RITENUTO IN FATTO
1. Il sig. A.L. ricorre per l'annullamento della sentenza del 21/03/2018 della Corte di appello di Venezia che, in parziale riforma della sentenza del 26/03/2011 del Tribunale di Verona da lui impugnata: a) ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti in ordine al reato di cui al capo D della rubrica (art. 81 cpv. c.p., art. 613 c.p., commi 1 e 2, art. 61 c.p., n. 2) perchè estinto per prescrizione; b) ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti in ordine ai reati di cui ai capi E (art. 81 cpv. c.p., art. 609-bis c.p., commesso ai danni di F.J.) e G (art. 81 cpv. c.p., art. 609-bis c.p., commesso ai danni di Z.M.) per mancanza di querela; c) ha applicato ai residui reati di cui ai capi B (art. 81 cpv. c.p., art. 609-bis c.p., comma 2, commesso ai danni di L.M.), C (art. 81 cpv. c.p., art. 609-bis c.p., comma 2, art. 609-ter c.p., comma 1, n. 2, commesso ai danni di L.A.), ed F (art. 81 cpv. c.p., art. 609-bis c.p., comma 2, commesso ai danni di Fo.Lu.), la circostanza attenuante speciale della minore gravità del fatto di cui all'art. 609-bis c.p., u.c.; d) ha ridotto la pena rideterminandola nella misura di due anni e sei mesi di reclusione; e) ha revocato la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici; f) ha confermato nel resto la sentenza impugnata.
1.1. Con il primo motivo eccepisce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione in punto di affermazione della propria responsabilità in quanto frutto dell'errata valutazione sia delle risultanze processuali emerse in sede di incidente probatorio e in dibattimento che degli elementi di diritto posti a fondamento e riscontro dell'accusa in violazione dell'art. 192 c.p.p..
Deduce, in particolare: a) la mancata considerazione di elementi di prova risolutivi ai fini della decisione; b) il travisamento del fatto quale conseguenza dell'esclusione di più elementi rilevanti ai fini della decisione; c) la natura apparente della motivazione.
Sulla premessa che l'intera accusa si fonda sulle sole dichiarazioni degli avventori della discoteca, dichiarazioni claudicanti ed incerte e nella maggior parte dei casi smentite o esplicitamente ritrattate, denunzia la manifesta illogicità del ragionamento seguito dalla Corte di appello per disattendere, in palese violazione dei criteri di giudizio imposti dall'art. 192 c.p.p., le documentate spiegazioni difensive sulla riconducibilità di tali incongruenze alle indebite pressioni poste in essere dagli inquirenti al momento dell'assunzione delle sommarie informazioni testimoniali. Nel disattendere la tesi difensiva, la Corte si è munita, sostiene il ricorrente, di un criterio di giudizio (lo stato di agitazione dei testimoni da ricondurre alla loro età adolescenziale, alla loro abituale assunzione di sostanze alcoliche e stupefacenti, alla delicatezza dei temi trattati) la cui manifesta illogicità ed assertività può essere desunta: a) dall'illogico superamento dell'oggettivo contrasto delle dichiarazioni testimoniali, contrasto emerso in sede di incidente probatorio e in sede dibattimentale ed espressamente ricondotto dai testimoni alle pressioni della polizia giudiziaria in sede di prima verbalizzazione delle dichiarazioni coraggiosamente ritrattate nel contraddittorio tra le parti (nel ricorso sono indicate le "ritrattazioni" di B.M., C.P., S.D.); b) dalla neutralità probatoria della qualificata delicatezza degli argomenti trattati (aggettivazione comune a tutti i reati sessuali che di per sè non può far ritenere ogni volta scontata l'accusa) e dall'ambivalenza del richiamato stato di alterazione da sostanze alcoliche o stupefacenti che dovrebbe, semmai, deporre a favore della strutturale inattendibilità di chi versi in tali condizioni; c) dal travisamento degli elementi di prova.
Quanto a quest'ultimo aspetto, il ricorrente deduce che per ammissione degli stessi Giudici distrettuali le deposizioni sono pacificamente disseminate di "inesattezze" ed "alterazioni della concreta entità dei fatti" che essi superano senza spiegare il perchè ed anzi senza fornire alcuna risposta alle specifiche doglianze proposte al riguardo in sede di impugnazione della sentenza di primo grado, sì che la condanna più che di un giudizio appare essere il frutto di un pregiudizio. Il riferimento, in particolare, è alle dichiarazioni delle persone offese L.M. e L.A. le cui incongruenze o inesattezze non possono essere spiegate dalla Corte di appello con la difficoltà a ricordare episodi di vita quotidiana se, come nel caso di specie, tali episodi sono strettamente correlati agli abusi subiti. Il passaggio in auto dato dall'imputato al L.A. una sera di primavera dell'anno (OMISSIS) all'uscita della discoteca non può essere considerato un episodio marginale se tale passaggio costituiva l'occasione dei successivi abusi e dunque un modo per contestualizzare tali episodi. Le loro testimonianze, in particolare quella del L.A., contrastano con quelle rese da altri due testimoni (tali Fe. e D.) che hanno categoricamente smentito che l'Abdelfattah avesse pernottato in casa loro. Non si tratta, dunque, di semplici inesattezze o incongruenze ma di veri e propri contrasti tra versioni radicalmente differenti. Ora, se è vero che le dichiarazioni della persona offesa possono da sole fondare una sentenza di condanna, è altrettanto vero che è necessario un vaglio di credibilità più penetrante e severo, sopratutto se la persona offesa si è costituita parte civile, come nel caso di specie.
In conclusione, una corretta valutazione delle risultanze probatorie, emerse in istruttoria e richiamate in appello, avrebbe dovuto condurre i Giudici di primi e secondo grado a revocare quantomeno in dubbio la sussistenza dei reati a lui addebitati. La ribadita affermazione della sua responsabilità penale deriva dalla scelta di tralasciare elementi oggettivamente rilevanti ai fini della decisione e dal ricorso ad una motivazione apparente, contraddittoria ed illogica.
1.2.Con il secondo motivo eccepisce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l'erronea applicazione dell'art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1), sotto il profilo dell'errato riconoscimento dell'induzione a compiere o a subire atti sessuali nonchè dell'abuso delle condizioni di inferiorità delle persone offese, e vizio di motivazione mancante, contraddittoria e manifestamente illogica sul punto.
Richiamando giurisprudenza di questa Corte in tema di induzione della persona offesa a compiere atti sessuali abusando delle sue condizioni di inferiorità, ribadisce la necessità di ritagliare uno specifico ruolo tipizzante ai concetti di "induzione" e "abuso" pena il rischio di criminalizzare ogni atto sessuale posto in essere in contesti "non convenzionali", quali lo scambio di effusioni in discoteca o appartati in auto, e di frustrare la ratio della norma volta a garantire la libertà sessuale della persona che versa in una condizione di inferiorità psichica preservandone la genuinità e spontaneità del consenso all'atto.
La motivazione della sentenza è, sul punto, apodittica e graficamente sovrapponibile a quella della sentenza di primo grado che, quanto all'induzione, si era limitata a richiamare le testimonianze delle persone offese, senza tener conto delle testimonianze di segno contrario, e quanto all'abuso della loro condizione di inferiorità aveva fatto riferimento alla oggettiva riconoscibilità di tale condizione, dimenticando che tutti i giovani avventori erano consumatori abituali di sostanze alcoliche e stupefacenti e che alcun comportamento concreto e attivo fosse stato posto in essere dall'imputato per spingere le persone offese a compiere atti sessuali in costanza di un consenso altrimenti non prestato. Nè il Tribunale, nè la Corte di appello hanno espletato un'indagine in tal senso, non avendo accertato se l'imputato fosse consapevole non solo delle minorate condizioni del soggetto passivo ma anche di approfittarne a fini sessuali. E' sufficiente un esame nemmeno troppo approfondito delle deposizioni testimoniali assunte in primo grado (delle quali il ricorso propone una sintesi) per rendersi conto della fisiologica reciprocità degli atti sessuali. Tali elementi, se collegati alla assidua frequentazione dell'imputato, da parte di alcuni denuncianti, anche fuori dei locali della discoteca, rendono quantomeno inverosimili i racconti circa le eccepite condotte di abuso. L'assidua frequentazione dell'imputato per uscirci a cena è un fatto che si commenta da sè e rende ragionevole il sospetto circa la genuinità dei traumi denunciati e la effettiva mancanza di un costante e perdurante consenso frutto di accondiscendenza e condivisione di intenti.
Tutto ciò rende evidente la natura apodittica della motivazione che dà per scontato il fatto da provare.
La Corte di appello - prosegue il ricorrente - per affermare la sussistenza del reato spiega che molti giovani ambivano ad essere "ammessi" alla zona più "esclusiva" della discoteca (la zona della consolle e la sala denominata privè), riservata solo a giovani avventori selezionati dall'imputato i quali si sarebbero prestati alle richieste di quest'ultimo pur di conquistare la sua benevolenza che "garantiva la perpetrazione dello stato di vitale appagamento del desiderio di emergere nel gruppo dei frequentatori". Sennonchè, la cd. sala privè altro non era se non una sala nella quale veniva suonata musica più "di nicchia", diversa da quella suonata nella sala principale ma a quest'ultima collegata da porte trasparenti ed alla quale poteva accedere chiunque. Inoltre la motivazione della Corte costituisce niente altro che una mera deduzione apodittica e sganciata dalle emergenze processuali.
1.3. Con il terzo motivo deduce l'eccessiva severità del trattamento sanzionatorio ed eccepisce, al riguardo, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l'erronea applicazione dell'art. 63 c.p., comma 3 e art. 609-bis c.p., comma 3, e vizio di motivazione mancante, contraddittoria e manifestamente illogica. Pacifica la natura di circostanza attenuante speciale della minore gravità del fatto di cui all'art. 609-bis c.p., comma 3, afferma che la Corte di appello non avrebbe potuto porre a base dei propri calcoli il minimo edittale (cinque anni di reclusione) della pena prevista per il reato nella sua forma non attenuata. In ogni caso una tale decisione, considerata la minima invasività delle condotte, avrebbe dovuto meglio spiegare le ragioni della mancata applicazione del minimo edittale del reato attenuato.
1.4. Con il quarto motivo deduce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l'erronea applicazione dell'art. 158 c.p. e art. 531 c.p.p. e vizio di motivazione mancante, contraddittoria e manifestamente illogica in ordine alla omessa rilevazione della prescrizione del reato di cui al capo F che la rubrica colloca in un periodo che va dal mese di (OMISSIS) dell'anno successivo. La persona offesa del reato, Fo.Lu., pur avendo riconosciuto, con assoluta certezza, che i fatti sono avvenuti prima del suo diciassettesimo compleanno ((OMISSIS)) non è stata ulteriormente in grado di specificare altro, rendendo incerta la data di effettiva consumazione del reato che, nel dubbio, deve essere collocata in epoca favorevole all'imputato. In ogni caso la Corte di appello ha completamente omesso di pronunciare al riguardo.
2. Il ricorrente ha presentato motivi aggiunti di ricorso che riguardano l'ordinanza pronunciata dalla Corte di appello all'udienza camerale del 16/04/2018 con cui è stato corretto il dispositivo della sentenza nel senso che, dove è scritto "liquida la parte civile", deve leggersi: "liquida a ciascuna parte civile", ed è stato aggiunto che il pagamento delle spese liquidate in favore delle parti civili deve essere effettuato in favore dello Stato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 110.
2.1. Con il primo motivo eccepisce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. c), la nullità assoluta dell'ordinanza per inosservanza dell'art. 127 c.p.p., comma 1 e art. 130 c.p.p., quale conseguenza dell'omessa notificazione dell'avviso della fissazione dell'udienza camerale e conseguente mancata instaurazione del contraddittorio.
2.2.Con il secondo motivo eccepisce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. c), la nullità relativa dell'ordinanza per inosservanza degli artt. 130 e 547 c.p.p. trattandosi di un errore-vizio non emendabile con ordinanza resa ai sensi dell'art. 130 c.p.p. ma rimediabile solo con l'impugnazione.
2.3. Con il terzo motivo eccepisce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. c), l'inosservanza dell'art. 574 c.p.p. ed osserva che: a) tra le parti civili costituite vi era Z.M. ma l'imputato è stato assolto dal reato che lo indicava come persona offesa; b) la condanna al pagamento delle spese in favore dello Stato si risolve in una duplicazione della condanna stessa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è fondato.
4. Il ricorrente risponde dei (residui) reati di cui ai capi B), C) ed F) della rubrica per aver indotto alcuni avventori della sua discoteca, all'epoca minori degli anni diciotto, a compiere e subire atti sessuali (baci, palpeggiamenti nelle parti intime, masturbazioni) abusando della loro inferiorità fisica e psichica al momento del fatto dovuta all'assunzione di sostanze alcoliche e stupefacenti. In un solo caso (capo C) è contestata anche la circostanza aggravante di cui all'art. 609-ter c.p., comma 1, n. 2), per essersi avvalso dell'uso di nitrito di abile (in gergo "popper"), sostanza gravemente lesiva della salute della persona offesa. I fatti sono contestati come commessi in (OMISSIS), all'interno della discoteca all'insegna "(OMISSIS)", dal (OMISSIS).
4.1. La Corte di appello, nel confermare "in parte qua" la sentenza di primo grado, ha affrontato la questione relativa alla difformità tra quanto riferito dai testimoni in sede di incidente probatorio e in sede dibattimentale e quanto dagli stessi riferito alla polizia giudiziaria in sede di indagini affermando che "i ragazzi sentiti a dibattimento erano all'epoca dei fatti o adolescenti o giovani, con abitualità quantomeno all'uso di sostanze stupefacenti, proprio o dei loro amici più vicini, quindi preminentemente interessati ad allontanare da se stessi eventuali sospetti riguardanti l'illecito mondo dello spaccio", ed aggiungendo che non si possono nutrire dubbi "sull'esistenza di una diffusa assunzione generalizzata di alcol e droghe che i giovani assumevano proprio allo scopo di "sballare", intento degli adolescenti frequentatori (anche) dell'(OMISSIS). Di qui proseguono i Giudici distrettuali - una comprensibile ritrosia a ritornare con la memoria ad un periodo nel quale erano successi fatti potenzialmente nocivi e riprovevoli sotto vari profili. Ed altresì un comprensibile stato di "agitazione" nel riferire nell'immediatezza fatti alla p.g., che indagava sia per lo spaccio di stupefacenti nell'(OMISSIS), sia con riguardo ai comportamenti a sfondo sessuale tenuti dal gestore A. nei confronti dei giovani avventori. Non va, poi, dimenticato che molti dei soggetti, in quanto minorenni, sono stati sentiti o convocati davanti alla p.g. unitamente ai propri genitori, i quali, in molti casi, solo in quel momento venivano a conoscenza di situazioni comunque scabrose o difficili da apprendere, e che mai avrebbero voluto sentire a proposito proprio dei loro figli. Pertanto, eventuali inesattezze o alterazioni della concreta entità dei fatti riferiti ben può essere ricondotta non tanto ad indebite pressioni degli inquirenti, quanto piuttosto alla "delicatezza" di ciò che veniva chiesto di esporre ai giovani adolescenti, come già sopra accennato". La sentenza inoltre spiega quale valore preminente avesse per i giovani frequentare la discoteca presso la quale si recavano almeno una volta alla settimana: "molti ambivano ad essere "ammessi" a quella zona più "esclusiva", costituita dalla zona della consolle e alla sala denominata priveè, che erano le zone di riferimento cui tutti volevano accedere, ma che erano destinate a pochi soggetti "selezionati" a discrezione dal gestore A.. Pertanto chi riusciva ad entrare nella benevolenza del gestore (ciò che poteva comportare ingressi o consumazioni gratuiti, possibilità di portare ospiti, essere inseriti in liste con priorità di ingresso, etc.) ambiva a rimanerci; ed era predisposto a fare o subire anche comportamenti non consoni pur di "restare" nel gruppo che "contava" (vedasi dichiarazioni del teste F. a pagina 19 verbale ud. 12.5.2011)". In tale particolare contesto ambientale, prosegue la Corte di appello, "ogni richiesta dal gestore A. rivolta ai giovani avventori, anche in modo sottinteso, siccome garantiva la perpetuazione dello stato di vitale appagamento del desiderio di emergere nel gruppo dei frequentatori, veniva accettata, subita, tollerata, e a volte anche condivisa; sempre comunque si è trattato di un comportamento subdolamente induttivo". Da qui, la Corte di appello trae il convincimento che l'imputato ha tenuto, "con i propri atteggiamenti, un comportamento positivo di induzione, abusando delle condizioni di inferiorità dei soggetti passivi", aggiungendo che "oltre a questo stato di suggestione nei confronti della figura dell' A., i giovani frequentatori assumevano sostanze stupefacenti (ecstasy o altre droghe sintetiche) che li rendevano ulteriormente vulnerabili ed incapaci di reazioni logiche e congrue" e richiama a sostegno la deposizione di una delle persone offese/parti civili, L.A., "il quale descrive in modo eloquente lo stato di inferiorità fisica e psichica indotto da tali sostanze". Escluso che la tendenza omosessuale della vittima rilevi ai fini della sussistenza del reato ed in particolare della condizione di inferiorità fisica e psichica della stessa, la Corte di appello osserva "come l'induzione al compimento di atti sessuali sia avvenuta con abuso della condizione di inferiorità psichica della vittima al momento del fatto che pacificamente può prescindere da fenomeni di patologia mentale, essendo necessaria e sufficiente ad integrarla la circostanza che soggetto passivo versi in condizioni intellettive e morali di minore resistenza all'altrui opera di coazione psicologica o di suggestione". Lo stato di alterazione dovuto alla assunzione di pasticche od altre sostanze stupefacenti - conclude la Corte - era palesemente percepibile anche solo in base all'atteggiamento tenuto dalle persone offese in sede di assunzione testimoniale ed, in particolare, in base all'osservazione della mimica facciale, dell'espressione degli occhi, della gestualità. Quindi la Corte affronta l'esame dei singoli fatti-reato ascritti all'imputato dedicando a questo argomento le pagine da 15 a 19 della sentenza.
4.2. Orbene, nel ribadire la responsabilità dell'imputato per i reati di cui ai capi B), C) ed F), il Giudice ha ritenuto di assolvere al proprio dovere di motivare le ragioni della propria decisione semplicemente trascrivendo, alla lettera, il contenuto delle pagine da 1 a 10 della motivazione della sentenza di primo grado, composta da 15 pagine le ultime cinque delle quali si occupano di altre ipotesi di reato che qui non rilevano.
4.3. Al riguardo va osservato che, soggezione dei giudici soltanto alla legge (art. 101 Cost., comma 2), esercizio della funzione giurisdizionale da parte di magistrati autonomi e indipendenti (artt. 102,104 e 106 Cost.), attuazione della giurisdizione mediante il giusto processo regolato per legge (art. 111 Cost., comma 1), obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali (art. 111 Cost., comma 6), controllo della Corte di cassazione su tutte le sentenze e su tutti i provvedimenti che incidono sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali (art. 111 Cost., comma 7), sono valori che qualificano, sul piano processuale, il "quomodo" della giurisdizione, e che sono posti, sul piano sostanziale, a presidio e garanzia del principio di legalità e, con specifico riferimento alla materia penale, del principio di riserva assoluta di legge (art. 25 Cost., comma 2), nonchè dell'inviolabilità della libertà personale (art. 13 Cost.), del domicilio (art. 14 Cost.), della libertà e segretezza della corrispondenza (art. 16 Cost.), del diritto di difesa (art. 24 Cost.).
4.4. In questo contesto, la motivazione assolve all'onere di chiarire se, e come, la regola generale e astratta (la legge, in senso lato) sia stata applicata al caso concreto e di evitare, attraverso il controllo di merito e, infine, di legittimità, che essa non affondi le radici in una volontà diversa da quella della legge cui il giudice è soggetto; essa assolve all'onere di spiegare perchè il diritto inviolabile può essere compresso, se ed in che modo è stato rispettato il diritto di difesa, se ed in che modo l'esercizio di tale diritto ha potuto contribuire a confezionare la regola del caso concreto.
4.5. In questo senso, la apparente motivazione è l'abdicazione del giudice al suo dovere principale, è la negazione della sua funzione di garanzia, connaturale alla sua indispensabile terzietà, è una porta chiusa frapposta a ogni tipo di controllo, che non consente di ripercorrere la via che collega la regola astratta al fatto esaminato.
4.6. Orbene, la motivazione del giudice di appello che si fonda sulla pedissequa riproduzione della intera sentenza di primo grado tradisce la sua precipua fisionomia di "revisio prioris istantiae", pur se nel circoscritto ambito del "devolutum"; d'altro canto, detto sistema motivazionale non è nemmeno riconducibile al paradigma della motivazione "per relationem" che ha presupposti ben diversi dalla mera trascrizione del contenuto della motivazione della sentenza di primo grado.
4.7. Sia chiaro: la tecnica redazionale del cd. "copia-incolla" non è di per sè illegittima quando sia comunque possibile dedurre, dal testo del provvedimento, un'autonoma elaborazione del giudice sui fatti posti a fondamento del proprio provvedimento (così, Sez. 4, n. 7031 del 05/02/2013, Conti, Rv. 254937, secondo cui è nullo per difetto di motivazione il provvedimento del giudice che riproduca alla lettera ampi stralci della parte motiva di altra pronuncia, a meno che detta tecnica di redazione manifesti una autonoma rielaborazione da parte del decidente e dia adeguata risposta alle doglianze proposte dal ricorrente. Nel caso scrutinato era stata riconosciuta la nullità dell'ordinanza del giudice del riesame che aveva confermato la decisione del gip limitandosi a riprodurre, attraverso la tecnica informatica del copia - incolla, circa venti pagine della motivazione impugnata). Ai fini dell'assolvimento dell'onere motivazionale, infatti, non conta lo strumento utilizzato dal giudice (la tecnica del "copia-incolla" o la motivazione per relationem); non se ne può fare una mera questione di stile. Il punto non è questo. La tecnica redazionale del "copia-incolla" può e deve essere oggetto di censura quando è possibile affermare che il giudice se ne è avvalso per abdicare al suo irrinunciabile compito di controllo di legalità e, dunque, di verifica della sussistenza dei presupposti voluti dalla legge per l'emissione del provvedimento sollecitato. E' necessario che il giudice fornisca la dimostrazione di aver preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216664; per un'applicazione del principio in caso di misure cautelari, cfr. Sez. 4, n. 4181 del 14/11/2007, Benincasa, Rv. 238674; Sez. 2, n. 13385 del 16/02/2011, Soldano, Rv. 249682; più recentemente, Sez. 2, n. 55199 del 29/05/2018, Rv. 274252; Sez. 6, n. 53420 del 04/11/2014, Rv. 261839; Sez. 6, n. 48428 del 08/10/2014, Rv. 261248), con conseguente nullità della sentenza di appello che si limiti a riprodurre integralmente la motivazione della sentenza emessa in primo grado, nonostante le specifiche censure dedotte nei motivi di impugnazione (Sez. 6, n. 12148 del 12/02/2009, Rv. 242811; Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005, Rv. 233082, secondo cui la sentenza di appello confermativa della decisione di primo grado è viziata per carenza di motivazione, e si pone dunque fuori dal pur legittimo ambito del ricorso alla motivazione "per relationem", se si limita a riprodurre la decisione confermata dichiarando in termini apodittici e stereotipati di aderirvi, senza dare conto degli specifici motivi di impugnazione che censurino in modo puntuale le soluzioni adottate dal giudice di primo grado, e senza argomentare sull'inconsistenza o sulla non pertinenza di detti motivi; Sez. 6, n. 4261 del 24/01/2002, Rv. 221511; Sez. 6, n. 12540 del 12/10/2000, Rv. 218172).
4.8. Il caso in esame è paradigmatico; a fronte di un appello che censurava in modo specifico e sotto vari profili la attendibilità dei testimoni di accusa e poneva la questione della effettiva sussistenza dell'induzione all'atto sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità psichica e fisica delle vittime, la Corte di appello ha puramente e semplicemente replicato le parole del primo Giudice senza nemmeno dar conto delle ragioni della loro condivisione sostanzialmente privando l'imputato di un grado di merito.
4.9. Il primo motivo è dunque fondato sotto il profilo della mancanza assoluta di motivazione.
5. Le considerazioni che precedono, poichè riguardano la ricostruzione stessa del fatto materiale prima ancora della sua sussunzione sotto il paradigma della norma incriminatrice contestata, sono tali da rendere superfluo l'esame degli altri motivi e tuttavia, poichè il ricorrente ne fa questione con il secondo motivo, il Collegio ritiene di dover ribadire alcune considerazioni in ordine al reato di violenza sessuale commesso mediante induzione abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica della vittima.
5.1. Osserva preliminarmente la Corte che la consapevolezza dello stato di inferiorità psichica non esaurisce le condizioni che la norma prevede per la punibilità della condotta descritta dall'art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1, essendo necessario che a tale consapevolezza si accompagni l'abuso della minorata condizione per indurre la persona offesa al compimento di atti sessuali frutto di un consenso viziato.
5.2. La norma, al pari di quella di cui al medesimo comma, n. 2, vuole tutelare la piena libertà dell'autodeterminazione all'atto sessuale e della scelta della persona con cui condividerlo, consenso che, quando non coartato od estorto con violenza o minaccia, deve essere scevro da condizionamenti di sorta derivanti da inganno personale o dall'abuso delle particolari condizioni in cui possa trovarsi la persona offesa al momento del fatto.
5.3. L'abuso è strumento per indurre e dunque precede l'atto sessuale, non si può identificare con esso.
5.4. Ne consegue che trarre esclusivamente dalle modalità con cui è stato consumato l'atto sessuale la prova dell'induzione abusiva all'atto stesso sconta il rischio, che la norma vuole evitare, che si possa identificare la condotta di induzione (mediante abuso della condizione di inferiorità fisica o psichica) con l'atto sessuale che ne è il risultato, con la conseguenza di impoverire l'indagine in ordine alla minorata capacità del partner ad autodeterminarsi all'atto sessuale e di svalutare, in ultima analisi, ogni aspetto che possa concorrere a ricostruire in modo approfondito la dinamica che precede l'azione e a comprendere se davvero abuso v'è stato.
5.5. Si tratta di un terreno di indagine naturalmente scivoloso, irto di ostacoli, un vero e proprio campo minato, difficile da percorrere dal punto di vista investigativo e privo di certezze rassicuranti, che non ammette scorciatoie probatorie, e tuttavia è imposto da una scelta "copernicana" ben precisa del legislatore che, abbandonate le arcaiche presunzioni di incapacità che, secondo l'abrogato art. 519 c.p., comma 1, n. 3), rendevano punibile la condotta di chiunque si fosse congiunto carnalmente (o avesse compiuto atti di libidine) con una persona "malata di mente" o non in grado resistere "a cagione delle proprie condizioni d'inferiorità psichica o fisica", ha costruito la nuova fattispecie riconoscendo che la libertà all'autodeterminazione sessuale concorre al pieno sviluppo della persona in quanto tale e che anche chi si trova in condizione di inferiorità fisica e psichica è libero di autodeterminarsi sessualmente, eliminando del tutto la presunzione di incapacità ad autodeterminarsi da parte di si trovi in tali condizioni (anche dei precedenti "malati di mente" oggi scomparsi dalla fattispecie), ma pretendendo contestualmente che la condizione di inferiorità debba sussistere al momento del fatto e imponendo a tutti, in adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost., il riconoscimento e, sopratutto, il rispetto di questa libertà che non può trasformarsi da strumento di valorizzazione della persona in condizione di inferiorità, in tutti i contesti sociali in cui essa si svolge, in strumento di umiliazione e di mero soddisfacimento della libido altrui.
5.6. Si tratta di un accertamento che va condotto caso per caso, tenendo conto del contesto che precede l'azione, delle condizioni (non necessariamente dovute a patologia mentale) in cui si trovi la persona offesa, della percezione che ne abbia l'autore del fatto, dell'abuso, infine, che ne abbia quest'ultimo fatto per indurre l'altra/a all'atto sessuale.
5.7. In questo contesto, l'abuso consiste nello sfruttamento della condizione di inferiorità fisica o psichica (di cui l'agente sia naturalmente consapevole) in cui versi la vittima indotta al compimento di atti sessuali in base ad un consenso ottenuto a cagione proprio della condizione in cui si trova. Occorre dunque che via sia stretta correlazione tra tale condizione, il vizio del consenso che l'esprime e l'induzione che ne è causa.
5.8. Come già affermato da questa Corte: "in tema di atti sessuali commessi con persona in stato di inferiorità fisica o psichica, perchè sussista il reato di cui all'art. 609 c.p., comma 2, n. 1, è necessario accertare che: 1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto; 2) il consenso all'atto sia viziato dalla condizione di inferiorità; 3) il vizio sia accertato caso per caso e non può essere presunto, nè desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona quando non sia di per sè tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento se necessario fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi; 4) il consenso sia frutto dell'induzione; 5) l'induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato; 6) l'induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l'atto sessuale, ma lo precedono" (Sez. 3, n. 52835 del 19/06/2018, Rv. 274417; Sez. 3, n. 18513 del 15/01/2015, n.m.).
5.9. Secondo il costante insegnamento della Corte di cassazione, rientrano tra le condizioni di "inferiorità psichica o fisica", previste dall'art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1, anche quelle conseguenti alla volontaria assunzione di alcolici o di stupefacenti, in quanto anche in tali casi la situazione di menomazione della vittima, a prescindere da chi l'abbia provocata, può essere strumentalizzata per il soddisfacimento degli impulsi sessuali dell'agente (Sez. 3, n. 16406 del 13/02/2018, Rv. 273056; Sez. 3, n. 45589 del 11/01/2017, Rv. 271017; Sez. 3, n. 39800 del 21/06/2016, Rv. 267757; Sez. 3, n. 38059 del 11/07/2013, Rv. 257374; Sez. 3, n. 2646 del 16/12/2003, Rv. 227029).
5.10. E tuttavia ciò non basta.
5.11. Al di là dei casi in cui l'assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti sia tale da privare del tutto la persona della capacità di intendere e di volere ponendola in un situazione di palese incapacità di esprimere un consenso (nei quali casi è dubbia la configurabilità dell'art. 609-bis c.p., comma 2, dovendosi piuttosto ritenere integrata la violenza di cui al medesimo art., comma 1), negli altri casi occorre comunque una positiva attività di induzione all'atto che si realizza quando, con un'opera di persuasione sottile e subdola, l'agente spinge, istiga o convince la persona che si trova in stato di inferiorità ad aderire ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto; l'induzione necessita, pertanto, di un comportamento positivo mediante il quale il soggetto passivo viene persuaso o invogliato a compiere o a subire la prestazione sessuale (Sez. 3, n. 38787 del 23/06/2015, Rv. 264698; Sez. 3, n. 20766 del 14/04/2010, Rv. 247654; Sez. 4, n. 14141 del 22/02/2007, Rv. 236202; Sez. 3, n. 11541 del 03/06/1999, Rv. 215150). Altrimenti ragionando si priva la fattispecie di cui all'art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1), di una sua autonomia concettuale finendo per dissolvere l'elemento tipico della induzione nella pura e semplice consumazione dell'atto sessuale con una persona in stato di alterazione da assunzione di sostanze stupefacenti o alcoliche (che magari induca essa stessa alla consumazione dell'atto).
5.12. Nel caso di specie, dato il quadro disegnato dalla Corte, resta sullo sfondo (ed anzi non è affatto chiara) la condotta posta in essere dall'imputato per indurre i minori a compiere atti sessuali, atti la cui consumazione sembra piuttosto costituire il frutto di una tacita intesa volta a soddisfare gli scopi da ciascuno perseguiti su un piano di parità e di lucida convenienza. La deduzione difensiva, secondo la quale il fatto che le persone offese frequentavano il locale almeno una volta la settimana o l'imputato addirittura anche fuori del locale dimostra l'esistenza di un consenso all'atto basato sulla reciproca convenienza, è rimasta priva di risposta. Non è chiaro, insomma, se il consenso agli atti sessuali sia stato il frutto di un preciso calcolo di convenienza da parte delle vittime ovvero di un'attività induttiva volta a carpire loro un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato. Lo schema sinallagmatico prefigurato dai giudici di merito (atti sessuali con minore di età compresa fra i quattordici ed i diciotto anni in cambio di utilità di vario genere) sembra piuttosto integrare, in assenza di condizione di inferiorità e di abuso della stessa, la fattispecie tipica del reato di prostituzione minorile di cui all'art. 600-bis cpv. c.p..
6. Le considerazioni che precedono rendono superfluo l'esame degli altri motivi di ricorso e dei motivi aggiunti.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia che provvederà all'eventuale liquidazione delle competenze delle parti civili per la presente fase di giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Venezia.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, il 17 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2019