un secondo momento, al Pubblico ministero; le frasi pronunciate dopo la morte della ragazza e riportate nel video con cui P. aveva documentato lo stupro e l'uccisione della giovane ("la vita mi ha portato a questo... e non c'era altra scelta. Non avevo altra scelta A. mi hai distrutto la vita spaccato il cuore fatto a pezzi. Mi hai messo un dolore che solo Dio sa... non potevo permettere che tu fossi felice a danno del mio dolore infinito. Maledetta non potevo permetterlo, adesso ti spacco in due"). Infondate erano state, pertanto, ritenute le tesi difensive relative alla configurabilità dell'art. 586 c.p., ovvero all'assenza di intenzionalità e premeditazione (ammesse dall'imputato soltanto rispetto alla violenza sessuale, che avrebbe costituito il vero obiettivo della "spedizione punitiva" nei confronti della ragazza). Così come infondata era stata ritenuta la tesi difensiva della insussistenza dell'aggravante dell'uso del mezzo insidioso o della sostanza venefica e della insussistenza del dolo di vilipendio di cadavere, per non essere stato dimostrato che P. fosse a conoscenza del decesso della giovane nel momento in cui ella era stata sottoposta alle ulteriori condotte di abuso sessuale.
2. L'avv. G., difensore di fiducia di P.S., ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, deducendo nove distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., la inosservanza degli art. 63 c.p.p., commi 1 e 2, e art. 350 c.p.p., comma 6, quanto all'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'imputato alla polizia giudiziaria e riportate nell'annotazione di polizia giudiziaria del (OMISSIS), relativa alla telefonata delle ore 3.09 dello stesso giorno, effettuata da P. alla sala operativa del "113" di Venezia, nel corso del quale interloquiva con l'ispettore di polizia C., nonché nel verbale di interrogatorio delle ore 3.35 sempre del (OMISSIS), nel corso del quale egli, in stato di arresto presso il domicilio, interagiva con il vice-sovrintendente B., rispondendo alle sue domande e venendo video-registrato per documentare l'interrogatorio; atti contenenti dichiarazioni da cui la Corte territoriale avrebbe tratto il convincimento della volontà omicidiaria ai danni di A.S. e di B.B..
2.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, in relazione al rigetto dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale con riferimento alla perizia psichiatrica sulla capacità di intendere e volere dell'imputato compiuta dal Dott. G.R..
Sotto altro profilo, il ricorso lamenta che le dichiarazioni dell'imputato siano state sottoposte a indebito frazionamento, in violazione delle regole probatorie dell'art. 192 c.p.p., che vietano una parcellizzazione degli elementi probatori, al fine di dare rilevanza ad alcuni, non considerando i restanti. Tanto più che avendo l'esame peritale ad oggetto fatti avvenuti in un unico contesto, nella notte tra il 17 e il (OMISSIS), si sarebbe dovuta applicare la regola secondo cui l'attendibilità andava valutata globalmente, tenendo conto di tutte le dichiarazioni di P. e di tutti gli elementi acquisiti al processo.
Ancora, il nucleo essenziale della richiesta di rinnovazione istruttoria negata in appello risiederebbe nell'inaffidabilità delle considerazioni conclusive espresse dal perito, stante l'esame parziale degli atti processuali, in relazione alla documentazione video rappresentativi della notte del duplice omicidio, nonostante le specifiche deduzioni difensive, secondo cui il materiale visionato sarebbe stato assolutamente parziale rispetto a quello presente in atti. Ne' la perizia psichiatrica si sarebbe diffusa rispetto alle riprese dell'autunno 2016 e dell'inverno 2017 citate da uno dei consulenti, il prof. Tantalo, nel supplemento di consulenza tecnica, né sui video realizzati dall'imputato la notte tra il 17 e il (OMISSIS), ritraenti il comportamento serbato dell'imputato durante la commissione dei delitti.
2.3. Con il terzo motivo, il ricorso deduce, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., la inosservanza o erronea applicazione degli art. 228 c.p.p., e art. 398, comma 5, c.p.p., con conseguente inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'imputato nel corso della seduta peritale del 2 gennaio 2018. La Corte di assise di appello di Venezia avrebbe fondato l'affermazione della capacità di intendere e volere dell'imputato sulle dichiarazioni da lui rese al perito, Dott. R., il cui utilizzo a fini probatori avrebbe violato gli art. 228 c.p.p., comma 3, e art. 191 c.p.p., non essendo consentito utilizzare informazioni rese dal periziando al di fuori dell'accertamento, mentre il racconto di P. al Dott. R. sarebbe stato, invece, valutato nella ricostruzione storica del fatto e per confrontarlo con le dichiarazioni rese dall'imputato in sede di interrogatorio al Pubblico ministero.
2.3.1. Inoltre, sempre con il terzo motivo, il ricorso lamenta la inosservanza o erronea applicazione dell'art. 70 c.p.p., nonché la mancanza della motivazione in ordine all'accertamento della capacità dell'imputato, frettolosamente liquidata da una lettura superficiale delle dichiarazioni rese dall'imputato al perito. La Corte territoriale, nel capitolo 5 della sentenza, dedicato alla capacità di intendere dell'imputato, non valuterebbe tale tema, quanto quello della coerenza delle sue dichiarazioni, quasi che da essa potesse trarsi un giudizio tecnico di capacità di intendere e volere del dichiarante; sul presupposto che il suo racconto sia stato frutto di una sua linea difensiva maldestra.
Nella sentenza impugnata non si troverebbe traccia dei motivi che avrebbero indotto la Corte di assise di appello di Venezia a fare proprie le conclusioni del Dott. G.R.; mentre la relazione del consulente della difesa verrebbe liquidata in poche righe a pag. 28, in quanto in contrasto con le valutazioni del perito, del consulente tecnico del Pubblico ministero e del consulente tecnico della parte civile e in quanto "smentita dai fatti".
Quanto alla premeditazione, essa verrebbe utilizzata per confermare la capacità di intendere e volere, non considerando che in alcuni casi la coerenza logica delle azioni del soggetto può coesistere con la psicopatologia. Dunque, la motivazione sarebbe mancante, sia in relazione alle ragioni per cui si è ritenuto di condividere le conclusioni del perito; sia in relazione alla mancata disamina delle osservazioni del consulente tecnico della difesa, totalmente ignorate.
La sentenza avrebbe obliterato tutti gli elementi dai quali sarebbe univocamente emerso che l'imputato non fosse in grado di compiere un corretto esame di realtà, essendo convinto che A.S. lo amasse, come dimostrato dall'episodio dell'aeroporto (OMISSIS) o dalle confidenze di P. a F.D.P., cui aveva detto di sentirsi l'amante della ragazza; nonché dalla decisione di acquistare addirittura un immobile, per trasformarlo nel loro "nido d'amore". E la stessa decisione di punire il supposto tradimento, sarebbe stata indicativo. del suo stato delirante, con il progressivo prevalere, sul proprio "Io pubblico", dell'"Io privato", con la necessità di una consolazione dapprima solo immaginata, poi effettivamente ricercata.
Non tenendo conto di tutte le riferite circostanze, che avrebbero dovuto indurlo a diverse conclusioni, e omettendo di prendere in considerazione le censure mosse alla sentenza di primo grado, il Giudice di appello sarebbe caduto in un grave errore motivazionale.
2.4. Con il quarto motivo, il ricorso denuncia, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), la inosservanza o erronea applicazione dell'art. 577 c.p., comma 1, n. 3, nonché la contraddittorietà della motivazione in relazione alla premeditazione, la cui sussistenza non sarebbe stata accertata "al di là di ogni ragionevole dubbio".
2.5. Con il quinto motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il vizio di motivazione in relazione alla configurabilità del dolo intenzionale, che i Giudici di seconda istanza avrebbero confuso con l'intento punitivo perseguito da P. nei confronti della donna ovvero con il movente, da tenere distinto dalla volontà e dall'intenzione di provocarne la morte.
2.6. Con il sesto motivo, il ricorso censura, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), la mancanza della motivazione in relazione al dolo intenzionale rispetto all'omicidio di A.S. e alla correlata interruzione della gravidanza, nonché rispetto alla mancata qualificazione del primo fatto ai sensi dell'art. 586 c.p., essendo la morte della donna conseguenza non voluta dell'azione di sedazione finalizzata alla commissione della violenza sessuale e, in particolare, della penetrazione del cloroformio nelle vie aeree.
2.7. Con il settimo motivo, il ricorso deduce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), la inosservanza o erronea applicazione degli art. 41 c.p., comma 2, e art. 577 c.p., comma 1, n. 2, nonché la manifesta illogicità della motivazione quanto al riconoscimento dell'aggravante del mezzo insidioso o venefico.
2.8. Con l'ottavo motivo, il ricorso denuncia, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 410 c.p. e 1, L. n. 578 del 1993, nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al dolo del delitto di vilipendio di cadavere.
2.9. Con il nono motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 76 e 122 c.p.p., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla proposta eccezione di inammissibilità della costituzione della parte civile di B.S., avvenuta a mezzo dell'avv. M., sostituto processuale dell'avv. R., difensore fiduciario e procuratore speciale per la predetta costituzione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è parzialmente fondato e, pertanto, deve essere accolto per quanto di ragione e rigettato nel resto.
2. Muovendo dal primo motivo di censura, la difesa lamenta la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da P.S. agli operatori del "113" e al personale di polizia giudiziaria intervenuto subito dopo la sua telefonata al numero di emergenza; dichiarazioni che sarebbero state valorizzate dalle due sentenze di merito per trarne elementi a sostegno del dolo di omicidio e, finanche, della premeditazione dei delitti contestati al capo A).
2.1. Nel dettaglio, quanto alla chiamata al "113", la difesa prospetta l'applicazione dell'art. 63, comma 2, c.p.p., atteso che P. avrebbe dovuto essere interrogato ab origine in qualità di imputato o di indagato, dal momento che egli si sarebbe accusato subito del duplice omicidio, descrivendo, in risposta a specifiche domande dell'interlocutore telefonico, le modalità dell'azione e le condotte da lui successivamente tenute; sicché le sue dichiarazioni non potrebbero essere utilizzate né contra se né contra alios.
Analogamente, quanto all'interrogatorio delle ore 3.35 del (OMISSIS), videoregistrato dalla polizia giudiziaria e trascritto nell'annotazione di pari data, difetterebbe il requisito della spontaneità richiesto dall'art. 350, comma 7, c.p.p.. Ciò in quanto P. era stato tratto in arresto alle ore 3.30 e aveva, quindi, acquisito, sin da tale momento, la qualifica di indagato; e in quanto le sue dichiarazioni autoindizianti non potevano definirsi spontanee, essendo state evidentemente provocate attraverso il susseguirsi di domande e risposte tra il soggetto e l'operatore di polizia. E trattandosi di inutilizzabilità patologica, il vizio non avrebbe potuto essere "sterilizzato" dalla scelta del rito abbreviato.
2.2. Il motivo è inammissibile in quanto generico e, in ogni caso, manifestamente infondato.
Preliminarmente, giova evidenziare che secondo quanto riportato nelle due sentenze di merito P. ha reso, nel corso delle indagini preliminari, una pluralità di dichiarazioni: dapprima all'operatore del "113"; indi al personale di polizia giudiziaria accorso sul luogo del duplice omicidio a seguito della sua telefonata; poi, nei locali della Squadra mobile di Venezia, ove era stato condotto dubito dopo il suo arresto. E, ancora, al Pubblico ministero in sede di interrogatorio dopo l'avviso di conclusione delle indagini preliminari ai sensi dell'art. 415 bis c.p.p..
Di tutto questo materiale dichiarativo, la Corte territoriale ha espressamente affermato l'utilizzabilità a fini probatori, con l'eccezione delle dichiarazioni rese nei locali della Squadra mobile, documentate da un filmato, sul rilievo che, in tale frangente, egli si trovava in stato di arresto ormai da diverse ore, sicché, anche per le modalità dell'interlocuzione con gli operatori, realizzata tramite domande e risposte, i Giudici di appello hanno ritenuto di escluderne la spontaneità. Per tale motivo, ne è stata, dunque, esclusa l'utilizzazione a fini probatori, in applicazione del comma 1 dell'art. 350 c.p.p., a mente del quale gli ufficiali di polizia giudiziaria possono assumere, con le modalità previste dall'art. 64, sommarie informazioni utili per le investigazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, sempre che essa non si trovi in stato di arresto o di fermo a norma dell'art. 384 e nei casi di cui all'art. 384 bis del codice di rito.
Rimangono, dunque, da prendere in considerazione le ulteriori dichiarazioni, rese all'operatore del "113" e agli agenti di polizia giudiziaria giunti sul posto a seguito della chiamata, rispetto alle quali deve condividersi, sotto diversi profili, il giudizio di piena utilizzabilità.
2.3. In argomento, va osservato che l'art. 350 c.p.p., delinea un preciso statuto giuridico delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria dalla persona sottoposta a indagine, dettando una serie di regole che sono accomunate dall'esigenza di garantire il dichiarante rispetto al pericolo di indebite pressioni o comunque di forme di condizionamento da parte dei soggetti interroganti, i quali, ovviamente, si trovano in una posizione di forza rispetto alla persona indagata.
Dell'interrogatorio ai sensi dell'art. 64 c.p.p., cui la polizia giudiziaria può procedere nei confronti dell'indagato che non si trovi in stato di arresto o di fermo, si è già detto. Va, peraltro, precisato che nei confronti di tale soggetto, sia che si trovi in stato di libertà, sia che sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo, è comunque consentito agli ufficiali di polizia giudiziaria assumere, anche in assenza del difensore, notizie e indicazioni utili, a condizione che ciò avvenga "sul luogo o nell'immediatezza del fatto" e che l'acquisizione sia finalizzata unicamente alla "immediata prosecuzione delle indagini" (comma 5), fermo il divieto, ove essa sia avvenuta in assenza del difensore, di qualunque "documentazione e utilizzazione" (comma 6). Peraltro, il successivo comma 7 dell'art. 350 c.p.p., stabilisce che la polizia giudiziaria può, altresì, ricevere dichiarazioni "spontanee" dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, le quali, pur non potendo essere utilizzate nel dibattimento (fatto salvo, comunque, quanto previsto dall'art. 503, comma 3, c.p.p.), sono pacificamente ritenute utilizzabili nella fase procedimentale e, dunque, nell'incidente cautelare e negli eventuali riti a prova contratta (Sez. 4, n. 2124 del 27/10/2020, dep. 2021, Minauro, Rv. 280242-01; Sez. 1, n. 15197 del 8/11/2019, dep. 2020, Fornaro, Rv. 279125-01), ivi compreso, ovviamente, il giudizio abbreviato (Sez. 5, n. 18048 del 1/2/2018, S., Rv. 273745-01; Sez. 5, n. 32015 del 15/3/2018, Carlucci, Rv. 273642-01; Sez. 5, n. 13917 del 16/2/2017, Pernicola, Rv. 269598-01; Sez. 1, n. 35027 del 4/7/2013, Voci, Rv. 257213-01), sempre che emerga, con chiareiza, che l'indagato abbia scelto di renderle liberamente, ossia senza alcuna coercizione o sollecitazione da parte degli operatori (Sez. 3, n. 20466 del 3/4/2019, S., Rv. 275752-01; Sez. 2, n. 26246 del 3/4/2017, Distefano, Rv. 271148-01; Sez. 2, n. 14320 del 13/3/2018, Basso, Rv. 272541-01).
Nel caso in esame, le dichiarazioni rese al "113" sono certamente da considerarsi "spontanee", innanzitutto per le caratteristiche della loro genesi, essendosi al cospetto di una interlocuzione avviata dallo stesso dichiarante, che, senza alcuna forma di coercizione, si era determinato a sollecitare l'intervento della polizia giudiziaria e sono, pertanto, pienamente utilizzabili nel procedimento a prova contratta. Ne' varrebbe evidenziare, in contrario, che, nel corso della telefonata, il dichiarante aveva risposto alle domande dell'operatore, essendosi in presenza di un dialogo che non poteva che articolarsi attraverso domande e risposte per la sua particolare natura, trattandosi di una segnalazione che l'agente di polizia era chiamato a scrutinare al fine di vagliarne, innanzitutto, la sua genuinità e per escludere, dunque, qualunque falsa segnalazione. E che, infine, dovesse escludersi, nella specie, qualunque forma di coercizione ai danni del dichiarante è reso evidente dalla peculiare forma dell'interlocuzione, realizzata a distanza, con il mezzo del telefono, da parte di un soggetto che, in qualunque momento, avrebbe potuto interrompere la conversazione, sottraendosi a domande incalzanti o comunque idonee a condizionarne il contenuto.
Analogamente, quanto alle dichiarazioni rese da P. al personale di polizia prontamente accorso sul luogo del duplice omicidio, anche in questo caso si è in presenza di dichiarazioni libere e spontanee, rispetto alle quali non è dato ricavare alcuna forma di coartazione, peraltro prospettata dal ricorso soltanto genericamente, senza riferirla a specifici e concreti indicatori.
2.4. Sotto altro profilo, va evidenziato come la sentenza impugnata abbia, comunque, messo in rilievo che le dichiarazioni in questione corrispondevano a quelle successivamente rese dall'interessato in occasione dell'interrogatorio davanti al Pubblico ministero ex art. 415 bis c.p.p., stavolta compiuto alla presenza del difensore, che devono, pertanto, ritenersi pacificamente utilizzabili quand'anche precedute da dichiarazioni alla polizia giudiziaria non utilizzabili per difetto del requisito della spontaneità (Sez. 1, n. 45550 del 29/9/2015, EI Gharbi, Rv. 265285-01; Sez. 1, n. 8632 del 10/2/2009, Pacicca, Rv. 242847-01). E se tale circostanza è negata dalla difesa, secondo cui, in quella occasione, P. non avrebbe confermato le precedenti dichiarazioni, la relativa deduzione è articolata in maniera del tutto generica, non essendo stato chiarito, in sede di ricorso, su quali aspetti egli, stando alla relativa doglianza, si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere. E del resto non va, nemmeno, sottaciuto che il passaggio del suo racconto in cui l'imputato, nel corso della chiamata al "113", aveva sostenuto che la sua condotta era stata la conseguenza di quanto aveva dovuto "subire" dalla ragazza, da lui considerata "egoista e ingrata", nonostante le manifestazioni di "affetto e benevolenza" che le avrebbe riservato, appare in ogni caso del tutto corrispondente alla versione difensiva, continuamente ribadita nel corso del processo: da qui, una sostanziale adesione della stessa difesa alla utilizzabilità dei passaggi dichiarativi in questione, il cui contenuto non viene affatto contestato, ma, appunto, posto a base della linea difensiva.
Consegue alle considerazioni che precedono, la sostanziale irrilevanza della questione dedotta, sia sotto il profilo dell'incidenza sul compendio probatorio, peraltro costituito da una mole cospicua di solidissimi elementi probatori, sia rispetto al momento della sua valutazione complessiva; e, in definitiva, la genericità della relativa doglianza, la quale, in ogni caso, deve ritenersi manifestamente infondata.
3. Con il secondo motivo, la difesa prospetta una serie di censure che, pur ruotando intorno al rigetto della richiesta di rinnovazione della perizia psichiatrica (formulata già in primo grado e ribadita in sede di appello), appaiono di natura e portata differenti.
Invero, il ricorso lamenta, sotto un primo profilo, la non correttezza, sul piano metodologico, del procedimento di acquisizione di informazioni utili per la diagnosi seguito dal perito, il quale non avrebbe visionato una parte cospicua del materiale disponibile; e non avrebbe approfondito lo scarto tra i comportamenti "pubblici", riscontrati dallo stesso perito e dalla sua ausiliaria, e il disagio vissuto da P. nella sua dimensione privata, dovuto a una condizione psicopatologica associata a una parafilia (o perversione sessuale) che l'uomo non sarebbe stato in grado di controllare, prevenire e sospendere. E, sul piano strettamente giuridico, sottolinea l'illegittimo frazionamento delle dichiarazioni rese dall'imputato nel corso del colloquio, alcune delle quali sarebbero state ritenute attendibili, mentre altre sarebbero state diversamente apprezzate, in violazione dei criteri di valutazione della prova dettati dall'art. 191 c.p.p..
Sotto altro profilo, la difesa si duole della motivazione con cui sarebbe stata respinta la richiesta di rinnovazione, che i Giudici di merito avrebbero giustificato con le riserve avanzate dallo stesso perito sulla utilità di un approfondimento in merito alle riferite tendenze coprofiliche dell'imputato; riserve fondate sulla possibilità che la genuinità delle risposte del periziando fosse condizionata da un atteggiamento manipolativo nelle risposte. In realtà, opina la difesa, il perito, Dott. R., nel corso dell'esame davanti al primo Giudice all'udienza del 2/7/2018, avrebbe giustificato la supposta inattendibilità di quanto riferito dall'imputato con il suo balbettio, ritenuto indice di simulazione dello stato di infermità, così contraddicendo la parte della sua audizione nella quale lo stesso perito avrebbe affermato di non aver compreso il motivo per cui P., a volte, avrebbe descritto la sue azioni, mentre, altre volte, non sarebbe stato in grado di farlo. Tanto più che, nel corso dell'incidente probatorio sulla capacità di intendere e volere dell'imputato, la Dott.ssa Spacca, ausiliario del perito, avrebbe escluso la presenza di "elementi indicativi di aspetti di franca simulazione o dissimulazione di malattia mentale"; e che lo stesso Dott. R., nel corso dell'incidente probatorio, avrebbe riferito che P. aveva "mostrato consapevolezza sulle finalità dei colloqui, apparente disponibilità e sostanziale sincerità". Tali elementi, continua la difesa, sarebbero indicativi di un atteggiamento di pregiudizio del perito nei confronti dell'imputato, reso evidente anche dalle modalità di svolgimento del colloquio clinico, nel corso del quale il Dott. R. avrebbe incalzato P., pur sapendo che costui soffriva di un "blocco" che gli avrebbe impedito di esternare quegli aspetti dell'Io che lo stesso periziando considerava "disdicevoli". Dunque, l'analisi completa delle videoriprese effettuate da P. nel corso della notte del duplice omicidio avrebbe offerto uno spaccato della realtà vissuta dall'imputato, confermando la diagnosi effettuata dal consulente tecnico della difesa.
3.1. Muovendo dalle doglianze che attengono al profilo della asserita prevenzione del perito, il quale sarebbe stato mosso da un pregiudizio nella valutazione della condizione dell'imputato, osserva il Collegio che le censure difensive sono state formulate apoditticamente, non emergendo alcun concreto elemento idoneo ad asseverarle. Invero, dalla lettura delle due sentenze appare che la asserita "prevenzione" da parte del Dott. R. sia, in realtà, il frutto di una motivata interpretazione dell'atteggiamento assunto dal periziando nel corso degli accertamenti e dal forte sospetto, frutto di un ragionamento tecnico, di condotte manipolative da parte di P., su cui il perito ha motivatamente espresso il proprio convincimento. Di tal che la prevenzione del Dott. R. non può ritenersi certo dimostrata, se non con una evidente circolarità logica dell'argomentazione, dal fatto di avere disatteso l'opposta interpretazione offerta dal consulente della difesa.
Quanto, poi, alla prospettata violazione delle regole dell'accertamento probatorio in ragione della lettura frazionata delle dichiarazioni di P., la censura in esame nasconde un evidente fraintendimento.
E' pacifico, alla stregua di una consolidata interpretazione giurisprudenziale, che le dichiarazioni rese dal periziando possano essere utilizzate unicamente ai fini propri dell'accertamento tecnico e non certo in sede di ricostruzione dei fatti oggetto di imputazione (sul punto v. infra p. 4.1). Ne consegue che il richiamo alle regole sul frazionamento delle dichiarazioni appare del tutto improprio, non vertendosi, nella specie, nell'ambito di un ragionamento probatorio strettamente inteso sugli accadimenti ascritti all'imputato. In ogni caso, la sentenza ha spiegato in maniera perfettamente logica e coerente per quale ragione il dato relativo alle presunte tendenze coprofiliche dell'imputato sia stato ritenuto non significativo e come, lo stesso, sia stato ritenuto dal perito un tentativo, maldestro, di inserire nel giudizio sulla situazione psichiatrica del soggetto di elementi inesistenti. Fermo restando che, come noto, la coprofilia è una parafilia che afferisce all'area dei disturbi della sfera sessuale e che, pertanto, non fa pacificamente venire meno la capacità di intendere e di volere, salvo che ricorra un disturbo psichiatrico maggiore, che qui non è stato affatto accertato (Sez. 3, n. 6818 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262413-01; Sez. 3, n. 38896 del 23/4/2013, C., Rv. 25669101; Sez. 3, n. 15157 del 16/12/2010, dep. 2011, F., Rv. 249899-01).
Quanto, infine, alla asserita incompletezza della perizia, derivante dalla mancata disamina di alcuni files, il motivo è del tutto generico, non avendo il ricorso spiegato in che modo la visione di quel materiale avrebbe portato a un differente apprezzamento da parte del perito, tanto più che alcuni files non erano stati visti nemmeno dal consulente della difesa. Per quanto, poi, riguarda i filmati della sera del duplice omicidio, la sentenza ha specificamente riportato la circostanza che il perito, diversamente da quanto dedotto dalla difesa, aveva dato atto della loro visione da parte di tutti i consulenti tecnici, sicché, anche sotto tale aspetto, le censure si rivelano infondate.
4. Con il terzo motivo, la difesa ha dedotto due distinte questioni.
4.1. Sotto un primo aspetto, il ricorso sembra lamentare, nella sua iniziale enunciazione, l'indebita utilizzazione delle dichiarazioni rese da P. ai fini del giudizio sulla capacità di intendere e di volere; ovvero, nel proseguo, la indebita utilizzazione delle stesse in punto di ricostruzione del fatto.
Rileva, in proposito, il Collegio che l'utilizzazione delle dichiarazioni rese da P. nel corso del colloqui con il perito non configura alcuna violazione di norme processuali, essendo ovvio che, a tali fini, esse possono essere utilizzate, posto che, anzi, in genere il giudizio peritale si fonda anche sul cd. colloquio clinico con il periziando e che, dunque, esso non può prescindere dall'utilizzazione, a tali limitati fini, di quanto il soggetto riferisce.
Quanto, poi, all'eventuale utilizzazione delle dichiarazioni rese in sede di colloquio peritale ai fini dell'accertamento della responsabilità, si è già detto che, in termini generali, essa non è in alcun modo consentita, anche con riferimento al caso del giudizio abbreviato (Sez. 1, n. 21185 del 2/12/2015, dep. 2016, Scoponi, Rv. 266883 - 01; Sez. 4, n. 5610 del 16/10/2013, Foti, Rv. 258178; Sez. 3, n. 16470 del 10/2/2010, Ispas, Rv. 246602). E ciò per l'ovvia esigenza di porre il perito nelle condizioni di svolgere nella maniera migliore il suo incarico, acquisendo dall'imputato tutte le notizie necessarie e utili, senza reticenze o remore legate al timore che le informazioni fornite da quest'ultimo possano essere utilizzate per l'accertamento della sua responsabilità. Tuttavia, nel caso in esame, la relativa contestazione si palesa come del tutto generica, non evidenziando il ricorso, con la necessaria precisione, quale profilo del fatto sia stato accertato in base a esse, tanto più in considerazione, come già evidenziato, della mole assolutamente cospicua di elementi a carico dell'imputato. Ove, poi, si ritenesse che la censura si riferisca alla ritenuta sussistenza della premeditazione, deve osservarsi come sia la stessa difesa dell'imputato a sostenere la tesi secondo cui P. avrebbe manifestato atteggiamenti deliranti nella lettura, manifestamente incongrua, della realtà e come, proprio a partire da essi, fosse insorta la volontà di un'azione punitiva ai danni della donna. Con ciò sostanzialmente ammettendo che il proposito criminoso si radicava in un contesto temporale risalente e che esso era stato saldamente mantenuto, nell'imputato, durante l'accurata attività preparatoria, con l'acquisto dell'occorrente per attuale il piano, il successivo invito a cena rivolto alle inconsapevoli vittime, l'attuazione del progetto criminoso, con il suo drammatico epilogo.
4.2. Sotto un secondo profilo, la tesi secondo cui l'analisi del perito ‘sarebbe stata incompleta è stata fondata sul fatto che gli argomenti svolti dal consulente tecnico della difesa sarebbero stati confutati solo superficialmente.
In realtà, le considerazioni svolte, sul punto, nel ricorso assumono un carattere marcatamente rivalutativo, ribadendosi le conclusioni cui è pervenuto il consulente tecnico di parte per arrivare ad affermare, in maniera sostanzialmente apodittica, l'incompletezza delle diverse conclusioni del perito, di fatto sollecitando un nuovo apprezzamento della correttezza delle due ipotesi ricostruttive, che all'uopo vengono giustapposte. Operazione, questa, pacificamente preclusa in sede di legittimità, cosicché la relativa censura si rivela, in conclusione, inammissibile.
5. Procedendo nell'analisi delle ulteriori doglianze, è necessario soffermarsi sulle questioni, articolate, secondo l'ordine logico, con il quinto, il sesto e il quarto motivo; censure che attengono, in varia guisa, all'atteggiarsi dell'elemento soggettivo, del movente e delle circostanze aggravanti ad esso afferenti e che appare opportuno esaminare congiuntamente.
5.1. Con il quinto motivo, il ricorso prospetta il vizio di motivazione della sentenza in relazione alla configurabilità del dolo intenzionale, la cui esistenza sarebbe stata apoditticamente affermata a partire dalla individuazione del movente, che con il primo sarebbe stato "confuso".
. Con il sesto motivo, la difesa si duole, invece, della motivazione con cui la sentenza impugnata avrebbe erroneamente escluso che l'intento dell'imputato fosse unicamente quello di abusare sessualmente di A.S.. La Corte territoriale, avrebbe all'uopo valorizzato il fatto che P., secondo quanto ricavabile. dalle immagini del filmato che documentava le violenze, aveva continuato a premere, con lo straccio imbevuto di cloroformio, sul viso della ragazza anche quando ella era, ormai, priva di sensi, costringendola a ingerire la sostanza in quantità tali da rendere inverosimile che l'imputato potesse credere fossero innocue per la salute.
In questo modo, però, i Giudici di appello avrebbero tralasciato talune circostanze evidenziate dalla difesa. Invero, se P. avesse inteso uccidere i due fidanzati, la quantità usata per addormentarli sarebbe stata ben maggiore rispetto a quella realmente utilizzata, in grado di sedare una persona soltanto per 5 ore. La stessa decisione dell'imputato di girare dei filmati per documentare l'abuso su A. dimostrerebbe che egli intendeva commettere un reato diverso da quelli poi realizzati. E anche le ricerche via internet su episodi di stupro mediante sedazione con il cloroformio dimostrerebbero che il suo intento era unicamente quello di abusare sessualmente della giovane. Per le stesse ragioni, rileva ancora la difesa, mancherebbe un'adeguata motivazione in relazione alla presenza del dolo anche rispetto al reato contestato al capo C).
Infine, con il quarto motivo la difesa sostiene che tutte le azioni preparatorie poste in essere da P. e richiamate dal Collegio veneziano (dal video in cui egli si masturbava, orinava e defecava sulla foto di A., pronunciando frasi volgari e offensive al suo indirizzo, all'acquisto dei divaricatori, della fascia frontale per il cellulare, del cloroformio e dello Stilnox; dal reperimento dell'attrezzo in ferro usato per colpire B., allo spostamento della propria autovettura nel parcheggio del centro commerciale (OMISSIS)) sarebbero compatibili con l'intenzione di "punire" A.S. usandole violenza sessuale, così come raffigurato nel video scaricato dall'imputato, nel quale veniva usato del cloroformio sulle ragazze per violentarle; scena che sarebbe stata esattamente riprodotta sulla vittima.
Le censure in esame sono, però, manifestamente infondate.
5.1. Partendo dal quinto e dal sesto motivo, diversamente da quando dedotto dalla difesa, la sentenza impugnata non ha, affatto, confuso il movente con il dolo, dedicando un distinto paragrafo a ciascuno dei due aspetti.
Quanto al primo, la stessa difesa, allo scopo di sostenere la tesi dell'incapacità di intendere e di volere dell'imputato, ha ricondotto l'azione delittuosa alla sua volontà di vendicarsi della ragazza per il fatto di non avere corrisposto alle sue profferte e per averlo condotto in uno stato di profonda prostrazione nervosa. Profilo, questo, che si è nutrito delle ripetute ammissioni dello stesso P. e rispetto al quale i Giudici di merito non hanno manifestato alcun dubbio o perplessità, nemmeno seriamente affacciata in sede di ricorso.
Quanto, invece, alla questione del dolo omicidiario, la tesi difensiva, secondo cui l'imputato avrebbe inteso unicamente abusare sessualmente di A.S. e secondo cui, dunque, la morte dei due giovani sarebbe il frutto, non voluto, di una progressione che egli non sarebbe riuscito ad arrestare, è stata puntualmente sottoposta a osservazioni critiche concludenti da parte della sentenza impugnata, la quale ha, al contrario, richiamato i plurimi elementi denotanti l'intenzionalità della condotta omicidiaria. In particolare, i Giudici di merito hanno puntualmente rappresentato la condotta ripresa dalle immagini e, segnatamente, l'azione con cui l'imputato aveva fatto ingerire la sostanza tossica alla ragazza e, al contempo, soffocandola, con un'azione combinata, per mezzo di uno straccio imbevuto di cloroformio. Incisivamente, inoltre, la sentenza di appello ha ricavato il dato della intenzionalità della condotta omicidiaria anche dall'atteggiamento tenuto dall'imputato subito dopo la morte della ragazza, allorché si era accanito sul corpo ormai senza vita; atteggiamento che, del tutto logicamente, è stato ritenuto indicativo del fatto che l'evento mortale non fosse affatto inaspettato, ma voluto e, anzi, premeditato. Un omicidio, quello di A.S., che, dunque, presenta tutti i tratti tipici del cd. femminicidio, ovvero di quella particolare fenomenologia criminale che spesso rappresenta, nella pratica giudiziaria, l'epilogo drammatico di rapporti fondati sul dominio violento da parte dell'uomo ai danni della donna e sulla negazione del diritto, da parte di quest'ultima, di decidere liberamente della propria vita e delle proprie relazioni; negazione nella specie attuata anche con le condotte di violenza sessuale e con la soppressione del partner della ragazza. E del tutto logicamente, una volta dimostrato il dolo intenzionale di omicidio della donna, i Giudici di merito hanno coerentemente ritenuto di ravvisare anche il dolo diretto del procurato aborto, essendo P. pienaniente consapevole dello stato di gravidanza in cui la donna versava.
5.2. Venendo alle questioni relative alla configurabilità della premeditazione, va premesso che la circostanza aggravante in parola sussiste ove ricorrano due specifici requisiti, ovvero: un apprezzabile intervallo temporale tra l'insorgenza del proposito criminoso e la sua concreta attuazione, tale da consentire una ponderata riflessione circa l'opportunità di un recesso dalla relativa risoluzione (elemento di natura cronologica); nonché il permanere del proposito criminoso nell'animo dell'agente, senza soluzioni di continuità, sino alla commissione del reato (elemento di natura ideologica) (Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, dep. 2009, Antonucci, Rv. 241575; Sez. 5, n. 34016 del 9/4/2013, F., Rv. 256528; Sez. 5, n. 42576 del 3/6/2015, Procacci, Rv. 265149). E per quanto specificamente riguarda l'elemento cronologico, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come la necessità che sussista una estensione temporale, tale da consentire la rivalutazione della decisione assunta e da far prevalere la spinta alla commissione del reato rispetto alla concorrente azione di eventuali freni inibitori, comporti un'attenta valutazione, al di là di una mera quantificazione del dato temporale, di una serie di elementi estrinseci che possano ritenersi sintomatici della permanenza del proposito criminoso. Elementi che la giurisprudenza ha esemplificativamente individuato nella causale dell'azione, nell'anticipata manifestazione dell'intento poi attuato, non contraddetto da condotte opposte, nella ricerca dell'occasione propizia, nella meticolosa organizzazione e nell'accurato studio preventivo delle modalità esecutive, nella violenza e nella reiterazione dei colpi inferti (tra le altre, Sez. 1, 16711 del 17/01/2014, Troia, in motivazione).
Nel caso in esame, la motivazione offerta a sostegno della sussistenza dell'aggravante è del tutto adeguata, avendo la sentenza messo in correlazione tra loro, del tutto correttamente sul piano logico, una serie di circostanze fattuali, perfettamente collimanti sul piano della ricostruzione proposta, così rinvenendo entrambi gli indicatori evidenziati dalla richiamata giurisprudenza di legittimità, ovvero: le pratiche autoerotiche poste in essere da P., già diversi mesi prima dell'omicidio, nelle quali egli immaginava atti di abuso sessuale violento, rivolgendo alla foto della ragazza frasi volgari e offensive; la visione di un video nel quale veniva usato del cloroformio su due ragazze per violentarle; l'acquisto dei divaricatori, del cloroformio, dello Stilnox, dell'attrezzo in ferro utilizzato per colpire B.B.; lo spostamento, la stessa mattina dell'omicidio, della propria autovettura nel parcheggio del centro commerciale (OMISSIS) di (OMISSIS), per averla a disposizione dopo che avesse trasferito colà i corpi dei due giovani, trasportati con l'auto dello stesso B..
Elementi fattuali chiaramente indicativi dell'esistenza sia dell'elemento cronologico, sia dell'elemento ideologico, avendo l'imputato mantenuto fermo il proposito criminoso, per diversi mesi, senza alcun ripensamento.
Ne' può convenirsi con l'argomento difensivo secondo il quale tutti gli elementi di fatto valorizzati nella sentenza sarebbero compatibili con la volontà dell'imputato di abusare sessualmente della ragazza. Si pensi, invero, al tubo in ferro usato per uccidere B., acquistato dall'imputato via intemet come gli altri oggetti adoperati per portare a termine il piano criminale. Ma anche la tesi secondo cui P., dopo avere commesso l'abuso sessuale, avrebbe voluto trasportare le due vittime nel parcheggio, senza ucciderle, è stata confutata con argomentazioni logiche e coerenti, essendo del tutto inverosimile, secondo la comune esperienza, che i due giovani, al risveglio, non si facessero domande su come potevano essere arrivati in quel luogo dalla casa di P., apparendo del tutto improbabile, per un soggetto del livello culturale dell'imputato, fare affidamento su un dato così aleatorio come una possibile amnesia retrograda prodotta dal principio attivo del farmaco che aveva somministrato (Zolpidem). E quanto alla tesi difensiva secondo la quale se avesse premeditato di uccidere i due fidanzati P. avrebbe ucciso, per primo, B., onde evitare che costui potesse impedirgli di consumare l'abuso sessuale su A., la sentenza impugnata ha offerto una risposta del tutto logica e congrua, osservando che dopo la somministrazione dello Stilnox e del cloroformio l'uomo non era nelle condizioni di potersi opporre al progetto criminale dell'imputato, in piena balia del quale egli si trovava e dal quale, come poi avvenuto, poteva essere facilmente ucciso in qualunque momento.
6. Con il settimo motivo, la difesa censura la ritenuta configurabilità dell'aggravante prevista dall'art. 577 c.p., comma 1, n. 2, che ricorre quando il delitto di omicidio sia commesso "col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un altro mezzo insidioso".
Dopo avere premesso che un comportamento è interruttivo del percorso causale originario quando sia eccentrico rispetto al rischio che il garante è chiamato a governare, la difesa censura l'affermazione secondo cui le modalità concrete dei decessi della S. (per soffocamento) e di B. (per colpo da corpo contundente) siano state una conseguenza "già consacrata dalla somministrazione di cloroformio in quantità letale", considerato che il rischio di morte per avvelenamento sarebbe radicalmente diverso da quello di morte per soffocamento o per trauma commotivo. Dunque, in mancanza di un'adeguata motivazione sulla consequenzialità tra le descritte condotte e l'evento morte, la Corte di assise di appello avrebbe illogicamente fatto discendere la sussistenza dell'aggravante del mezzo insidioso dalla somministrazione di un cocktail drogante. Inoltre, la sentenza sarebbe contraddittoria rispetto all'inciso secondo cui non sarebbe sufficiente a integrare l'aggravante in questione l'utilizzo di uno strumento quando lo stesso non provochi direttamente la morte della vittima, ma costituisca una mera modalità dell'azione, cioè una condotta fraudolenta tendente ad agevolare l'azione omicidiaria, compiuta con altro mezzo.
6.1. Il motivo è parzialmente fondato.
Va premesso che la Corte di assise.di appello di Venezia, nel confermare la sentenza di primo grado in relazione alla circostanza aggravante contestata al capo A), ne ha motivato la sussistenza sottolineando come l'imputato, oltre allo Stilnox sciolto nell'aperitivo, avesse somministrato ai due giovani una quantità letale di cloroformio. E come, nel caso della ragazza, la sostanza le fosse stata versata direttamente in bocca più volte, approfittando del suo stato di semi-incoscienza, contribuendo a causarne la morte per soffocamento; morte determinata, dunque, sia dalla ostruzione chimica delle vie respiratorie, sia dalle ripetute pressioni sul viso dello straccio intriso della sostanza narcotizzante. Mentre con riferimento all'uccisione di B.B., il colpo alla testa, reso possibile dallo stato di assopimento, aveva costituito solo un accelerazione del momento della morte, "già consacrata dalla somministrazione del cloroformio in quantità letale" (così la sentenza n. 13/2019, a pag. 35).
Sempre in premessa, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la circostanza aggravante dell'uso del mezzo insidioso, al pari dell'aggravante dell'uso di sostanze venefiche, ricorre soltanto quando esso provochi direttamente la morte e non anche quando costituisca una mera modalità dell'azione. E su tale premessa, è stata ritenuta legittima, in ipotesi analoga a quella qui esaminata, l'esclusione dell'aggravante in parola nel caso della somministrazione di un farmaco ipnotico utilizzato per rendere incosciente la vittima, in modo tale da renderne possibile l'uccisione mediante asfissia (Sez. 1, n. 6165 del 7/10/2019, dep. 2020, Casella, Rv. 278071 - 01; Sez. 1, n. 5793 del 8/2/1989, Ponessa, Rv. 181056-01; Sez. 1, n. 65 del 8/11/1993, dep. 1994, Iakovidis, Rv. 197711-01).
6.2. Tanto osservato, rileva il Collegio che le censure difensive sono infondate con riferimento alla morte di A.S..
Pacifico che il decesso, in questo caso, non sia conseguito, per ciò solo, all'assunzione del farmaco ipnoinduttore (lo Stilnox), non può dubitarsi che esso sia derivato, secondo le chiare conclusioni degli accertamenti necroscopici, dalla assunzione di una dose letale di cloroformio e, dunque, di una sostanza venefica, che condusse alla morte della ragazza in esito sia all'azione tossica prodotta dalla sostanza, che ella era stata costretta finanche a ingerire, sia all'ostruzione delle vie aeree della giovane prodotta dall'uso dello straccio intriso di cloroformio, con il conseguente effetto di soffocamento.
Nessun dubbio, dunque, può ragionevolmente formularsi in relazione alla sussistenza dell'aggravante contestata, essendo stato l'omicidio chiaramente eseguito con veneficio, attesa la ricordata tossicità del cloroformio utilizzato, come ben specificato dalla sentenza di appello a pag. 35. Conclusione, quella teste' accolta, che si pone in continuità anche con quella giurisprudenza, solo apparentemente eccentrica rispetto alle pronunce più sopra richiamate, secondo cui,ai fini della sussistenza dell'aggravante in esame, non è necessario che l'uso di sostanze venefiche sia stato la causa esclusiva della morte, essendo sufficiente in coerenza con il principio di equivalenza causale - che la loro somministrazione, per quantità e qualità, abbia comunque agevolato, innescandolo, in altro modo favorendolo, il processo causale determinante il decesso della vittima (Sez. 1, n. 15860 del 9/12/2014, dep. 2015, Crivellari, Rv. 263090 - 01, relativa a un caso in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza di condanna che aveva riconosciuto la sussistenza dell'aggravante in relazione a un evento caratterizzato da una massiccia ingestione di psicofarmaci, la quale si poneva quale concausa della morte unitamente al soffocamento realizzato con un sacchetto di plastica).
6.3. A diversa conclusione deve, invece, pervenirsi con riferimento alla morte di B.B., che la sentenza riconduce, senza alcun dubbio, ai colpi ricevuti alla testa dalla vittima, ai quali, pertanto, deve essere ricondotto, sul piano eziologico, l'evento letale. Rispetto a tale risultato offensivo e al relativo processo causale, la somministrazione, sia pure in concentrazioni letali, della sostanza tossica, non può assumere alcuna rilevanza sul piano eziologico, essendo la morte di B. riconducibile a una sequenza autonoma, innescata dai colpi al capo ricevuti dalla vittima. Va, infatti, ribadito che, in materia di causalità attiva, l'evento al quale deve aversi riguardo per verificare la idoneità della condotta secondo il paradigma condizionalistico della cd. condicio sine qua non è quello storicamente determinato, collocabile in uno specifico contesto spazio-temporale (l'evento hic et inde considerato), e individuato ex post (ovvero dopo la sua verificazione) e non quello che si sarebbe potuto determinare secondo una valutazione di idoneità ex ante della condotta in assenza di un nuovo e distinto fattore causale. Pertanto, l'evento morte da prendere in considerazione nella specie è quello determinato dall'azione costituita dal vibrare i colpi al capo della vittima e non quello, ipotetico, della morte che si sarebbe verificata per effetto della somministrazione di quantità letali della sostanza tossica (il cloroformio). Ne consegue che, una volta escluso il rapporto di derivazione causale tra la somministrazione della sostanza e la successiva morte e, conseguentemente, una volta escluso che il decesso della vittima sia stato direttamente "determinato", secondo la formula della richiamata giurisprudenza, dalla assunzione del cloroformio, deve conseguentemente escludersi la configurabilità dell'aggravante contestata.
Ne consegue, pertanto, che la sentenza impugnata deve essere annullata, senza rinvio, con riferimento all'aggravante del mezzo insidioso o venefico contestata per l'omicidio di B.B.. Tuttavia, deve escludersi, come meglio si rileverà, che nel caso qui in considerazione l'annullamento produca effetti sul trattamento sanzionatorio, avuto riguardo alla disciplina dettata, in materia di concorso di pene, dall'art. 72 c.p. (v. infra p. 9.1).
7. Con l'ottavo motivo, la difesa lamenta che nonostante le specifiche doglianze contenute nell'atto di appello in relazione alla ritenuta configurabilità del dolo del delitto di vilipendio di cadavere, non è stato accertato se gli atti sessuali compiuti dopo aver tastato il polso della donna fossero stati agiti nella convinzione che ella fosse ancora viva, atteso che, con tale modalità di accertamento, l'imputato, in realtà, non sarebbe stato in grado di verificare effettivamente se il cuore battesse ancora. In particolare, il ricorso evidenzia che la L. n. 578 del 1993, art. 1, identifica la morte dell'essere umano con "la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo". Per tale ragione, si sostiene che, anche a voler ammettere la mancanza di battito cardiaco nel momento in cui P. aveva tastato il polso della S., non sarebbe stato provato che, in quel momento, fosse già sopraggiunta la morte della donna e, pertanto, nemmeno il dolo generico dell'art. 410 c.p..
7.1. La censura è inammissibile.
Osserva, preliminarmente, il Collegio che nell'atto di appello era stata prospettata unicamente la insussistenza del dolo (generico) di vilipendio di cadavere (v. pag. 63 e seg. dell'atto di appello).
Ne consegue che l'odierna censura, benché apparentemente corrispondente a quella articolata al nono motivo dell'atto di appello, presenta un carattere di evidente novità, quantomeno con riferimento al profilo dell'elemento oggettivo, concernente il compimento di atti sessuali dopo che il decesso di A. Shukorova di era irreversibilmente verificato. Una circostanza, questa, che,,in considerazione della stretta afferenza della censura ad aspetti meramente fattuali, non può essere oggetto di alcun apprezzamento in sede di legittimità.
Una volta ritenuto non più revocabile in dubbio, in quanto tecnicamente non censurabile, che la donna era ormai deceduta al momento delle condotte di abuso, le quali erano state commesse, secondo quanto documentato dal filmato, dopo che ella aveva cessato di respirare, la questione relativa alla sussistenza dell'elemento soggettivo si configura come sostanzialmente reiterativa delle censure già espresse in sede di appello e congruamente scrutinate da parte della Corte territoriale. La sentenza impugnata, infatti, ha evidenziato come le immagini disponibili documentassero che, al minuto 20.40 del filmato, la donna non respirava più; e come, successivamente a tale momento, l'imputato le avesse tastato il polso proprio per verificarne il decesso, evidentemente dopo avere constatato l'assenza di attività respiratoria, con ciò manifestando un atteggiamento di chiara consapevolezza di quanto accaduto. Tanto più che, in ogni caso, gli atti sessuali erano stati compiuti anche al minuto 22.24 e al minuto 26.25, ovvero dopo circa sei minuti dal momento in cui ella aveva smesso di respirare (cfr. pag. 20 della sentenza di primo grado).
8. Con il nono motivo, il ricorso deduce violazione degli artt. 76 e 122 c.p.p. e vizio di motivazione in relazione alla legittimità della costituzione della parte civile di B.S., benché avvenuta in assenza di costei e del suo difensore di fiducia e procuratore speciale, alla sola presenza del sostituto processuale di quest'ultimo, avv. M. I Giudici di merito avrebbero erroneamente ritenuto sufficiente che, nella procura speciale rilasciata da B.S. all'avv. R., l'interessata avesse delegato espressamente l'avv. M. al deposito dell'atto in udienza. Infatti, gli artt. 76 e 122 c.p.p. richiederebbero che il potere di costituzione di parte civile sia espressamente conferito nella procura speciale; potere che, nella specie, non sarebbe stato attribuito dalla semplice delega rilasciata, alternativamente, all'avv. C. o all'avv. M.per il "deposito" dell'atto, tanto più che B.S. avrebbe espressamente individuato il solo avv. R. quale proprio procuratore speciale, affinché costui provvedesse alla costituzione di parte civile; sicché l'avv. C. e l'avv. M. avrebbero dovuto considerarsi meri procuratori speciali ad acta, in relazione al mero deposito dell'atto in udienza.
8.1. Il motivo è inammissibile in quanto in contrasto con il consolidato indirizzo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità.
In argomento, le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato, in primo luogo, che la legitimatio ad processum conferitagli con la procura speciale defensionale ex art. 102 c.p.p., non è idonea ad attribuire al difensore, accanto al potere di nomina di un sostituto, il potere di delegarlo alla costituzione di parte civile, non agendo la parte rilasciante la procura come titolare del rapporto processuale volto a promuovere l'istanza risarcitoria; tanto più che la procura defensionale difetta del requisito di cui all'art. 122 c.p.p., ovvero della determinazione dell'oggetto; e che, presupponendo la procura defensionale, con cui venga delegato il compito di stare in giudizio per conto del danneggiato, l'esistenza di una parte civile già costituita, un potere di sostituzione conferito con il solo mandato difensivo non potrebbe efficacemente operare sino a che la costituzione di parte civile non si sia perfezionata. Tuttavia, lo stesso danneggiato, con la procura speciale rilasciata ex artt. 76 e 122 c.p.p., ai fini della costituzione, può attribuire al difensore fiduciario la facoltà di farsi sostituire da altro difensore, al quale viene conseguentemente conferito il potere di costituzione per espressa volontà del titolare del diritto, dal quale, dunque, il sostituto ripete i suoi poteri (Sez. U, n. 12213 del 21/12/2017, dep. 2018, Zucchi, Rv. 272169-01).
Conformemente, la sentenza impugnata ha messo in evidenza la circostanza che la costituenda parte civile, B.S., nella stessa procura speciale rilasciata in data 8 maggio 2018 all'avv. R., aveva espressamente previsto, in qualità di titolare del diritto azionato, il conferimento di una delega all'avv. M., sostituto processuale, affinché provvedesse eventualmente al deposito dell'atto in udienza e, con esso, alla costituzione di parte civile. Tale adempimento soddisfa le condizioni indicate dalla suddetta pronuncia di legittimità, sicché l'opposta ricostruzione prospettata nell'odierno ricorso, peraltro sostanzialmente reiterativa della medesima censura già puntualmente disattesa, deve essere ritenuta manifestamente infondata.
9. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, limitatamente alla esclusione dell'aggravante prevista dall'art. 577 c.p., comma 1, n. 2, in relazione all'omicidio di B.B.. Nel resto, il ricorso deve essere, invece, rigettato.
9.1. Considerato che per l'omicidio di A.S. l'imputato è stato condannato alla pena dell'ergastolo e che per tutti gli ulteriori reati diversi dall'omicidio di B.B. gli era stata applicata una pena superiore ai cinque anni, in ogni caso, applicando la disciplina dettata dall'art. 72, comma 2, c.p., alla pena perpetua avrebbe dovuto sommarsi l'isolamento diurno, poi venuto meno per la diminuente del rito abbreviato. Pertanto, dall'annullamento senza rinvio conseguente alla esclusione dell'aggravante in questione, in relazione al solo omicidio di B., non deriva alcuna conseguenza in punto di trattamento sanzionatorio, il quale, conseguentemente, deve essere integralmente confermato.
9.2. Il parziale accoglimento dei motivi di ricorso non consente la condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali (Sez. 1, n. 3819 del 24/11/2016, dep. 2018, Bonaventura, Rv. 272283 - 01; Sez. 5, n. 7584 del 11/5/1983, Pagani, Rv. 160971-01; Sez. 4, n. 11824 del 4/6/1982, Paolino, Rv. 156587-01). Tuttavia, tenuto conto che le parti civili non avevano un interesse processuale in relazione al profilo inerente alla configurabilità della circostanza aggravante, rilevante unicamente in ordine alla questione del trattamento sanzionatorio e non alla quantificazione del danno dalle stesse patito, l'imputato deve essere condannato, secondo le regole generali in materia di soccombenza, alla rifusione delle spese del grado sostenute dalle parti civili B.V. e B.S.. Dette spese sono da liquidarsi, ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 agli artt. 12 e 16, , come modificato dal D.M. n. 37 del 2018, nella misura di 4.000,00 Euro, tenuto conto - in relazione alle voci precisate nella nota spese depositata dell'attività svolta e delle questioni trattate, cui devono aggiungersi gli accessori di legge, costituiti, ex art. 2 D.M. n. 55 del 2014, dalle spese forfettarie, da calcolarsi in misura del 15%, oltre all'IVA e al contributo per la Cassa previdenziale, da computarsi sull'imponibile.
9.3. Ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003 art. 52, e tenuto conto della particolare natura dei reati, in caso di diffusione del presente provvedimento dovranno omettersi le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
PER QUESTI MOTIVI
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 577, comma 1, n. 2, c.p., con riguardo al reato di omicidio in danno di B.B., contestato al capo A). Rigetta nel resto il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione, in favore delle parti civili B.V. e B.S., delle spese sostenute nel presente giudizio, che liquida per ciascuna in complessivi Euro 4,000,00, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto disposto d'ufficio e/o imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 21 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021