RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza del 11 ottobre 2021 la Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna inflitta dal Giudice per l'udienza preliminare di Palermo il 6 dicembre 2018 a P.G., alla pena di otto mesi di reclusione per il reato ex art. 56, art. 609-bis c.p., comma 3, commesso ai danni di M.V., (in (Omissis)).
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato.
2.1. Con il primo motivo si deducono i vizi di violazione degli artt. 56 e 609-bis c.p. e della motivazione per avere la Corte di appello confermato la penale responsabilità dell'imputato.
Dopo aver riassunto i fatti e i contenuti della sentenza di primo grado, si richiama il motivo di appello con cui era stata contestata la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva qualificato il "terzo episodio", quello in cui il ricorrente aveva alzato la maglietta della persona offesa e le aveva infilato le dita nella cintura dei pantaloni in corrispondenza del fianco, come tentativo di violenza sessuale ex artt. 56 e 609-bis c.p..
In particolare, con l'atto d'appello si rilevò che la condotta dell'imputato fu finalizzata ad instaurare un approccio con la persona offesa, senza che ci fosse alcun intento criminoso. Gli atti con cui il ricorrente avvicinò a sé M.V., mentre le chiedeva se fosse sicura di non voler andare oltre, non costituirebbero atti inequivocabilmente diretti a costringere la donna a subire un bacio.
Sul punto, la Corte territoriale avrebbe reso una motivazione contraddittoria con la sentenza di primo grado pur richiamata.
La sentenza di primo grado avrebbe, infatti, escluso la rilevanza penale dei primi due episodi contestati all'imputato, riguardanti, il primo, gli sfregamenti con la nuca delle parti intime e il secondo relativo al tentativo di accarezzare le spalle della persona offesa, dopo averle alzato la maglietta e toccato i fianchi.
Contrariamente alla sentenza di primo grado, la sentenza di appello avrebbe preso in considerazione tutte le condotte contestate all'imputato, enfatizzandone la carica sessuale ed evidenziando come fossero tutte insidiose e idonee a coartare la libertà sessuale della persona offesa, in quanto l'imputato avrebbe insistito nei tentativi di approccio, nonostante l'espresso dissenso di M.V..
La condotta tenuta del ricorrente, che avrebbe espressamente richiesto alla persona offesa il consenso ad andare oltre e si sarebbe immediatamente arrestato a seguito del rifiuto, sarebbe del tutto incompatibile con l'intento di ledere la sfera sessuale della donna.
Dalla ricostruzione dei fatti non può affermarsi con certezza che il ricorrente volesse baciare M.V., su parti del corpo aventi valenza erogena, ben potendo baciarla su zone come la fronte o la guancia, prive di tale connotazione. La circostanza che l'imputato volesse baciare la donna sulle labbra sarebbe stata desunta unicamente dalle sensazioni della persona offesa.
Gli atti compiuti dal ricorrente, seppur fastidiosi ed eticamente riprovevoli, non sarebbero idonei a configurare un'ipotesi di tentativo di violenza sessuale al di là di ogni ragionevole dubbio.
2.2. Con il secondo motivo si deducono i vizi di violazione degli artt. 56,609-bis e art. 131-bis c.p. e della motivazione sul rigetto della richiesta di applicazione di tale causa di non punibilità: il rigetto si fonderebbe sulle modalità della condotta, sulla strumentalizzazione della posizione di datore di lavoro e sull'insistenza degli approcci sessuali.
Lo stato di incensuratezza dell'imputato e l'esiguità del danno cagionato, riconosciuta anche dalla sentenza di primo grado, avrebbero dovuto indurre il giudice di merito a riconoscere l'applicazione della causa di non punibilità de qua.
2.3. Con il terzo motivo si deducono i vizi di violazione dell'art. 62-bis c.p. e della motivazione sul rigetto della richiesta di applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
Analogamente al giudice di primo grado, la Corte di appello avrebbe negato il beneficio delle circostanze attenuanti generiche valorizzando unicamente il comportamento dell'imputato, improntato alla negazione dei fatti, e l'assenza di segni di resipiscenza. Tuttavia, la negazione dei fatti non costituirebbe un elemento di per sé ostativo al riconoscimento del beneficio de quo, trattandosi di una facoltà processuale legittimamente esercitata dall'imputato.
La Corte territoriale avrebbe dovuto valutare ulteriori elementi concreti, tra cui anche lo stato di incensuratezza dell'imputato, al fine di concedere le attenuanti ex art. 62-bis c.p..
2.4. Con il quarto motivo si deducono i vizi di violazione degli artt. 132 e 133 c.p. e della motivazione nella parte in cui non è stata ridotta la pena inflitta in primo grado.
Con l'atto di appello la difesa sottolineò l'assenza di motivazione sul trattamento sanzionatorio: l'applicazione di una pena superiore al minimo edittale sarebbe sproporzionata rispetto alle modalità del fatto e alla gravità della condotta. Inoltre, la riduzione operata a seguito del riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 609-bis c.p., comma 3, sarebbe stata inadeguata, tenuto conto delle peculiarità del caso. Sul punto, la Corte territoriale sì sarebbe limitata ad utilizzare delle mere formule di stile, omettendo di motivare il rigetto dei motivi di appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è infondato.
1.1. Secondo la giurisprudenza il tentativo di violenza sessuale sussiste sia quando gli atti idonei diretti in modo non equivoco alla perpetrazione dell'atto sessuale abusivo non si siano estrinsecati in un contatto corporeo e sia quando il contatto corporeo, quantunque superficiale e fugace, non abbia potuto raggiungere una zona erogena o comunque considerata tale dalla scienza medica, psicologica, antropologica, e presa di mira dal reo per la pronta reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla volontà dell'agente; per la consumazione del reato di violenza sessuale è sufficiente che l'agente raggiunga le parti intime della persona presa di mira (zone genitali o comunque erogene), essendo indifferente che il contatto corporeo sia di breve durata, che la vittima sia riuscita a sottrarsi dal subire ulteriormente la condotta illecita del soggetto attivo o che quest'ultimo consegua la soddisfazione erotica.
Per Sez. 3, n. 17414 del 18/02/2016, F., Rv. 266900 - 01, in tema di violenza sessuale, è configurabile il tentativo del reato, previsto dall'art. 609-bis c.p., in tutte le ipotesi in cui la condotta violenta o minacciosa non abbia determinato una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, poiché l'agente non ha raggiunto le zone intime (genitali o erogene) della vittima ovvero non ha provocato un contatto di quest'ultima con le proprie parti intime (nella fattispecie, la Corte ha accolto il ricorso dell'imputato, ritenendo integrata l'ipotesi di violenza sessuale nella forma tentata e non consumata nella condotta consistita nell'abbassarsi i pantaloni, scoprire il pene, afferrare la nuca della vittima, e cercare con forza di avvicinare la testa della medesima per costringerla ad un rapporto orale, non conseguito in quanto la donna riusciva a divincolarsi prima dell'arrivo delle forze dell'ordine).
1.2. Dalla ricostruzione dei fatti compiuta dalla sentenza impugnata emerge chiaramente che la volontà dell'imputato fosse finalizzata a limitare la libertà sessuale della persona offesa contro la sua volontà.
1.2.1. Contrariamente a quanto asserito nel ricorso, la condotta tenuta dall'imputato non si sostanzia nel semplice tentativo di un bacio dalla dubbia destinazione ma si articola, come per altro rilevato dai giudici di merito, in una pluralità di atti, posti in essere sostanzialmente senza soluzione di continuità, tutti finalizzati ad invadere la sfera sessuale della vittima.
Va ribadito, cfr. Sez. 3, n. 55481 del 25/09/2018, A., Rv. 274632 - 01, in tema di violenza sessuale, che il compimento di plurimi atti sessuali, non intervallati tra loro da un apprezzabile periodo di tempo, integra un unico reato e non più reati unificati dal vincolo della continuazione.
Lo sfregamento della nuca nelle parti intime, a prescindere dalla questione, qui non valutabile in assenza di impugnazione del Pubblico ministero, se tale toccamento diretto di una zona erogena della vittima concretizzi di per sé la consumazione del reato; i ripetuti toccamenti sui fianchi di M.V.; la pretesa di essere massaggiato; l'aver infilato la mano nei pantaloni dopo averle alzato la maglietta, dopo essere stato spinto dalla persona offesa ed aver tirato con forza a sé la donna; ed infine il tentativo, non riuscito, di dare un bacio alla persona offesa dopo averla avvicinata a sé tirandola con violenza dai fianchi costituiscono atti idonei e diretti in modo non equivoco a ledere l'altrui sfera sessuale con coscienza e volontà.
1.3. E' del tutto corretta, quindi, la qualificazione giuridica dei fatti data dalla sentenza.
Inoltre, la Corte territoriale, dopo aver ricostruito l'intera vicenda, indicato le prove a carico ed i plurimi riscontri alle dichiarazioni della persona offesa (pagine 5-12 della sentenza), ha fatto corretta applicazione del principio per cui l'elemento della violenza può estrinsecarsi, nel reato di violenza sessuale, oltre che in una sopraffazione fisica, anche nel compimento insidiosamente rapido dell'azione criminosa tale da sorprendere la vittima e da superare la sua contraria volontà, così ponendola nell'impossibilità di difendersi (Sez. 3, n. 46170 del 18/07/2014, 3., Rv. 260985).
1.4. E' infondato il motivo sull'assenza dell'elemento soggettivo: ai fini dell'integrazione dell'elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, non e'
necessario che la condotta sia finalizzata a soddisfare il
piacere sessuale dell'agente, in quanto è sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell'atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, mentre l'eventuale concorrente finalità ingiuriosa o minacciosa dell'agente non esclude la connotazione sessuale dell'azione (Cfr. Sez. 3, n. 20459 del 24/01/2019, M., Rv. 275965).
La sentenza ha correttamente applicato anche tale principio, sottolineando che le insistenti e reiterate richieste poste dall'imputato e i suoi atteggiamenti insidiosi tenuti nei confronti della persona offesa costituissero espressione univoca di un impulso sessuale.
In particolare, la richiesta che l'imputato ha posto a M.V., dopo averla tirata vicino a sé con forza, e l'invito a fare finta che non fosse successo nulla costituiscono elementi decisivi per dimostrare la consapevolezza da parte dell'imputato della valenza sessuale delle sue condotte.
1.5. Priva di fondamento è la tesi difensiva per cui la motivazione della sentenza di appello sarebbe contraddittoria con quella di primo grado.
1.5.1. La sentenza impugnata, dopo aver richiamato la sentenza di primo grado nelle sue argomentazioni, ha compiuto una valutazione autonoma, approfondita e corretta in diritto di tutte le prove a sostegno della propria tesi, rispondendo in maniera completa ai motivi di appello. Il richiamo alla sentenza di primo grado è da ritenersi riferito a tutte le questioni non dedotte con i motivi di appello, che non rientrano nella devoluzione del giudice di secondo grado (Cfr. Sez. 6 n. 5224 del 02/10/2019, Rv. 278611).
2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
2.1. Poiché l'art. 131-bis c.p. nella formulazione originaria prevedeva che l'istituto possa essere applicato solo nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, occorre determinare, secondo il cd. metodo bifasico, quale sia la pena massima per il delitto tentato circostanziato.
Orbene, tenuto conto che la riduzione della pena per la circostanza attenuante ex art. 609-bis c.p., comma 3, è fino a 2/3, la riduzione della pena massima è di un solo giorno. Poiché la pena massima per il reato ex art. 609-bis c.p., in vigore all'epoca del fatto, era di 10 anni di reclusione, applicando la riduzione di un terzo sulla pena massima - quella di 2/3 incidendo sul minimo edittale - la pena massima del reato è superiore ai 6 anni di reclusione e, quindi, al limite edittale di 5 anni previsto dall'art. 131-bis c.p..
2.2. Nella formulazione attuale, il titolo di reato per cui si procede è ostativo all'applicazione dell'art. 131-bis c.p..
3. Manifestamente infondato è anche il terzo motivo relativo alla mancata concessione delle attenuanti generiche ex art. 62-bis c.p..
L'appello ed il ricorso per cassazione, dal contenuto identico, non indicano, in violazione dell'art. 581 c.p., oltre alla incensuratezza, altri elementi di fatto in base ai quali il giudice di merito avrebbe potuto concedere le circostanze attenuanti generiche.
Nel ricorso si fa riferimento ad tmisi argomenti sulla valutazione di attendibilità della persona offesa ed alla negazione della responsabilità, che non costituiscono elementi positivi di valutazione.
Posto che l'assenza di precedenti penali è elemento ex Iege insufficiente, il ricorso è inammissibile per genericità.
4. Il quarto motivo, con cui si deduce il vizio della motivazione sul trattamento sanzionatorio, è manifestamente infondato, essendo stata irrogata una pena base inferiore alla media edittale.
4.1. Il Giudice per le indagini preliminari ha applicato una pena base di 2 anni di reckisione, rispetto al minimo edittale di un anno ed 8 mesi di reclusione, richiamando esplicitamente i criteri ex art. 133 c.p., rispetto ad un fatto ampiamente descritto nella sentenza. Tale valutazione è stata confermata dalla Corte di appello che ha ritenuto la pena base mite perché vicina al minimo edittale.
Il Giudice dell'udienza preliminare ha poi ridotto di 2/3 la pena base ex art. 609-bis c.p., comma 3.
4.2. Va ribadito che, nel caso di applicazione di una pena prossima al minimo edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo all'adeguatezza, alla congruità, alla non eccessività, all'equità e simili della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. e, così come per gli aumenti e le diminuzioni per le circostanze aggravanti ed attenuanti, l'uso del potere discrezionale del giudice è insindacabile ed è inammissibile il ricorso che tenda ad una nuova valutazione della congruità della pena. Inoltre, il criterio di determinazione è desumibile anche dal testo della sentenza e non solo nella parte destinata alla quantificazione della pena (Sez. 3, n. 38251 del 15/06/2016, Rignanese, Rv. 267949).
5. Pertanto, il ricorso deve essere rigettato.
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p. si condanna il ricorrente al pagamento
delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n.196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 23 marzo 2023.
Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2023