RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 9.7.2020 la Corte di Appello di Napoli ha integralmente confermato la pronuncia resa all'esito del primo grado di giudizio dal Tribunale di Nola che ha condannato G.A. alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione ritenendolo responsabile del reato di cui all'art. 609 bis c.p., per aver costretto il figlio di appena sette anni a subire in un'occasione, temporalmente collocata tra il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), atti sessuali.
2. Avverso il suddetto provvedimento l'imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando tre motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 526,228 e 177 c.p.p., che la perizia redatta dalla Dott.ssa Z., consulente del PM, quantunque estromessa dal compendo processuale in quanto non acquisita in dibattimento, era stata illegittimamente utilizzata in quanto trasfusa ed utilizzata dal giudice di primo grado in relazione alla capacità a deporre del minore.
2.2. Con il secondo motivo lamenta il travisamento della prova che, sebbene espressamente devoluto con l'atto di appello, non era stato affatto esaminato dai giudici di secondo grado né con riferimento alla perizia della Dott.ssa Z. di cui si lamentava l'utilizzazione malgrado la sua espunzione dal fascicolo processuale, né in relazione all'attendibilità del minore ritenuta sulla base di singole frasi estrapolate dalla sua audizione senza fornire argomentazioni in ordine alla loro valutazione complessiva. Lamenta in particolare come non fossero stati affatto sciolti due nodi gordiani, espressamente contestati, costituiti l'uno dal mutamento della versione resa dal minore in ordine al numero degli episodi di violenza sessuale dapprima indicati come un'unica vicenda e poi rappresentati come differenti, aspetto relativamente al quale il perito Dott.ssa F. aveva riscontrato un elemento di suggestione o sollecitazione, e, l'altro, dall'affermazione resa dallo stesso perito circa l'impossibilità di addebitare i vissuti emotivi del minore a vicende di abuso sessuale, presentando costui aspetti addebitabili anche vicende traumatiche di tutt'altra natura, frutto magari di una relazione inadeguata con i genitori. Lamenta, ancora la svalutazione ad opera della Corte di appello della conflittualità tra i coniugi, nonostante fosse stata acquisita una richiesta di archiviazione nei confronti dell'imputato in relazione ad una denuncia per atti persecutori e violenza sessuale proveniente dall'ex moglie ritenuta dal PM non credibile, nonché della circostanza che il minore malgrado la sua rivelazione del patito abuso risalisse al (OMISSIS), avesse continuato a frequentare regolarmente il padre fino al settembre di quello stesso anno, ovverosia fino all'emissione della misura cautelare degli arresti domiciliari ed alla sua esecuzione.
Evidenzia infine come fosse stata del tutto tralasciata la circostanza che il minore avesse indicato, stando alla comunicazione di reato, soggetti diversi, dapprima il nonno, poi la nonna e solo dopo il padre e che lo stesso minore non presentasse alcun sintomo riconducibile ad una violenza sessuale, stante l'assenza di incubi notturni, di sensi di colpa, di insulti autodiretti, di disturbi alimentari, di rifiuto nei confronti della scuola.
2.3. Con il terzo motivo deduce il vizio motivazionale in relazione al diniego della minore gravità del fatto, rilevando come gli elementi indicati al riguardo, quali il rapporto genitoriale, l'età della vittima, le circostanze ed il luogo del fatto, attenendo alle qualità personali del colpevole e ai rapporti tra costui e la p.o. non potessero rientrare nell'ambito dell'art. 133 c.p., comma 1, il quale soltanto costituisce il parametro di valutazione ai fini dell'applicabilità della fattispecie attenuata. Evidenzia come in ogni caso non emergesse dalla sentenza impugnata alcun elemento in ordine al danno psicologico patito dal minore, né a possibili incrinature del suo rapporto con il padre che aveva continuato a frequentare ininterrottamente fino all'esecuzione dell'ordinanza cautelare, senza che alcuna interferenza fosse ravvisabile con le attenuanti generiche già riconosciute al prevenuto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo deve ritenersi manifestamente infondato.
La circostanza che il perito nominato al fine di valutare la capacità a deporre del minore abbia fatto riferimento nella redazione del proprio elaborato a tutti gli atti compiuti ed alla documentazione riferibile al periziato fra cui l'audizione dello stesso minore da parte del PM nel corso delle indagini, non equivale ad alcuna reintroduzione nel processo della consulenza resa in quel frangente dalla consulente nominata dall'organo dell'accusa, Dott.ssa Z., circostanza che la difesa espone in termini apodittici, ovverosia in forza della mera convergenza delle conclusioni tratte da entrambe le esperte in psicologia infantile. In ogni caso a tale operazione di natura esclusivamente valutativa non consegue affatto l'inutilizzabilità prevista dall'art. 228 c.p.p., comma 3, invocata dal ricorrente che riguarda, invece, il diverso caso, cui peraltro si riferisce lo stesso precedente giurisprudenziale citato nella presente impugnativa, in cui le dichiarazioni rese dalla minore vittima di reati sessuali al perito o al consulente tecnico officiato di un accertamento personologico vengano indicate dal giudice quali fonti di prova per la ricostruzione del fatto (Sez. 3, Sentenza n. 16503 del 20/11/2018 - dep. 16/04/2019, Rv. 275404). Nel ribadire che le notizie che il perito riceve dal periziato o da terzi in ordine al fatto penalmente rilevante esauriscono la loro funzione nella definizione delle risposte ai quesiti circa la credibilità della persona offesa e la sussistenza degli indici di patito abuso sessuale, non può non rilevarsi come la valutazione da parte della Dott.ssa F. delle dichiarazioni rese dal minore al consulente del PM non solo nulla abbia a che vedere con gli accertamenti effettuati dai giudici di merito in punto di responsabilità dell'imputato, ma rientri a pieno titolo nell'espletamento dell'incarico peritale avente ad oggetto la disamina della personalità del minore.
2. Quanto al secondo motivo, va in primo luogo rilevato che le dispiegate doglianze non afferiscono affatto al devoluto travisamento della prova, ricorrente nella sola ipotesi in cui si introduce nella motivazione un'informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia, appuntandosi per contro su un'assunta illogicità motivazionale. Tuttavia, dietro la parvenza del vizio formalmente lamentato, comunque riconducibile all'art. 606 c.p.p., lett. e), in realtà, si cela la richiesta di una nuova e differente lettura delle medesime emergenze probatorie già esaminate dal Giudice del merito, e delle quali si domanda in questa sede una alternativa e più favorevole valutazione. Il che, pacificamente, non è consentito.
Invero, la prospettazione difensiva non individua, al di là di generiche doglianze, alcuna frattura logica o carenza argomentativa nelle quali possa compendiarsi il vizio motivazionale deducibile innanzi a questa Corte, che, deve essere ancora una volta ricordato, si sostanzia nel solo accertamento della congruità e coerenza dell'apparato argomentativo, con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, e non al suo contenuto valutativo, fuoriuscendo dal perimetro operativo della Corte di cassazione il controllo tra prova e decisione: il ricorso che devolva il vizio di motivazione in sede di legittimità, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria ad essa sottesa, esclusivamente riservata al giudice di merito.
Del resto, tutte le censure riproposte in questa sede e sviluppate esclusivamente nell'orbita del merito, risultano essere state analiticamente esaminate e compiutamente disattese dalla Corte territoriale.
Non vale ad inficiarne la tenuta sul piano logico-argomentativo, l'unico deducibile al giudice di legittimità, l'estrapolazione spuria di singoli passaggi della perizia redatta dalla Dott.ssa F. in ordine alla mancanza di sintomi da parte della vittima univocamente riconducibili ad un abuso sessuale o all'astratta riconducibilità delle difficoltà mnemoniche del minore ad un potenziale artefatto in linea con un elemento di suggestione o sollecitazione, trattandosi di profili ampiamente valutati tanto dal perito, quanto dalla sentenza impugnata, che ne recepisce le conclusioni, ritenendo che il bambino, pur presentando un lieve deficit nella capacità di giudizio formale, fosse in grado di raccontare adeguatamente le proprie esperienze di vita, connotandole di dettagli e collocandole correttamente nel tempo e nello spazio, così come rivelasse ampie capacità cognitive.
A fronte della capacità a deporre compiutamente accertata, tutte le restanti censure si incentrano sull'attendibilità del dichiarante e come tali incorrono di per sé nell'inammissibilità, tenuto conto che trattasi di valutazione naturalmente rimessa al giudice di merito, rispetto alla quale i limiti del sindacato di legittimità risultano ancor più stringenti rispetto a quelli ordinari, in ragione dell'ampio margine di apprezzamento che questi, maggiormente vicino alle fonti di prova, ha di valutarle. E ciò pesa tanto sull'aspetto della conflittualità genitoriale, di cui è stata coerentemente esclusa qualsivoglia ricaduta nella relazione padre-figlio alla luce della corretta condotta tenuta dalla madre che non ha mai impedito al bambino di vedere e frequentare l'altro genitore che lo teneva regolarmente presso di sé secondo i tempi di permanenza stabiliti con la separazione coniugale, peraltro anche, come riconosciuto dalla stessa difesa, dopo la rivelazione della violenza subita, quanto sulla modifica della versione iniziale, secondo cui i fatti abuso si sarebbero articolati in più episodi, poi fermamente ricondotta dal piccolo ad un'unica occasione: la questione risulta essere stata compiutamente affrontata già dalla sentenza di primo grado, che si integra con quella impugnata in un unico corpo motivazionale stante la duplice conforme valutazione di responsabilità, ritenendosi che il racconto reso dal bambino, scevro da astio e connotato invece da spontaneità e copiosità di particolari, addirittura mimando la scena di cui era stato protagonista sia con l'oscillazione del capo e del busto, sia con l'utilizzo di due bambole, non presentasse incongruenze di rilevo, dovendo piuttosto il particolare relativo al numero di volte in cui il padre sarebbe stato artefice di condotte moleste ascriversi alla iniziale difficoltà di riportare alla memoria un'esperienza tanto spiacevole.
3. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche per il terzo motivo, che si sostanzia in censure del pari valutative sul diniego della minore gravità del fatto a fronte della coerente motivazione resa al riguardo dalla Corte partenopea. L'analisi che può essere compiuta da questa Corte sulla scorta del testo della motivazione della sentenza impugnata incontra, invero, il limite della natura "non manifestamente illogica" delle argomentazioni utilizzate dal giudice di merito per sistemare razionalmente il materiale probatorio, oggetto del suo apprezzamento, limite che definisce l'ambito del sindacato di legittimità impedendo che la "logica" della Corte di cassazione si sovrapponga a quella del giudice di merito.
Va infatti rilevato che il giudizio di gravità espresso, sia pure succintamente, dai giudici territoriali in termini ostativi alla minore offensività non solo risulta improntato a linearità logica ed argomentativa, nonché ancorato ad una corretta interpretazione della norma in esame, ma neppure può ritenersi scalfito dalle
censure difensive che si focalizzano esclusivamente sull'assenza di un danno psichico, tralasciando invece il nucleo fondante il diniego, costituito dal callido
approfittamento da parte dell'imputato della sua condizione di affidatario, in quel momento esclusivo, del minore che si trovava presso di lui in assenza dell'altro genitore.
Ove, invero, si consideri che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ai fini della configurabilità della circostanza per i casi di minore gravità
l'apprezzamento del fatto nella sua globalità, nel cui ambito assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, le sue caratteristiche psicologiche, deve poter evidenziare che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, e che il danno arrecato alla stessa anche in termini psichici sia stato significativamente contenuto (ex multis Sez. 3, n. 23913 del 14/05/2014, Rv. 259196), va in primo luogo rilevato che la difesa non individua affatto elementi pretermessi o indebitamente disattesi che consentissero di approdare ad una valutazione di lieve offensività del fatto, sulla quale soltanto il giudice di merito era chiamato ad esprimere la sua valutazione. Muovendo, invero, dall'ineludibile premessa di ordine sistematico secondo la quale, così come accade per l'applicabilità di ogni circostanza attenuante, è solo sulla configurabilità dei suoi elementi costituitivi che deve appuntarsi il riconoscimento ovvero il diniego da parte del giudicante, la questione così come formulata nel ricorso è mal posta, non valendo ad integrare il devoluto vizio di illogicità motivazionale le contestazioni formulate dalla difesa in termini di mero dissenso dalle conclusioni di ordine negativo cui è approdata, in assenza di elementi idonei ad evidenziare la minore gravità del fatto, la sentenza impugnata.
In ogni caso, è sulla gravità della compressione sessuale della vittima che si incentra il diniego dell'attenuante reso dalla Corte distrettuale. E poiché non vi è dubbio che il disvalore della condotta possa essere apprezzato in termini non necessariamente quantitativi (quale potrebbe essere un atto di penetrazione degli organi sessuali che pure non è di per sé elemento sufficiente ove non rapportato allo specifico contesto di riferimento), ben potendo derivare dalle stesse modalità della condotta, da nessuna illogicità può ritenersi affetta la valutazione resa al riguardo. Invero, quand'anche possa non ravvisarsi sulla base delle argomentazioni spese dalla pronuncia impugnata un coinvolgimento emotivo del minore tale da incidere sul suo sviluppo psicofisico, viene ciò nondimeno evidenziata dai giudici di secondo grado la gravità della profanazione della sfera sessuale della vittima che, in quanto perpetrata dal genitore ai danni del proprio figlio, determina comunque, in conformità a quanto già affermato da questa Corte in termini ostativi al riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 609 bis c.p., u.c., (Sez. 3, Sentenza n. 1190 del 08/11/2007 - dep. 11/01/2008, Rv. 238550; Sez. 3, Sentenza n. 51895 del 08/09/2016 - dep. 06/12/2016, Rv. 268553), uno sviamento dalla funzione di accudimento e protezione propria della figura genitoriale che, come tale deve ritenersi indice di una particolare intensità del dolo. E' nella peculiarità del rapporto parentale che implica, oltre ai naturali legami affettivi, specifici obblighi in capo al padre e che nello specifico ha determinato una reazione di sostanziale accondiscendenza della vittima in ragione della naturale fiducia riposta nella figura genitoriale, certamente agli occhi di un bambino di appena sette anni, ancora referente carismatico del suo percorso di crescita, che risiede perciò il peculiare disvalore della condotta, la quale, avendo determinato l'applicazione dell'aggravante contestata ai sensi dell'art. 609 bis c.p., u.c., si pone di per sé in termini antitetici alla minore gravità del fatto.
A ciò si aggiunge la ritenuta condizione di fragilità della vittima minore di età, la quale, quantunque non possa costituire elemento di valutazione nella fattispecie criminosa di cui all'art. 609 quater c.p., trattandosi di uno degli stessi elementi costitutivi del reato, diventa invece rilevante nell'ipotesi criminosa contestata che, implicando per il suo perfezionamento l'impiego di violenza fisica o psichica indipendentemente dall'età della p.o., prescinde dalle condizioni personali di quest'ultima, le quali ben possono pertanto entrare in gioco ai fini della valutazione delle caratteristiche oggettive e soggettive del fatto nella sua globalità, così da incidere in termini di maggiore o minore lesività rispetto al bene giuridico tutelato, anche correlando il livello di offensività della condotta nella sua materiale concretezza ai diversi livelli di sviluppo e di progressiva maturazione del soggetto passivo, in considerazione della condizione infantile del medesimo. Peraltro, anche rispetto a tale elemento di valutazione la difesa omette ogni confronto, disquisendo invece dell'irrilevanza delle condizioni personali del colpevole, di cui la pronuncia impugnata non contiene alcuna menzione.
Il ricorso deve, in conclusione, essere dichiarato inammissibile. Segue a tale esito l'onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, in favore della Cassa delle ammende, della somma equitativamente fissata di Euro 3.000.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2022