RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 18/3/2019, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia emessa il 5/10/2018 dal Giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale, assolveva H.B. dall'imputazione di furto aggravato, perchè il fatto non sussiste, e confermava la condanna per le condotte di violenza sessuale di cui ai capi 1) e 3), rideterminando la pena nella misura di cinque anni e quattro mesi di reclusione.
2. Propone ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al capo 3) della rubrica. La Corte di appello, esaminando le palesi incongruenze evidenziate dalle testimoni nella descrizione dell'aggressore, operata con caratteri incompatibili con quelli del ricorrente, si sarebbe espressa con commenti ipotetici e valutazioni personali, rispondendo in modo apodittico ed impiegando locuzioni riferibili ad ogni vicenda processuale;
- vizio di motivazione con riguardo alla prova genetica (ancora capo 3). Premesso che l'esame dei campioni biologici non consentirebbe di ravvisare un affidabile grado di compatibilità con il profilo del ricorrente, la Corte di appello avrebbe comunque concluso per la riconducibilità dei campioni medesimi proprio all'imputato, senza di ciò fornire adeguato argomento;
- vizio di motivazione con riferimento alla presenza dell'imputato nell'area della discoteca (ancora capo 3). Accertato che la violenza si sarebbe consumata tra le 4.00 e le 5.00 del mattino, per come indicato in querela, la stessa non potrebbe comunque esser riferita all'imputato; dall'esame delle celle agganciate dal suo telefono, infatti, risulterebbe che lo stesso, nel medesimo momento, si trovava a 13 chilometri di distanza, in un luogo raggiungibile dal locale in circa 30 minuti;
- inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 609-bis c.p., quanto al profilo psicologico del reato (in ordine al capo 1). La sentenza non avrebbe adeguatamente accertato se lo stato di alterazione della persona offesa fosse riconoscibile dall'imputato, e da questi percepibile; l'istruttoria, peraltro, avrebbe provato che la tale condizione era stata voluta e cercata dalla ragazza, al probabile fine di esser più estroversa e disinibita, sicchè il comportamento del ricorrente ben potrebbe esser stato ascrivibile a mera negligenza, non certo a dolo. Il mancato approfondimento di questo punto decisivo imporrebbe l'annullamento della pronuncia;
- inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 609-bis c.p., comma 3. La circostanza attenuante in esame sarebbe stata negata con motivazione viziata, da un lato valorizzando un solo elemento (il rapporto sessuale completo) del tutto irrilevante, attesa la contestazione ex art. 609-bis c.p., comma 2, dall'altro omettendo di considerare che la persona offesa non avrebbe manifestato alcuna contrarietà al rapporto ed anzi, assumendo volontariamente sostanze alcoliche, si sarebbe predisposta all'atto, nella evidente ricerca di un appagamento affettivo e sessuale; senza alcun esame, quindi, dell'effettiva offensività dell'atto.
- lo stesso vizio di motivazione è poi lamentato con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che si lamenta avvenuto in ragione di elementi inadeguati ed insufficienti, quali la mancata resipiscenza in capo all'imputato e la gravità delle violenze di cui al capo 1); ancora senza verificare, quindi, la reale offensività dell'accaduto e le sue eventuali conseguenze in capo alla persona offesa;
- erronea quantificazione della pena, tenuto conto della diminuente per la scelta del rito abbreviato. La sanzione complessiva non avrebbe dovuto superare i 4 anni ed 8 mesi di reclusione, in luogo dei 5 anni e 4 mesi di reclusione irrogati;
- vizio di motivazione, da ultimo, quanto alle statuizioni civili di cui al capo 1). Sebbene tale punto non fosse stato oggetto dell'atto di appello, i Giudici del merito avrebbero dovuto rideterminare d'ufficio tali statuizioni, avendo precisato che la giovane si era posta da sè in condizione di pericolo e di semi incoscienza, senza alcun intervento del ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato, ad eccezione del motivo concernente il trattamento sanzionatorio.
4. Con riguardo alle prime tre censure, relative al capo 3) della rubrica e da trattare congiuntamente, osserva la Corte che non è dato riscontrare il plurimo vizio motivazionale denunciato, contenendo la sentenza - in ordine ai profili interessati - un percorso argomentativo del tutto adeguato, fondato su oggettivi riscontri istruttori e privo di manifesta illogicità; come tale, dunque, non censurabile, specie alla luce degli ulteriori e significativi elementi indiziari sottolineati dal Collegio di appello, che il ricorso non menziona affatto, tantomeno contesta.
4.1. Con riferimento, innanzitutto, agli elementi offerti dalle testimoni per l'identificazione dell'imputato, si lamenta che la sentenza ne avrebbe superato le palesi incongruenze con affermazioni apodittiche e valutative, generiche e riferibili ad ogni vicenda giudiziaria; questo assunto, tuttavia, non può esser condiviso. La Corte di merito, infatti, ha sottolineato: a), quanto all'età, che il riferimento offerto dalle tre giovani ("34-40 anni") non era così distante dal dato reale (l'imputato, alla data del (OMISSIS), aveva 28 anni e 8 mesi), e che il soggetto - valutazione in fatto, qui non censurabile - dimostrava comunque un'età superiore a quella anagrafica, come riscontrato dallo stesso Collegio di appello; b) quanto alla barba e baffi descritti dalle ragazze, che l'imputato ben avrebbe potuto tagliarli dopo i fatti. Con la rilevante precisazione, peraltro, che lo stesso aveva di certo già portato un simile look, come evidenziato dalle pagine del suo profilo Facebook acquisite agli atti; c) quanto alla vettura impiegata, che la descrizione offertane da tutte le testimoni - capi 1 e 3 - rinviava comunque ad un mezzo non piccolo e di colore scuro, come poi quello accertato nella disponibilità del ricorrente (Fiat). Quanto precede, peraltro, con la logica precisazione - di cui ancora alla sentenza impugnata - che tutti questi elementi, peraltro non decisivi, ben potevano comunque giustificarsi con un ricordo non preciso sul punto, attesa l'ora notturna in cui si erano verificati gli eventi dello stesso capo 3) e l'assenza di ogni precedente, assidua frequentazione tra le ragazze ed il ricorrente.
4.2. Con riferimento, poi, alla prova genetica di cui al capo 3), non risponde al vero che la Corte di appello avrebbe "confuso" il giudizio di compatibilità, cui è pervenuto il perito, con una sicura riconducibilità al solo imputato dei campioni rinvenuti.
Per contro, entrambe le sentenze di merito - che si legano nella motivazione, attesa la cd. doppia conforme - hanno innanzitutto ben esaminato gli esiti della perizia, operandone una lettura equilibrata e logica; perizia che aveva concluso per una compatibilità tra campioni prelevati sulla giovane e DNA dell'imputato, con un grado "da moderato a molto forte". Di seguito, i Giudici di merito hanno sottolineato la piena compatibilità tra l'area del corpo della persona offesa su cui il campione era stato prelevato (il torace) ed il racconto offerto dalla stessa, che aveva riferito non di un rapporto sessuale completo (a differenza della giovane di cui al capo 1), ma di toccamenti al seno e di un parziale contatto con le parti intime. Infine, la sentenza in esame ha evidenziato che il perito aveva concluso per un livello di certezza pari a "1" su "4" non già per l'insufficienza dei riscontri, quanto per la mancanza di elementi che consentissero "valutazioni in merito alla natura del materiale biologico riscontrato, alle modalità e/o al tempo della sua deposizione"; materiale che, in ogni caso, non costituiva liquido spermatico, ancora in linea con quanto riferito dalla persona offesa. In forza di quanto precede, la Corte di appello ha quindi concluso nel senso della estrema affidabilità del risultato probatorio, nell'ottica della responsabilità del ricorrente; senza alcun argomento apodittico od illogico, dunque, come invece contestato nel ricorso, ma con una valutazione complessiva ed armonica delle diverse emergenze probatorie.
4.3. Con riguardo poi, da ultimo sul capo 3), alla presenza del ricorrente nell'area della discoteca, nella notte del (OMISSIS), la motivazione della sentenza risulta ancora del tutto adeguata e logica, così come palesemente infondata la censura proposta.
Osserva il Collegio, infatti, che il dato offerto dal ricorrente - secondo cui, al momento della violenza, lo stesso sarebbe stato ben lontano dai luoghi descritti in querela - risulta soltanto asserito e nient'affatto dimostrato, emergendo dagli atti (ben valutati dalla Corte di appello) una circostanza sensibilmente diversa. In particolare, la sentenza, richiamando l'annotazione dei Carabinieri in atti, ha evidenziato che l'uomo, lungi dal rimanere per tutta la notte in (OMISSIS), come dallo stesso sempre riferito, tra le 00.00 e le 05.00 del (OMISSIS) si era certamente recato a (OMISSIS), "dunque in un contesto spaziale perfettamente compatibile con la sua presenza presso il locale" ove poi avrebbe prelevato la persona offesa, nella veste di tassista abusivo. Del tutto indimostrata, oltre che propria del solo giudizio di merito, risulta poi l'ulteriore considerazione di cui al ricorso, secondo la quale l'imputato si sarebbe trovato nella citata via (OMISSIS) "nel medesimo momento" della violenza; l'impugnazione, in particolare, non indica ove si ricaverebbe questo dato, che non è citato nella sentenza di appello e non si rinviene affatto neppure dall'annotazione dei Carabinieri, allegata al ricorso.
5. Non solo.
La sicura riconducibilità del capo 3) all'imputato, che ha negato di aver mai conosciuto la persona offesa, è stata affermata dalla Corte di appello anche alla luce di ulteriori e rilevanti elementi, che - come già sostenuto - il ricorso neppure menziona.
5.1. In particolare, è stato sottolineato che il numero di telefono in uso allo stesso - che una delle testimoni (amica della persona offesa) aveva poi scoperto di avere in rubrica - era associato ad un profilo Whatsapp la cui immagine annessa era per certo riferibile a quella del soggetto che, nella notte in esame, era stato incaricato (proprio da una delle amiche) di riportare a casa la giovane, molto stordita a causa dell'alcool; in questi termini, infatti, si era espressa proprio una delle testimoni, con affermazioni la cui attendibilità non è stata contestata neppure con il ricorso.
5.2. Di seguito, la sentenza ha evidenziato che proprio le due amiche della vittima avevano visto l'imputato non soltanto nella notte del (OMISSIS) (allorquando, peraltro, questi si era ripresentato fuori della discoteca, dopo aver consumato la violenza, rivendicando il pagamento della corsa), ma anche il successivo (OMISSIS), allorquando "avevano orchestrato un vero e proprio appostamento"; le giovani, in particolare, avevano contattato il tassista con il numero di cui disponevano, a nome A., e questi si era quindi presentato, venendo non solo riconosciuto con assoluta certezza come lo stesso della volta precedente, ma anche identificato dalla Polizia, appositamente chiamata dalle ragazze medesime. Con l'ulteriore e rilevante precisazione, peraltro, che una delle due, l'indomani, era stata contattata proprio dall'uomo, il quale le aveva chiesto per quale motivo avesse chiesto l'intervento delle Forze dell'ordine; ebbene, nell'occasione questi aveva usato un contatto Messanger al quale era iscritto come "(OMISSIS)", sicuramente riferibile all'imputato come da fotografie allegate, quel che la Corte di appello ha ben verificato.
5.3. Ancora, lo stesso Collegio ha poi sottolineato che la persona offesa aveva riferito di "un accento meridionale, forse campano" dell'uomo che le aveva usato violenza; circostanza non solo confermata dalle sue amiche (così come dalle giovani escusse in ordine al capo 1), ma anche ben riferibile all'imputato, che aveva vissuto a Napoli per diversi anni, come da documentazione in atti.
5.4. Da ultimo, ma non certo per significato, la Corte di merito ha evidenziato la palese infondatezza della tesi per la quale l'episodio del luglio 2016 non potrebbe esser addebitato al ricorrente per aver questi, all'epoca, già cessato l'attività di tassista abusivo, avendo aperto una pizzeria; tale versione, infatti, risulta radicalmente smentita da quanto accaduto (OMISSIS) (capo 1), allorquando lo stesso uomo aveva preso a bordo tre ragazze (una delle quali poi vittima di violenza) proprio nella veste di tassista abusivo, peraltro di base di fronte alla medesima discoteca.
6. A conclusioni di manifesta infondatezza, poi, perviene la Corte anche in ordine alla seconda parte del ricorso, relativa alla contestazione di cui al capo 1); con riguardo alla quale, peraltro, la linea difensiva risulta ben diversa dalla precedente, avendo l'imputato ammesso il rapporto sessuale con la giovane, rivendicandone tuttavia la piena consensualità. Si lamenta, in particolare, il vizio di motivazione quanto alla riconoscibilità, da parte del ricorrente, dello stato di alterazione della vittima, sottolineando che questo sarebbe stato "voluto e cercato" dalla ragazza, in uno con "il desiderio di essere più disinibita", il che dovrebbe esser considerato "assolutamente normale e non un'alterazione della normalità"; un comportamento che, nella lettura offerta, non potrebbe dunque esser equiparato ad una totale assenza di consenso, specie se non confermato a posteriori, come nel caso in esame.
6.1. Questa tesi, a giudizio del Collegio, è manifestamente infondata.
Il Giudice di appello, pronunciandosi sul punto, ha infatti steso ancora una motivazione del tutto adeguata, ed in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte, qui da ribadire. In particolare, ha preso le mosse dalle condizioni di palese alterazione alcolica nelle quali versava la giovane, all'uscita della discoteca: alterazione alcolica evidente per come descritta dalle amiche, le quali avevano infatti riferito che la ragazza (non minorenne, come erroneamente affermato in sentenza, peraltro senza conseguenze sul piano sanzionatorio): a) alternava momenti di ilarità a crisi di pianto incontrollabili; b) barcollava un pò; c) incontrato il ricorrente ad un chiosco di fronte, aveva fatto discorsi palesemente sconnessi, prima lamentando che nessuno la desiderava, quindi chiedendo all'uomo di farle dei "grattini" su un braccio.
Comportamenti che le stesse amiche avevano giudicato del tutto inconsueti, atteso "il carattere normalmente schivo e riservato" della giovane; comportamenti, ancora, che come affermato dal primo Giudice, ripreso dalla Corte di appello - "lungi dal poter essere considerati preludio di consenso, indicavano anzi lo stato di malessere e confusione e, appunto, l'incapacità di prestare valido consenso."
6.2. Di seguito, la sentenza ha richiamato il breve video girato da una delle amiche nella vettura del ricorrente (quel che, peraltro, aveva contribuito alla sua identificazione), sottolineando che la persona offesa lì appariva "del tutto apatica, statica, non partecipe alla discussione", a differenza delle altre ragazze e ad evidenza ulteriore della propria condizione.
6.3. Alla luce degli elementi riportati, che il ricorso non contesta efficacemente, limitandosi a congetture apodittiche e mere illazioni (circa le cause e gli effetti dell'alterazione alcolica), la Corte di appello - al pari del G.i.p. - ha quindi concluso per la fondatezza del capo 1) della rubrica. In particolare, ha evidenziato che la persona offesa non aveva prestato alcun valido consenso al rapporto sessuale, risultando quello eventualmente fornito (ipotesi che la stessa, con piena onestà, non si era sentita di escludere) del tutto irrilevante ed ininfluente alla luce della semiincoscienza in cui versava. Quel che, peraltro, la stessa aveva confermato una volta riacquistata sobrietà, affermando che mai avrebbe voluto avere un rapporto sessuale con uno sconosciuto. Una condizione di palese, innegabile, evidente incapacità a prestare un valido consenso, quindi, come tale fonte di approfittamento da parte di colui - l'imputato - che aveva per certo riconosciuto detta limpida condizione soggettiva. Sì da trovare applicazione, dunque, il costante e condiviso indirizzo in forza del quale, in tema di violenza sessuale in danno di persona che si trovi in stato di inferiorità fisica o psichica, il reato di cui all'art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1, è configurabile quando l'agente, abusando della condizione di debolezza del soggetto passivo, induce quest'ultimo a compiere o a subire atti sessuali ai quali non avrebbe altrimenti prestato il consenso (tra le altre, Sez. 3, n. 16899 del 27/11/2014, I, Rv. 263344); quel che, peraltro, è confermato dal principio per il quale l'abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica consiste nel doloso sfruttamento della menomazione della vittima e si verifica quando le richiamate condizioni sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona che, versando in uno stato di difficoltà, viene ridotta ad un mezzo per l'altrui soddisfacimento sessuale (tra le molte, Sez. 3, n. 20776 del 14/4/2010, T, Rv. 247655).
6.4. Conclusivamente, dunque, la Corte di appello - con una motivazione del tutto adeguata ed immeritevole di censura, tanto più nei generici caratteri proposti - ha fatto buon governo del principio, pacifico e qui da ribadire, secondo cui, in tema di violenza sessuale, per la sussistenza del reato di cui all'art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1, è necessario accertare che: 1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto; 2) il consenso dell'atto sia viziato da tale condizione; 3) il vizio sia riscontrato caso per caso e non presunto, nè desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona, quando non sia tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento, se necessario, fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi; 4) il consenso sia frutto dell'induzione; 5) l'induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato; 6) l'induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l'atto sessuale, ma lo precedano (Sez. 3, n. 52835 del 19/6/2018, P, Rv. 274417).
Esattamente come nel caso di specie.
7. Del tutto infondato, di seguito, risulta il ricorso anche con riguardo al quarto motivo, in punto di circostanza attenuante di cui all'art. 609-bis c.p., comma 2, (quanto al capo 1).
La Corte di merito, infatti, ha evidenziato la complessiva ed indiscutibile gravità dell'accaduto, caratterizzata da un rapporto sessuale completo (e, forse, anche da uno orale) con una giovane di 21 anni in stato di totale incapacità psichica, "priva di ogni forma di controllo e della possibilità di resistere al suo aggressore"; tanto che solo l'indomani, al risveglio, aveva avvertito una "sensazione strana", apparendole flashback di quanto accaduto nelle ore precedenti, e risultandone poi molto turbata, attesane la compresa gravità (quel che, dunque, la sentenza ha valutato, contrariamente a quanto indicato nel ricorso). Senza alcuno spazio, quindi, per le mere illazioni, per le affermazioni apodittiche contenute nel ricorso, laddove si è sostenuto che "l'ingestione di sostanze alcoliche ha certamente predisposto la giovane all'atto sessuale", nella "ricerca di un appagamento affettivo e sessuale."
Con la motivazione stesa sul punto, quindi, il Collegio di appello ha aderito all'indirizzo, di costante affermazione giurisprudenziale, in ragione del quale, in tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità di cui all'art. 609-bis c.p., u.c., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest'ultima, anche in relazione all'età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità (per tutte, Sez. 3, n. 6784 del 18/11/2015, D, Rv. 266272).
8. Manifestamente infondato, di seguito, risulta il ricorso anche con riguardo alle circostanze attenuanti generiche, che si invocano alla luce dell'incensuratezza dell'imputato e della condotta processuale, improntata a collaborazione. Orbene, premesso che tale eventuale comportamento non si è affatto tradotto nell'ammissione di responsabilità, le attenuanti in esame sono state negate dalla Corte di appello in ragione di elementi concreti, quali la mancata resipiscenza e la gravità delle condotte accertate, peraltro commesse in danno di ragazze molto giovani. Così confermandosi il canone ermeneutico in forza del quale, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il Giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (per tutte, Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899).
9. Alle medesime conclusioni, ancora, perviene il Collegio in ordine alle statuizioni civili di cui al capo 1), oggetto di una censura - peraltro non proposta in grado di appello, quindi inammissibile in questa sede - che muove da una premessa del tutto errata; quella secondo cui la Corte di merito avrebbe offerto una valutazione del fatto meno grave di quella operata dal Tribunale, enfatizzando l'assunzione volontaria - e non indotta - di alcolici da parte della persona offesa. Nulla di ciò si rinviene, invero, nella pronuncia di primo grado, sì che l'affermazione è destituita di fondamento.
In ordine a tutti i profili che precedono, dunque, il ricorso risulta inammissibile; dal che la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, da liquidare in sede di merito, disponendone il pagamento in favore dello Stato.
10. Da ultimo, il trattamento sanzionatorio, la cui censura, per contro, è fondata.
La Corte di appello, infatti, ha individuato la pena base in 6 anni di reclusione (capo 1); l'ha quindi aumentata di un anno di reclusione ex art. 81 cpv. c.p. per il capo 3), per un totale, quindi, di 7 anni di reclusione; l'ha infine diminuita per la scelta del rito abbreviato, erroneamente quantificandola in 5 anni e 4 mesi di reclusione, anzichè in 4 anni e 8 mesi di reclusione (7 anni=84 mesi, ridotti di 1/3= 56 mesi). Alla correzione del calcolo ben può provvedere questa Corte, ai sensi dell'art. 620, comma 1, lett. l), rideterminando la pena in anni quattro e mesi otto di reclusione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, che ridetermina nella misura di anni quattro e mesi otto di reclusione. Dichiara inammissibile il ricorso nel resto e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, disponendone il pagamento in favore dello Stato.
Dispone, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, che - a tutela dei diritti o della dignità degli interessati - sia apposta a cura della cancelleria, sull'originale della sentenza, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.
Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2020