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Bancarotta fraudolenta documentale: sui rapporti con la bancarotta impropria in caso di falso in bilancio seguito da fallimento

Bancarotta fraudolenta documentale

Cassazione penale sez. V, 07/06/2022, n.37077

In tema di reati fallimentari, l'assoluzione dal delitto di bancarotta fraudolenta impropria, di cui all'art. 223, comma secondo, n. 1 legge fall., nella fattispecie di falso in bilancio seguito da fallimento, non interferisce sulla decisione in ordine al delitto di bancarotta fraudolenta propria documentale, stante la diversità dei rispettivi oggetti, potendo, quello di bancarotta documentale propria, concernere ipotesi di falsificazione di libri o di altre scritture contabili e non di bilanci, costituenti invece l'oggetto materiale del delitto di cui all'art. 223, comma 2, n. 1 l. fall.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1.Con la sentenza impugnata del 12.01.2021, la Corte di Appello di Milano ha parzialmente riformato, limitatamente alla pena, riducendola in anni tre e mesi sei di reclusione, la pronuncia emessa, in data 11.07.2019, dal Tribunale della medesima città che, ritenuta la contestata recidiva specifica e reiterata, dichiarava Z.C. colpevole dei reati fallimentari di cui all'art. 216, comma 1, n. 1 e 2, art. 223, comma 2, n. 1) in relazione agli artt. 2621 e 2622 c.c. e arrt. 219, comma 2 n. 1 L. Fall., ascrittigli ai capi a), c), f) e g); ha confermato nel resto il provvedimento di primo grado. Specificamente, Z., in qualità di consulente della società e/o amministratore di fatto, a partire dal 2004, della (Omissis) s.r.l. - dichiarata fallita in data 15.3.2007 - è stato ritenuto responsabile, in concorso, di più fatti di bancarotta fraudolenta quali (ognuno costitutivo di un autonomo capo di imputazione): a) la distrazione di Euro 220.000,00 a favore dei componenti della famiglia G. mediante la rinuncia al credito vantato dalla fallita nei confronti degli stessi per canoni di locazione, senza chiederne il pagamento e senza chiedere il rilascio degli immobili ai conduttori morosi, rinnovando, invece, i contratti di locazione in favore dei conduttori inadempienti; c) la distrazione della somma di circa Euro 100.000,00 corrisposta dalla fallita a I. S.p.a., società nella disponibilità dell'imputato; f) la tenuta di libri e scritture contabili in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e la movimentazione degli affari, in particolare falsificando le scritture e omettendo di consegnare al curatore fallimentare il libro delle adunanze e delle deliberazioni del collegio sindacale, al fine di arrecare pregiudizio ai creditori della società e di conseguire per sé o altri un ingiusto profitto; g) il concorso nell'aggravamento del dissesto della società, omettendo di iscrivere nel bilancio relativo all'esercizio 2004, redatto nel 2005, la passività conseguente alla escussione della fideiussione da parte di Hyosung Deutschland Gmbh che avrebbe portato il patrimonio netto della stessa in negativo per circa 2,4 milioni di Euro (2.400.000,00), continuando l'attività di impresa fino alla data del fallimento e portando il disavanzo ingiustificato a circa Euro 13, 5 milioni di Euro (13.500.000,00). E' stato, invece, assolto per insussistenza dei fatti riguardo ai capi d) ed e), mentre il reato di bancarotta distrattiva qualificato di bancarotta preferenziale, di cui al capo b), è stato dichiarato prescritto. 2. Avverso la predetta sentenza, ricorre per cassazione, a mezzo dei propri difensori di fiducia, Avv.ti A. eR., l'imputato, prospettando quattro motivi. 2.1. Con il primo motivo - che si articola nei punti la), lb), 1c) e 1d) - si contesta, sotto diversi profili di illegittimità, la ritenuta sussistenza e applicazione della recidiva, il giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p. nonché il mancato rilievo dell'intervenuta prescrizione del reato. In particolare, si deduce violazione di legge e vizio di omessa motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione all'art. 99 c.p., con riferimento alla ritenuta sussistenza della recidiva, laddove la Corte territoriale, elencando solamente e con una sommaria esposizione i trascorsi penali dell'imputato, si limita a una generica conferma delle statuizioni del Tribunale, il quale ravvisava superficialmente - a pag. 38 della pronuncia di primo grado - la sussistenza della recidiva in questione in considerazione della natura dei reati (contro il patrimonio e la fede pubblica) per i quali in passato il ricorrente ha riportato condanne, ritenuti "sicuramente espressivi di una maggiore capacità criminale". Specificamente, la Corte territoriale, a fronte delle doglianze difensive presentate - a pag. 38 dell'atto di appello -, incorre in errore nell'applicazione dell'art. 99 c.p. poiché, in contrasto con la consolidata giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite (Sent. 20798/2011), secondo cui il giudizio sulla recidiva non riguarda l'astratta pericolosità del soggetto o un suo status personale, ma implica un'attenta valutazione della gravità dell'illecito commesso in relazione ai precedenti reati, non considera con la dovuta attenzione la risalenza dei fatti di reato precedenti (per la gran parte depenalizzati o amnistiati/indultati), il cui ultimo episodio delittuoso, per diffamazione, si è verificato nel 2001, né considera che non vi è alcuna relazione qualificata fra le condanne passate e i fatti per cui si è processo. Quanto al giudizio di bilanciamento e al trattamento sanzionatorio disposto - di cui al punto sub 1c) - si deduce la carenza motivazionale poiché la Corte territoriale, a pag. 36 della sentenza impugnata, incorrendo nella medesima omissione del Tribunale e non considerando adeguatamente le doglianze prospettate dalla difesa, (che chiedeva un adeguamento del trattamento anche in relazione a una migliore e più chiara espressione delle argomentazioni riguardo al giudizio di bilanciamento attraverso il quale si addiveniva alla sanzione finale), con una linea motivazionale non chiara e senza alcun riferimento rinvenibile (anche nella pronuncia di primo grado) in ordine alla quantificazione della pena base e agli eventuali aumenti o diminuzioni di pena effettuati per aggravanti o attenuanti, sembra porre a fondamento della parziale riforma del trattamento sanzionatorio la concessione delle attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alle aggravanti, giudizio che già pareva essere stato effettuato, seppur in maniera appena abbozzata, dal Tribunale (a pag. 39 della pronuncia di primo grado). Infine, al punto sub 1d), si deduce l'erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 157 c.p. poiché la Corte territoriale ha applicato un inammissibile automatismo tra il riconoscimento della recidiva, peraltro totalmente immotivata come si è appena esplicitato, e l'effetto giuridico della medesima, laddove, invece, la giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite (Sent. n. 20808/2019), ha esclusa la rilevanza della recidiva dal computo della prescrizione ove, come nel caso in esame, essa non abbia esplicato alcun effetto giuridico sulla sanzione finale irrogata; e, pertanto, posto che il fallimento è del 19 marzo 2007 e che l'aggravante ad effetto speciale dell'aver cagionato un danno di rilevante gravità non è stata ritenuta sussistente, i reati contestati sono ampiamente prescritti. 2.2. Con il secondo motivo, si contesta complessivamente la illegittimità delle contestazioni suppletive intervenute nel giudizio di primo grado (introduttive dei reati per i quali vi è stata condanna, di cui ai capi A, C e G) e la violazione del principio di corrispondenza tra l'accusa e la condanna. Segnatamente, ai punti 2a) e 2b), si deduce la violazione di legge processuale ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c) in ordine agli artt. 518,521 e 522 c.p.p. per non avere, la Corte di Appello, rilevato la nullità della sentenza di primo grado, accogliendo l'eccezione dell'illegittimo utilizzo dell'istituto delle contestazioni suppletive da parte del p.m. d'udienza (non il titolare del fascicolo) che, con "intervento additivo", avallato dal Tribunale, inseriva "fatti nuovi" nella contestazione; fatti che, invece, comportavano l'obbligo di procedere nelle forme ordinarie, poiché non erano un'evoluzione prevedibile del perimetro accusatorio sulla base degli esiti delle indagini preliminari e del dibattimento, ma erano un autentico e radicale stravolgimento dello stesso, tale da produrre una profonda modifica del ruolo e delle condotte contestate all'imputato: dall'essere accusato in qualità di consulente di fatti di bancarotta documentale (capi d), e) ed f)) si è passati all'imputazione, con il ruolo di amministratore di fatto, per gravi ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione (capi a), b), c) e g)). Invero, le nuove accuse integrano fatti di reato del tutto nuovi ed eccentrici rispetto alla contestazione portata in giudizio sino al 30.1.2018, reati (di natura distrattiva) che solo in minima parte sono stati contestati, ai concorrenti G. e D. nel processo "gemello", e, pertanto, trattasi non di fatti "diversi", ulteriori e autonomi rispetto a quello contestato e, dunque, tali da aggiungersi all'autonomo thema decidendum, ma di "fatto nuovo", in considerazione anche del diverso bene giuridico tutelato integrante una diversa imputazione e ricostruzione degli elementi essenziali del reato. In proposito si censura la motivazione fornita sul punto dalla Corte territoriale, laddove, in relazione alla ammissibilità delle contestazioni tardive o patologiche, richiama una recente pronuncia di questa Corte, e sostiene, in ragione della peculiarità della disciplina dell'illecito fallimentare, che si caratterizzerebbe per la c.d. "unitarietà del reato", che la norma in questione configuri una norma penale mista alternativa rispetto alla quale l'individuazione di ulteriori condotte distrattive non potrebbero mai generare un fatto nuovo, ma solo diverso, tale da integrare l'aggravante di cui all'art. 219 L. Fall.. Si eccepisce che la Corte territoriale, con un ragionamento illogico e fallace, erra poiché non considera il diverso e più consolidato orientamento di legittimità che in materia di unitarietà del reato fallimentare sostiene l'abbandono della concezione del fallimento come evento, ritenendo che i plurimi fatti di bancarotta nell'ambito del medesimo dissesto fallimentare, pur unificati normativamente nella previsione di cui all'art. 219, comma 2, n. 1, L. Fall., rimangano naturalisticamente apprezzabili se riconducibili a distinte azioni criminose e sono da considerare e trattare come fatti autonomi, configurando, nella sostanza, un'ipotesi di concorso di reati regolamentata, quoad poenam, in deroga alla disciplina generale sul concorso di reati e sulla continuazione. Conseguentemente, al punto 2b) si deduce la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e al punto 2c) si deduce l'illogicità della motivazione in punto di insussistenza del fatto nuovo e della disapplicazione della disciplina di cui agli artt. 518 e 522 c.p.p., posto che, a fondamento del proprio ragionamento, la Corte territoriale pone una pronuncia di legittimità che, in realtà, non esclude affatto la possibilità di applicazione della disciplina di cui all'art. 518. Si lamenta, inoltre, al punto 2d), la violazione di legge processuale in ordine all'art. 521 c.p.p. per avere, la Corte di appello, condannato il ricorrente in qualità di amministratore di fatto rispetto alle imputazioni - originaria - al medesimo contestate solo a titolo di concorrente extraneus. In particolare, a seguito delle contestazioni suppletive il quadro imputazionale appariva farraginoso e composito, costituito dai nuovi capi a), b) c) e g) (consistenti in vere e proprie distrazioni), contestati all'imputato a titolo di amministratore di fatto, aggiunti ai precedenti, che, lasciati intatti nei contenuti e modificati solo nell'elencazione letterale - sub d), e) e f) -, contestavano, invece, i fatti nella qualità di consulente in concorso con gli amministratori di diritto (consistenti in condotte di predisposizione di scritture contabili inattendibili). Si rileva, già nella valutazione del Tribunale, una commistione tra i due alvei accusatori: la sentenza di primo grado arbitrariamente elimina la qualifica di concorrente extraneus in capo a Z., prevedendo solo l'ipotesi ben più grave ed ontologicamente diversa di amministratore di fatto per tutti i reati sia gli originari che i sopravvenuti, e, sul punto, si censura l'inaccettabilità dell'assunto cui perviene il giudice di secondo grado che facendo ricorso alla pronuncia di legittimità n. 2275/2009 - secondo la quale però si afferma che non integri la violazione del principio di correlazione tra reato contestato e ritenuto in sentenza la decisione con cui sia condannato un soggetto come concorrente esterno nel reato di bancarotta fraudolenta in luogo di amministratore di fatto e non già l'ipotesi inversa ricorrente nel caso di specie - ritiene che al ricorrente andrebbero ascritti tutti i fatti contestati nella identica qualità di amministratore di fatto, senza distinzione tra i capi originari e quelli oggetto della contestazione suppletiva. A sostegno della presente doglianza, si riporta anche il dato testuale del verbale di udienza del 30.1.2018, là dove indica una "riidentificazione" dei capi originari come d) al posto di 1 ed e) al posto di 2 e f) al posto di 3. Manifesta in proposito appare, dunque, la violazione in relazione specificamente al capo f), ove si perviene a una condanna per bancarotta documentale sulla base della ritenuta qualità di amministratore di fatto in capo al ricorrente, nonostante la differente prospettazione dell'accusa, anche a seguito delle contestazione suppletive. Del pari, ai punti 2e) e 2f), si censura violazione di norma processuale e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c) ed e), in relazione agli artt. 517,519 e 522 c.p.p., per non avere, la Corte di appello, dichiarato la nullità della sentenza per violazione della disciplina codicistica in materia di nuove contestazioni e diritti delle parti, poiché, quand'anche si aderisse alla prospettazione per cui le nuove contestazioni rientrino fra quelle previste e disciplinate dall'art. 517 c.p.p. (contestata ai punti precedenti), nel caso in esame - come già espressamente devoluto in sede di appello a pag. 16 dell'atto di impugnazione - vi è stata comunque violazione dell'art. 519 c.p.p. per omesso avviso all'imputato della facoltà di chiedere un termine a difesa in ragione delle ulteriori contestazioni mosse dal p.m., e ciò in violazione dei diritti processuali del ricorrente affermati dall'art. 111 Cost. istitutivo dei canoni del c.d. giusto processo e dall'art. 6 della C.e.d.u. - in tal modo privato della possibilità di delineare una nuova strategia difensiva e di valutare l'accesso ai riti alternativi. Nello specifico, si contesta l'operato della Corte territoriale sul punto, la quale banalizza la questione, omette di pronunciarsi al riguardo e - a pag. 19 - fornisce una motivazione solo apparente poiché non riconosce la violazione del diritto fondamentale del giusto processo limitandosi ad osservare la mancanza di una richiesta in tal senso da parte della difesa, ove il comportamento della difesa deve essere preceduto da una qualificata informazione da parte del Tribunale di cui deve trovarsi evidenza nel verbale di udienza, non rinvenibile nel caso di specie. 2.3. Con il terzo motivo si ravvisano plurimi profili di censura riguardo ai singoli capi di imputazioni ritenuti sussistenti. Anzitutto - ai punti 3a), 3b), e 3c) - si deducono vizi motivazionali, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e) in punto di indicazione del contributo causale del ricorrente riguardo ai reati di cui ai capi a) e c). In relazione al capo a), si lamenta che, a fronte della doglianza difensiva prospettata con l'atto di appello con cui si eccepiva l'indeterminatezza dell'imputazione relativa alla distrazione di Euro 220.000,00 mediante rinuncia al credito di canoni di locazione, la Corte di appello, in un continuum motivazionale con il Tribunale, riconduce la responsabilità del fatto all'operato (non meglio qualificato) del ricorrente, attribuendogli l'attività distrattiva consistente nella rinuncia al credito dei canoni locatizi e nella stipulazione di un nuovo contratto di locazione, quando tali condotte sarebbero commesse da altri (il solo G., poi assolto dall'accusa), ai quali peraltro nessun analogo rilievo è stato mosso. In particolare, il rilievo per cui assente sarebbe nell'imputazione qualunque indicazione riguardo al contributo causale dell'imputato in relazione al capo a) è stato smentito dalla Corte territoriale con la petizione di principio che il ricorrente è responsabile in quanto amministratore di fatto dalla fine del 2004, sino alla data del fallimento, seppur, con evidente illogicità nel ragionamento, nella medesima motivazione, la Corte escluda, poi, la sussistenza, prima del luglio 2005 (data di insediamento del nuovo amministratore unico D. alla guida della (Omissis) s.r.l.) di alcun rapporto tra la fallita e Inconfisco, riconducibile al ricorrente. Inoltre, sempre sul medesimo capo, quanto ad ulteriore illogicità della motivazione, si eccepisce che, seppur il ricorrente è imputato dei fatti di cui al capo a) in concorso con D. e G., giudicati in separato giudizio, il capo in questione non è stato contestato al D. (supposto amministratore di diritto dell'epoca in cui sì colloca l'ipotizzata attività gestoria del ricorrente), ma solo al G. (sottoscrittore dei contratti di locazione), poi assolto. Quanto al capo c) ovvero alla distrazione di Euro 100.000, si lamenta che la Corte di appello perviene a una conferma della sentenza di primo grado omettendo di considerare i profili dedotti in sede di gravame riguardo al ruolo e al contributo causale dell'imputato rispetto al fatto distrattivo in questione, non delineato in imputazione. Sul punto si evidenzia altresì che il fatto è contestato all'imputato nella sua qualità di amministratore di fatto e in concorso con gli altri amministratori di diritto, ove, in realtà, al solo D. è stato contestato il medesimo fatto, mentre al G. nulla è stato contestato al riguardo. Inoltre si segnala l'illogicità della motivazione nella parte in cui desume la consapevolezza in capo a Inconfisco - e non al ricorrente, identificato con la società stessa - della distrazione della somma di Euro 85.000,00 - corrispondente alla rata di mutuo che (Omissis) s.r.l. avrebbe corrisposto alla banca creditrice mediante assegno bancario, poi andato perduto - dal mero fatto che Inconfisco ha dimostrato al curatore la disponibilità ad eseguire il pagamento solo su presentazione del titolo in questione, ovvero del titolo che non si trovava. Inoltre, non si è tenuto conto che la somma corrispondente è stata interamente restituita alla curatela da Inconfisco, dopo l'accertamento dei fatti che hanno determinato la dispersione del titolo. In relazione al capo f), poi, sì contesta in primis che data la formulazione di tale capo di imputazione per relationem con rimando ai capi di accusa d) ed e), subisce un colpo mortale la condanna sul capo f) a seguito della declaratoria di assoluzione con formula piena "perché il fatto non sussiste" riguardo ai precedenti capi richiamati; assoluzione che avrebbe dovuto comportare una pronuncia assolutoria anche per il capo f) in questione, poiché è di difficile comprensione l'assunto della Corte che attribuisce una sorta di anomala ultrattività alle condotte costituenti il corpo centrale dell'originaria accusa - soprattutto le numerose (n. 8) condotte addebitate all'imputato al capo d) - nonostante per esse sia intervenuta pronuncia assolutoria e assegna al rinvio per relationem un valore meramente descrittivo, sicché tale capo conserverebbe il proprio carattere autonomo. Nello specifico, si lamenta altresì che la Corte di appello, senza alcuna motivazione logica e coerente, per conservare un debole puntello ai brandelli residui del capo f), condivide i sospetti del Tribunale in punto di falsificazione delle scritture che non assurgono mai a prova certa e sono frutto per lo più di errori di interpretazione, a tratti grossolani, degli elementi probatori. In secundis, riguardo sempre al capo f), si deduce violazione di legge ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all'art. 2421 c.c., comma 1 n. 5) e comma 2, per avere la Corte di appello ritenuto sussistente l'obbligo di consegna del libro delle adunanze del collegio sindacale in capo all'imprenditore, laddove la norma in questione prescrive, in realtà, che, a differenza degli altri, il libro delle adunanze e delle deliberazioni del collegio sia tenuto dal collegio stesso, sicché diversamente ragionando si è finito col porre illegittimamente a carico del ricorrente un obbligo non spettante al medesimo, ove, peraltro, risulta che il D. abbia consegnato alla curatela tutti i libri contabili in suo possesso, rendendo perfettamente ricostruibile la storia e le vicende della società. Inoltre, si rileva che il collegio sindacale si dimise nel maggio 2005, quando la società si trasformò in s.r.l. e, dunque, cessava a quel tempo l'obbligatorietà della sua tenuta. In tertiis, si deduce violazione di legge, sempre in riferimento al capo sub f) in relazione all'art. 216 L. Fall. per avere, la Corte di appello, ritenuto sussistente il reato di bancarotta fraudolenta documentale. Si osserva che, entrambi i giudici di merito, non hanno tenuto in alcun conto l'elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta documentale, che lo distingue dalla fattispecie dalla bancarotta documentale semplice, così come delineato dalla giurisprudenza di legittimità, consistente nella sussistenza di un quadro di generale inattendibilità nelle scritture contabili tale da rendere impossibile ricostruire il volume di affari o il patrimonio della società fallita. A tal proposito, si contesta che tale elemento ricorra nel caso di specie, essendosi il giudice limitato a rilevare l'assenza del libro delle adunanze del collegio sindacale come unico requisito sufficiente a integrare la condotta prevista dall'art. 216, comma 2, L. Fall.. Con il punto 3g), poi, si deduce l'illogicità della motivazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e) in relazione al capo g), poiché, anzitutto, l'accusa contestata in udienza dal p.m. sul punto non risulta contestata esplicitamente nel parallelo processo penale a carico dei coimputati ed è nel presente ripresa anche in altra forma come bancarotta documentale rubricata al capo d) (per il quale è intervenuta l'assoluzione), quale generica alterazione dei dati di bilancio. Si lamenta che l'ulteriore contestazione, contenuta al capo g), viene ritenuta sussistere dalla Corte d'appello con argomentazioni illogiche e contraddittorie rispetto alle dichiarazioni rese sul punto dal teste Saporito (il curatore fallimentare, in sede di udienza del 30.1.2018), il quale ha esplicitamente escluso l'aggravamento contestato in relazione alla mancata iscrizione della fideiussione, anche perché, sempre da quanto riferito dal curatore nella sua relazione ex. art. 33 L. Fall., le cause del fallimento della (Omissis) sono da individuarsi pacificamente - fatto ritenuto incontestabile anche dalla Corte a pag. 35 della sentenza impugnata - nella concessione e nella successiva escussione delle ingenti garanzie prestate a Du Pont e Hyosung dalla (Omissis), in favore di Itam e pari complessivamente a 16.000.000,00 di Euro. Tuttavia, riguardo a tale fatto incontrovertibile, la Corte territoriale "gioca" con le parole della difesa e attribuisce alla mancata iscrizione della fideiussione effetto sufficiente ad integrare l'accusa di aggravamento, laddove il capo di imputazione non formula un'ipotesi indeterminata di aggravamento, bensì la descrive compiutamente identificandola con l'importo esatto di una delle due grosse fideiussioni che la (Omissis) presta durante la fase di amministrazione del G.. Ulteriore elemento di stridente incoerenza lo si rinviene infine in riferimento alla ritenuta esclusione della contestata aggravante del danno di rilevante gravità sulla scorta della considerazione secondo cui l'iscrizione (seppur tardiva) della caparra di Euro 3.500.000,00 non ha prodotto effetto concreto e dunque un danno effettivo, pur essendo un aggravio per il dissesto. 2.4. Con il quarto e ultimo motivo si deduce la violazione di legge ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) per mancanza di motivazione da parte della Corte territoriale in ordine alle statuizioni civili; in particolare, posto che il dettato dell'art. 539 c.p.p., comma 2, dispone di liquidare la provvisionale per un importo nei limiti del danno di cui si ritiene già raggiunta la prova, si contesta l'assenza di adeguata motivazione in ordine all'impugnato punto relativo alla condanna al pagamento della provvisionale di Euro 200.000,00 disposto dal Tribunale, sul quale la difesa eccepiva, in sede di appello, la non comprensione dei presupposti determinativi. 3. Il ricorso è stato trattato, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020,, art. 23, comma 8, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto: il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso; il difensore della parte civile ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi il ricorso, allegando nota spese; i difensori dell'imputato hanno insistito nell'accoglimento del ricorso, contro-deducendo agli argomenti svolti dal P.G. nella requisitoria scritta. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile. 1. Il primo motivo, sulla recidiva, nella parte in cui contesta la superficialità della valutazione operata sul punto dal tribunale, prima, e dalla corte territoriale poi che si sarebbe limitata a una generica conferma della statuizione di primo grado, nonostante il motivo specifico articolato al riguardo dalla difesa, è aspecifico. Essi, da un lato, non considera che il giudice di primo grado aveva già passato in rassegna i plurimi precedenti penali, anche specifici, risultanti a carico dell'imputato (diffamazione, truffe continuate, incendio, falsità materiale commessa da privato, diverse ricettazioni), evidenziando come trattasi prevalentemente di reati contro il patrimonio e contro la fede pubblica - posti in essere in congruo lasso temporale che va dal 1971 al 1994 e che si protrae comunque fino al 2001 allorquando veniva commesso il rato di diffamazione - sicuramente espressivi di una maggiore capacità criminale (rispetto ai quali e', cioè, ravvisabile una relazione qualificata con le condotte successive), e, dall'altro, che quello di secondo grado - rispondendo in maniera unitaria alla censura svolta sul trattamento sanzionatorio accogliendola in parte quanto alla entità della pena inflitta - ha a sua volta comunque fatto riferimento - pur nel ritenere giusto ridurre la pena - alla gravità dei fatti (che, di là dello iato temporale esistente rispetto a quelli delle precedenti condanne, in considerazione della natura e tipologia degli uni e degli altri, costituisce un fattore indicativo di continuità criminale che va ad aggiungersi a quelli posti a base della valutazione già espressa dal tribunale). Quanto al giudizio di bilanciamento e al trattamento sanzionatorio disposto - di cui al punto sub 1c) - è solo il caso di evidenziare che sia il giudice di primo grado che la corte di appello hanno valutato le attenuanti generiche in termini di equivalenza rispetto alle ravvisate aggravanti dei più fatti di bancarotta e della recidiva, sicché alcuna indicazione della pena base e degli eventuali aumenti o diminuzioni di pena per aggravanti o attenuanti si sarebbe dovuta effettuare; si trattava unicamente di indicare le ragioni per le quali la pena era stata quantificata nella misura inflitta (identificate dal giudice di secondo grado nella necessità di renderla conforme a giustizia tenuto anche conto del trattamento sanzionatorio riservato all'amministratore di diritto G. giudicato in separato procedimento per fatti analoghi); ragioni ovviamente qui non sindacabili essendo congrue e non illogiche. Il ravvisato bilanciamento, in termini di equivalenza, non toglie, poi, alla recidiva gli effetti suoi propri, tra i quali quelli che essa produce ai fini del calcolo della prescrizione. Ed invero, premesso che in tema di recidiva, la valorizzazione da parte del giudice dei precedenti penali dell'imputato ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva contestata in assenza di aumento della pena a tale titolo o di confluenza della stessa nel giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee, attesa la diversità dei giudizi riguardanti i due istituti, sicché di essa non può tenersi conto ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato (Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018 Ud. (dep. 15/05/2019) Rv. 275319 - 01), si osserva che nel caso di specie vi è stato, invece, un esplicito riconoscimento della sussistenza della recidiva con la conseguenza che ai fini del calcolo della prescrizione non rileva, come chiaramente affermato dal massimo consesso nella pronuncia teste' indicata con riferimento al caso di giudizio di subvalenza della recidiva rispetto alle attenuanti generiche, l'intervenuto bilanciamento delle attenuanti generiche in termini di equivalenza rispetto alla recidiva. Si deve, quindi, ribadire il principio secondo cui ai fini della prescrizione del reato, deve tenersi conto della recidiva ad effetto speciale ancorché siano annullati i suoi effetti ai fini della pena per essere stata ritenuta subvalente o equivalente nel giudizio di bilanciamento con le concorrenti circostanze attenuanti, poiché l'art. 157 c.p., comma 3, esclude espressamente che il giudizio di cui all'art. 69 c.p. abbia incidenza sulla determinazione della pena massima del reato (cfr. tra tante, Sez. 6, n. 50995 del 09/07/2019, PASTORE GIOVANNI, Rv. 278058). Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, la recidiva, di cui all'art. 99 c.p., commi 2 e 4, poi, rileva contemporaneamente, in presenza di atti interruttivi, per determinare sia il termine ordinario che quello massimo di prescrizione (ex multis, Sez. 5, n. 32679 del 13/06/2018 Ud. Rv. 273490, Sez. 2, n. 13463 del 18/02/2016, Giofre', Rv. 266532; Sez. 6, n. 48954 del 21/09/2016 Rv. 268224; Sez. 6, n. 50089 del 28/10/2016 Rv. 268214). Ciò posto, ne discende che, nel caso di specie, i reati contestati, che si consumano tutti all'atto della dichiarazione di fallimento, intervenuta il 15.3.2007, non risultano prescritti, atteso che, essendo stata applicata la recidiva reiterata e specifica, la pena edittale è pari ad anni 16 e mesi otto e il termine minimo di prescrizione di cui all'art. 157 c.p., nel testo attualmente in vigore, ha la stessa durata. Inoltre, poiché detto termine è stato più volte interrotto, il termine massimo di prescrizione è pari al termine minimo aumentato nella misura di due terzi, per effetto della recidiva ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 161 c.p., cosicché risulta evidente che esso non è ancora decorso, essendo il fallimento stato dichiarato nel 2007. Il motivo di cui al punto sub 1d) e', quindi, manifestamente infondato. 2. Il secondo motivo con cui si contesta, da un lato, la illegittimità delle contestazioni suppletive intervenute nel giudizio di primo grado - ritualmente elevate dal P.M. all'udienza del 30.1.2018 ai sensi dell'art. 517 c.p.p. (introduttive dei reati per i quali pure vi è stata condanna, di cui ai capi a), c) e g)) -, e, dall'altro, la violazione del principio di corrispondenza tra l'accusa e la condanna, è anch'esso manifestamente infondato in tutte le sue articolazioni. 2.1. Quanto alle censure di cui ai punti 2a), 2b) e 2c), premesso che l'intervento contestativo definito "additivo" in ricorso - intervenuto dopo l'escussione del curatore - ha comportato l'aggiunta di nuove imputazioni (quelle di cui ai capi a), c) e g) per reati di distrazione/dissipazione e aggravamento del dissesto sempre con riferimento alla medesima vicenda fallimentare che interessò la società (Omissis) SRL) e la modifica della qualifica in virtù della quale l'imputato avrebbe agito in relazione alla società fallita (non più come consulente ma come vero e proprio amministratore di fatto), devono operarsi le seguenti osservazioni. Quanto ai fatti aggiunti - di là dell'impropria argomentazione pure svolta sul punto dalla corte territoriale quanto alla natura unitaria dei fatti di bancarotta che non sarebbero fattispecie autonome in quanto integranti unicamente la circostanza aggravante di cui all'art. 219, comma 1, L. Fall. - non è M=13ehin discussione che essi siano fatti nuovi, ulteriori rispetto ai precedenti contestati (e tali sono stati qualificati sia dal giudice di primo grado che, in un primo momento, dalla stessa difesa che in quella fase si era infatti limitata a rilevare la illegittimità delle contestazioni suppletive ex art. 517 c.p.p., pur riconoscendone quindi tale natura, in quanto effettuate sulla base di elementi già noti al Pubblico Ministero all'epoca dell'esercizio dell'azione penale, oltre che dalla stessa corte di appello che, di là della loro definizione quali fatti diversi e non nuovi in virtù dell'orientamento espresso da questa Corte nella pronuncia, Sez. 5, n. 4551 del 02/12/2010 Ud. (dep. 08/02/2011) Rv. 249262 - 01, ripreso in motivazione dalla pronuncia n. 15814 del 2020 rv. 279257, su cui si tornerà infra, li riconduce comunque agli artt. 516 e 517), e si tratta piuttosto di considerare la loro indubbia connessione con quelli già contestati, trattandosi di condotte, tutte, riferibili alla medesima vicenda fallimentare; con la conseguenza che ricorrendo la connessione di cui all'art. 12 c.p.p., comma 1, lett. b), - non oggetto peraltro di contestazione da parte della difesa - le contestazioni in argomento devono inquadrarsi nell'ambito del disposto normativo di cui all'art. 517 c.p.p., e non in quello dell'art. 518, di cui si invoca l'applicazione da parte del ricorrente; sicché, in definitiva, l'argomento speso dalla difesa teso ad evidenziare la natura di fatto nuovo delle condotte aggiunte con le nuove contestazioni è meramente suggestivo e non coglie nel segno la questione dal momento che il punto non è se le nuove ipotesi contestate siano nuove o meno rispetto alle precedenti, essendo, esse, evidentemente ulteriori rispetto a quelle, ma se siano, ciò nondimeno, connesse alle precedenti, perché in tal caso trova applicazione l'art. 517 cit. che consente al P.M. di operare nuove contestazioni in dibattimento, sebbene afferenti a fatti "nuovi". In altri termini si ritiene che tale impostazione non muti allorquando si verta in materia di reati fallimentari per i quali è prevista - in luogo della continuazione di cui all'art. 81 c.p. - l'aggravante di cui all'art. 219, comma 2, n. 1, L. f., dei più fatti di bancarotta - cd-continuazione fallimentare - dal momento che tale unificazione e', al pari di quella della continuazione, solo quoad poenam e lascia intatte le singole condotte che rimangono autonome sotto il profilo fenomenico; con la conseguenza che a rigore, pur a voler ritenere la natura di norma penale mista alternativa della disposizione di cui all'art. 216 L. Fall. tale natura non può che essere circoscritta alle fattispecie del medesimo numero e non può essere estesa in relazione a fattispecie appartenenti a numeri diversi di tale disposizione (o addirittura a fattispecie previste da altra disposizione fallimentare) rimanendo distinte quelle di bancarotta documentale rispetto a quelle di bancarotta patrimoniale - nel caso di specie quelle di bancarotta patrimoniale si sono aggiunte a quelle di cui all'art. 216, comma 1, n. 2, 223, comma 2, n. 1, in relazione agli artt. 2621 e 2622 c.c., ovvero a condotte di reato che non sono affatto interscambiabili tra loro; in ogni caso la possibilità che ne consegue e', al più, quella che in luogo della distrazione è possibile ravvisare la dissipazione o viceversa trattandosi appunto di condotte in buona sostanza equivalenti sotto il profilo patrimoniale ma non certo quella di poter aggiungere un'ulteriore condotta a quella, diversa, già contestata; e il fatto che una tale aggiunta di condotta di reato ai precedenti già ascritti automaticamente ricadrebbe nell'ambito dell'aggravante di cui all'art. 219, comma 2, cit., non esclude che si tratti comunque di contestazione avente ad oggetto un nuovo fatto-reato, rispetto al quale la unificazione prevista ex lege, ex art. 219, comma 2, cit., attiene unicamente alla pena; tale unificazione prevista dalla legge consente piuttosto di far emergere la natura della presunta connessione esistente tra le condotte di bancarotta relative alla medesima vicenda fallimentare, che lo stesso legislatore ha, evidentemente, ritenuto a tal punto avvinte tra loro da unificarle, a monte, prevedendo l'aggravante della cd. continuazione fallimentare. Sicché, in definitiva, la stessa critica svolta dalla difesa in ordine alla impostazione seguita da questa Corte nella pronuncia n. 4551 del 02/12/2010, Rv. 249262, sopra citata (che ha affermato che in tema di bancarotta fraudolenta, non integra fatto nuovo ai sensi dell'art. 518 c.p.p., la individuazione, nel corso dell'istruzione dibattimentale, di diverse modalità della condotta illecita ovvero di ulteriori condotte di distrazione o, comunque, di difformi condotte integrativa della violazione dell'art. 216 L. Fall., trattandosi di fatto che non può generare "novità" dell'illecito, ma soltanto l'integrazione della circostanza aggravante (e non la modifica del fatto tipico), in virtù della peculiare disciplina dell'illecito fallimentare connaturato alla c.d. unitarietà del reato desumibile dall'art. 219, comma 2, n. 1 L. Fall., che deroga alla disciplina della continuazione - e della peculiarità della norma incriminatrice che non assegna alle condotte di distruzione, occultamento, distrazione, dissipazione e dissimulazione, previste dall'art. 216 L. Fall., natura di fatto autonomo, bensì di fattispecie penalmente tra loro equivalenti, e cioè modalità di esecuzione alternative e fungibili di un unico reato), cui pure ha fatto impropriamente cenno la corte territoriale per escludere l'applicazione nel caso di specie dell'art. 518, finisce in ogni caso - di là della sua fondatezza o meno - col perdere rilievo perché gli argomenti sviluppati nella pronuncia citata non escludono, in realtà, la diversità della condotta che si aggiunge alle altre già contestate ma ne escludono la novità a termini dell'art. 518, perché si tratterebbe di fatti "diversi" apprezzabili nella logica dell'art. 219 L. Fall. quali pluralità di fatti di bancarotta, in ossequio al principio fondamentale dell'unità del fallimento; il fatto complessivamente ed unitariamente considerato rimarrebbe, cioè, nella sostanza invariato perché mutano unicamente alcuni connotati materiali di esso e non si aggiunge alcunché di ulteriore rispetto alla vicenda fallimentare intorno a cui ruotano le singole condotte, laddove secondo l'impostazione qui seguita l'applicazione dell'art. 518 deve essere esclusa in quanto, più semplicemente, trattasi di condotte connesse ex art. 12 lett. b), cit. che fanno ricadere la relativa contestazione nell'art. 517. Rimane evidente che - di là del percorso seguito per giungere alla comune conclusione che non si applichi l'art. 518 - solo un fatto che si ponga al di fuori della medesima vicenda fallimentare potrebbe con maggiore probabilità assurgere a fatto nuovo ricadente nella norma di cui all'art. 518 (ove non sussistano ragioni di connessione ex art. 12, lett. b) perché in tal caso opererebbe comunque l'art. 517 e non l'art. 518), mentre tutti quelli che fanno capo al medesimo fallimento saranno tendenzialmente connessi ex art. 12 lett. b) (connessione che in relazione alle fattispecie di cui agli artt. 216, 217 e 218 è in un certo qual modo ex lege sussunta nell'aggravante di cui all'art. 219, n. 1, la quale, pur non identificandosi con la continuazione vera e propria, limitandosi la disposizione di cui all'art. 219, n. 1 a prevedere unicamente la pluralità di fatti e a disciplinare un'ipotesi di concorso di reati, opera comunque come collante unificatore delle condotte - a prescindere dalla dimostrazione del medesimo disegno criminoso). 2.2. Quanto alla doglianza che lamenta la violazione dell'art. 519 per non essersi informato l'imputato della possibilità di chiedere un termine a difesa, è solo il caso di precisare che pur a voler ritenere che l'omesso avviso all'imputato - presente - della facoltà di chiedere un termine a difesa, ex art. 519 c.p.p., a fronte della contestazione di un reato connesso o, comunque, di una contestazione suppletiva, integri una nullità, questa deve comunque essere dedotta dal difensore presente prima di ogni altra difesa (cfr. tra tante, Sez. 3, n. 16848 del 03/02/2010, Rv. 246975 - 01; Sez. 4, n. 33869 del 28/10/2020, Rv. 279947 - 01). Nel caso in esame il ricorrente non ha, neppure in via di prospettazione, assunto di avere tempestivamente denunciato l'omesso avviso (neanche in sede di conclusioni innanzi al giudice di primo grado); va aggiunto che in ogni caso all'udienza del 30.1.2018 - presenti l'imputato e il difensore - subito dopo la contestazione suppletiva, il tribunale rinviò la trattazione del processo al 20.3.2018, garantendo in tal modo ben oltre i quaranta giorni previsti dall'art. 519, circostanza, questa, che avrebbe consentito alla difesa di esaminare la sopravvenuta prospettazione accusatoria ovvero di formulare tempestive eccezioni o richieste al riguardo (ed invero, ha già avuto modo di affermare questa Corte in relazione a vicenda analoga a quella in scrutinio, Sez. 3, n. 1735 del 09/12/1998 Ud. (dep. 12/02/1999) Rv. 212554, che qualora il PM effettui una integrazione dell'imputazione ai sensi dell'art. 516 c.p.p. e dal verbale di udienza non risulti specificamente che il giudice abbia informato l'imputato del diritto di chiedere un termine per la difesa ex art. 519 c.p.p. non si verifica la nullità della sentenza a norma dell'art. 522 c.p.p., se dal detto verbale emerga che, dopo tale contestazione, nulla abbiano opposto le difese. Le norme che disciplinano le nuove contestazioni (art. 516-522), infatti, sono preordinate a garantire, nello svolgimento del contraddittorio, il pieno esercizio del diritto di difesa ed è con specifico e diretto riferimento a questa finalità che devono essere interpretate. Si spiega in motivazione che a fronte della nuova contestazione e nonostante la mancata opposizione dell'imputato e del difensore, era stato accordato un termine di gran lunga superiore a quello previsto dalla legge, pur senza indicare specificamente che si trattava di termine a difesa; conf. Sez. 1, n. 35147 del 01/10/2002, Rv. 222152 - 01); nel caso di specie, peraltro, secondo quanto emerge dal verbale di udienza, nonostante la proposta di disporsi un congruo rinvio formulata dal PM, sia pure ad altri fini, la difesa si opponeva ad esso, evidenziando che un rinvio lungo fosse incompatibile coi tempi di definizione del processo; la difesa in ogni caso, come già detto, non avanzava richiesta di termine a difesa né formulava eccezioni al riguardo, evidentemente anche perché subito dopo la contestazione del PM il tribunale disponeva automaticamente il rinvio all'udienza del 20.3.2018, di fatto sospendendo il dibattimento per un tempo congruo ai fini dell'esercizio del diritto di difesa (la valorizzazione da parte della corte di appello della mancata richiesta di termine a difesa si inserisce dunque in tale contesto e non costituisce - a differenza di quanto si lascia intendere in ricorso - la ragione tout court del rigetto dell'eccezione sollevata con l'atto di appello). 2.3. Quanto, poi, alla attribuzione a Z. della diversa qualifica di amministratore di fatto essa si è risolta in una modifica dell'intera imputazione; la indicazione della qualifica di amministratore di fatto è infatti posta nella premessa delle nuove contestazioni che ha preso il posto di quella originaria in cui si attribuiva a Z. il ruolo di consulente (tant'e' che si è modificata la successione delle lettere con cui si indicano i capi di imputazione attribuendo a quelli già contestati le lettere, d), e), f), che seguono quelle, a), b), c), attribuite ai capi nuovi); sicché risulta evidente che tale operazione si sia risolta in una modifica dell'imputazione consentita ai sensi dell'art. 516 c.p.p., con la conseguenza che non vi è spazio per la violazione del principio di corrispondenza tra accusa e condanna che la difesa assume essere intervenuta con riferimento alle condotte oggetto della imputazione originaria (e ciò di là della possibilità di attribuire il fatto di bancarotta a titolo di una o di altra qualifica, a prescindere, cioè, da una modifica formale dell'imputazione, riconosciuta nella giurisprudenza di questa Corte purché ricorrano determinati presupposti; ha invero avuto modo più volte di affermare questa Corte che, in via generale, il principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità di effettiva difesa, specificando, con riferimento alla bancarotta fraudolenta, che non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, ad es., qualora il soggetto, cui sia stato contestato, in concorso, il reato nella sua qualità di addetto alla sede operativa - o di direttore generale - della società fallita, venga condannato come amministratore di fatto, cfr. per tali due ipotesi, rispettivamente Sez. 1, Sentenza n. 2275 del 25/11/2009 Ud. (dep. 19/01/2010) Rv. 245957 - 01 - richiamata dalla corte territoriale - e Sez. 5, Sentenza n. 1842 del 25/11/1998 Ud. (dep. 12/02/1999) Rv. 212351 - 01). 3. Il terzo motivo, che ravvisa plurimi profili di censura riguardo ai singoli capi di imputazioni ritenuti sussistenti, è in parte aspecifico, meramente reiterativo, e a tratti manifestamente infondato. 3.1. Anzitutto, quanto alla prima doglianza in punto di omessa indicazione del contributo causale del ricorrente riguardo alla condotta distrattiva di cui al capo a), si osserva che la corte territoriale ha innanzitutto passato in rassegna i plurimi elementi indicativi dell'ingerenza di Z. nella gestione della società, a partire dal 2004, a dimostrazione della sussistenza della qualifica di amministratore di fatto al medesimo ascritta nella nuova imputazione - qualifica peraltro non oggetto di specifica censura nel ricorso in scrutinio in cui le critiche si appuntano piuttosto sul fatto che non sarebbe stato individuato, né nell'imputazione né tanto meno nelle sentenze, il contributo che l'imputato avrebbe offerto alla realizzazione delle condotte di rinuncia al credito per canoni di locazione vantato dalla società nei confronti della famiglia G. e di stipulazione del contratto di locazione con la medesima (rectius di impegno a stipulare), poste in essere da altri; essa non ha però esaurito, a differenza di quanto assume il ricorrente, la disamina del contributo di Z. nella verifica del suo ruolo di amministratore di fatto, avendo essa piuttosto inteso evidenziare come tale suo ruolo imponesse di imputare - anche - a lui la rinuncia in questione, con relativo azzeramento del credito nel bilancio al 31.12.2004, per di più accompagnata dalla mancata richiesta di rilascio degli immobili ai conduttori morosi; attraverso tali condotte spiega la corte di merito - si era realizzata una vera e propria distrazione di risorse societarie, non trovando esse alcuna giustificazione economica per la società (d'altronde il bilancio è un atto proprio dell'organo amministrativo - amministratore unico o consiglio di amministrazione - della società; e nel caso di specie nella sentenza di primo grado si precisa che tra le operazioni ideate da Z. si collocano proprio anche quelle di redazione del bilancio al 31.12.2004, che portarono tra l'altro, a fronte di una perdita indicata in Euro 562.310,73, in parte coperta con finanziamenti dei nuovi soci (con iscrizione in bilancio del debito di (Omissis) verso Zeta, altra società riconducibile a Z., per Euro 3.500.000,00, rilevato in contropartita dei finanziamenti soci, per il quale vi è stata declaratoria di prescrizione previa qualificazione in bancarotta preferenziale) all'azzeramento del capitale sociale e alla ricostituzione del medesimo in una misura minima (di Euro 10.000) con ingresso di D.; le quote della società (Omissis), da sempre appartenute alla famiglia G., a seguito della grave crisi che colpì le società dei G., tra le quali la (Omissis), subentrato nel 2004 Z. come amministratore di fatto, passarono infatti a D. (e a sua moglie F.A.), che acquistava le partecipazioni dei soci A. e G., assumendo altresì la carica di amministratore unico, su indicazione dello stesso Z. - come dal medesimo ammesso e riconosciuto anche dal D.; si precisa altresì da parte dei giudici di merito che tali operazioni si collocano nell'ambito di una serie di attività che Z. pose in essere dal 2004 al fine di operare il "salvataggio" della società (Omissis), e questo anche attraverso l'opera di D., di mettere in sicurezza i beni di (Omissis) (oggetto di un preliminare concluso con una società di Z.) e/o quanto meno di assicurare, in caso di fallimento, la possibilità di un recupero del denaro profuso per l'acquisto dei beni stessi. Sicché deve ritenersi manifestamente infondata, oltre che generica, la censura che lamenta la mancata individuazione del contributo di Z., non potendo peraltro assumere alcun rilievo ai fini che occupano la circostanza, pure evidenziata in ricorso, secondo cui il capo di imputazione in questione non sarebbe stato contestato al D. (amministratore di diritto dell'epoca in cui si colloca l'ipotizzata attività gestoria del ricorrente), ma solo al G. (sottoscrittore dei contratti di locazione e beneficiario della rinuncia al credito), poi assolto; d'altronde, l'amministratore di diritto risponde della distrazione commessa dall'amministratore di fatto solo se emergono segni evidenziatori della condotta illecita ed egli non si sia attivato per evitarla (cfr. tra tante, Sez. 5, n, 42568 del 19/06/2018, Rv. 273925 04), sicché non coglie nel segno l'equiparazione delle due posizioni, dell'amministratore di fatto e di diritto, tout court operata dal ricorrente (per formulare una doglianza che nella sua genericità non è in ogni caso idonea a scalfire la ricostruzione di merito). 3.2. Quanto al capo c), ovvero alla distrazione di Euro 100.000, la doglianza riflette sempre la medesima questione relativa al ruolo e al contributo causale dell'imputato rispetto al fatto distrattivo, che anche in tal caso non sarebbe delineato in imputazione né nella sentenza impugnata, con la conseguenza che per essa non possono che valere gli argomenti già indicati al punto che precede in relazione al capo a), quanto al ruolo svolto dall'imputato nell'interesse della società (Omissis), degli ex soci, e di alcune sue stesse società. Invero, rispetto alla distrazione in argomento, viene in rilievo la società Incofisco, ricondotta al medesimo Z., che aveva un debito di Euro 85.000 nei confronti della (Omissis), portato dall'assegno di pari importo consegnato dalla Incofisco a D., che non l'aveva, però, mai posto all'incasso; e al riguardo la corte territoriale ha già spiegato che tale circostanza vale di per sé a perfezionare la fattispecie incriminatrice con la conseguenza che rimane irrilevante che Cartaino, avvocato di Incofisco, abbia sollecitato la realizzazione di un più sicuro titolo cartolare, peraltro mai intervenuta; e ha altresì pure evidenziato come dal carteggio tra Incofisco e il curatore non potesse desumersi il difetto dell'elemento soggettivo in capo all'imputato dal momento che - argomenta il giudice di merito - secondo quanto rappresenta la stessa difesa, a fronte della sollecitazione da parte del curatore della fallita di eseguire il pagamento della somma dovuta, Inconfisco si è dimostrata disponibile a eseguire detto pagamento solo a fronte della presentazione del titolo, che come detto, non era stato, però, mai posto all'incasso da D., né giammai consegnato alla curatela, sicché la presentazione del titolo da parte di quest'ultima era in radice impossibile. La corte territoriale ha quindi concluso che quanto argomentava la difesa sul punto deponesse piuttosto per la volontarietà del mancato incasso da parte degli amministratori della fallita - D. e Z. ai quali è stata quindi ascritta la condotta distrattiva; in altri termini la corte di appello ha desunto che l'assegno non è stato posto all'incasso volutamente dagli amministratori della fallita al fine di consentire il perfezionamento dell'operazione distrattiva sulla base di plurimi elementi, evidenziati in sentenza, tra i quali la segnalata risposta di Incofisco. La doglianza svolta in ricorso si appalesa quindi meramente reiterativa, oltre che in fatto, a fronte della congrua risposta già resa dalla corte territoriale, riproponendo versione alternativa già esclusa dal giudice di merito con adeguata e non manifestamente illogica motivazione. 3.3. Quanto al capo f), va per prima cosa sgomberato il campo dall'equivoco iniziale su cui si fonda la doglianza difensiva che contesta in primis che, data la formulazione di tale capo di imputazione per relationem con rimando ai capi di accusa d) ed e), subirebbe un colpo mortale la condanna per il capo f) a seguito della declaratoria di assoluzione con formula piena "perché il fatto non sussiste" riguardo ai precedenti capi richiamati. Ed invero, occorre innanzitutto precisare che l'assoluzione dal reato di cui al capo d) è intervenuta - al pari di quella per il capo e) come poi si dirà - non già per l'insussistenza dei fatti ivi descritti ed ascritti a Z. (concorso nell'aggravamento del dissesto della società, artificiosamente alterando i dati di bilancio ed assicurando la continuità aziendale attraverso la dissimulazione dell'effettiva condizione economica e finanziaria della società) ma unicamente perché in relazione a tale imputazione, chiaramente formulata ai sensi dell'art. 223, comma 2, n. 1 L. Fall., artt. 2621 e 2622 c.c., deve aversi riguardo alla formulazione delle norme di cui agli artt. 2621 e 2622 vigenti alla data di approvazione del bilancio 2004, a cui si riferiscono le condotte ascritte; sicché, non indicando nemmeno la stessa imputazione l'avvenuto superamento delle soglie all'epoca vigenti in relazione ad entrambe le norme del codice civile (né essendo stato, tanto meno, esso, oggetto di approfondimento in sede di istruttoria dibattimentale), i giudici di merito hanno concluso che l'imputato dovesse essere assolto da tale reato perché il fatto non sussiste. Ne discende che alcuna interferenza sussiste tra tale assoluzione e la condanna intervenuta in relazione al reato di bancarotta fraudolenta documentale di cui al capo f), che ha ad oggetto la tenuta dei libri e delle scritture contabili in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e la movimentazione degli affari, realizzata anche mediante la falsificazione delle scritture contabili e l'omessa consegna al curatore fallimentare del libro delle adunanze e delle deliberazioni del collegio sindacale. E' evidente che ai fini dell'integrazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale - che qui si intende contrastare sulla base dell'assoluzione dal reato di aggravamento del dissesto mediante alterazione artificiosa dei dati di bilancio - il riferimento è piuttosto alla falsificazione dei libri e delle scritture contabili - peraltro solo genericamente contestata in ricorso nella sua materialità - indicata come una delle modalità esecutive di tale reato, e non ai dati di bilancio. Ed invero, l'ipotesi di falso in bilancio seguito da fallimento della società di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 223, comma 2 n. 1, costituisce un'ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria e si distingue dal falso in bilancio previsto dall'art. 2621 c.c., che è reato sussidiario punito a prescindere dall'evento fallimentare, sia dalla bancarotta documentale propria concernente ipotesi di falsificazione di libri o di altre scritture contabili (cfr. tra tante, Sez. 5, n. 7293 del 28/05/1996, Rv. 205987 - 01). Deve pertanto affermarsi il seguente principio di diritto: l'assoluzione dal reato di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 223, comma 2, n. 1, nella fattispecie di falso in bilancio seguito dal fallimento, non interferisce sulla decisione in ordine al reato di bancarotta fraudolenta documentale stante la diversità dei rispettivi oggetti, potendo quello di bancarotta documentale propria concernere ipotesi di falsificazione di libri o di altre scritture contabili e non di bilanci, costituenti invece l'oggetto della indicata specifica fattispecie di cui all'art. 223, comma 2, n. 1, L. Fall.. Quanto, poi, alla mancata consegna del libro delle adunanze e delle deliberazioni del collegio sindacale è innanzitutto il caso di evidenziare che essa si aggiunge alle altre condotte ritenute integratrici del reato di bancarotta fraudolenta documentale sicché la censura mossa in relazione ad essa non è affatto dirimente, né la difesa ha, d'altronde, prospettato l'incidenza che l'esclusione di tale condotta avrebbe sulla sussistenza del reato in argomento. In ogni caso si rammenta che sul collegio sindacale incombe la cura e la tenuta del libro delle adunanze e delle deliberazioni (nel quale saranno trascritti i verbali delle riunioni e sarà dato conto delle attività effettuate e degli accertamenti eseguiti), mentre della consegna di tale libro, come di tutti i libri della società, è responsabile l'amministratore, trattandosi pur sempre di libro sociale obbligatorio che la società deve tenere, come espressamente prevede l'art. 2478 c.c., oltre i libri e le altre scritture contabili prescritti nell'art. 2214 c.c.; sul collegio sindacale incombe dunque unicamente la sua cura; la tenuta a cura del collegio sindacale è cosa diversa dall'obbligo di tenuta di tale libro che grava sulla società, e quindi sul suo amministratore, sicché è fuori discussione che ai fini della integrazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale in argomento possa assumere rilievo anche la mancata consegna del libro in questione in cui sono comunque riportate notizie rilevanti della società, a nulla rilevando che la sua tenuta sia affidata alla cura di soggetti diversi dall'amministratore. Sicché si deve riaffermare che, come già evidenziato da questa Corte nella pronuncia Sez. 5, n. 10810 del 20/10/1993, Rv. 196305 - 01 (sia pure in relazione a società cooperativa a responsabilità limitata), in tema di bancarotta documentale, ai fini dell'individuazione dell'oggetto materiale del reato, la cui condotta è delineata dall'art. 216, comma 1, n. 2 L. Fall., occorre distinguere tra impresa individuale e impresa collettiva. Mentre, infatti, nel caso di bancarotta documentale dell'imprenditore individuale vengono in considerazione i libri o le altre scritture contabili previste dall'art. 2214 c.c., per ciò che concerne le società commerciali - per effetto dell'implicito richiamo operato dall'art. 223 L. Fall., tramite la previsione di punibilità dei fatti di bancarotta fraudolenta commessi dagli amministratori, direttori generali e sindaci di società dichiarate fallite - vengono in rilievo tutti quei libri che la legge rende per esse obbligatori. Nell'ipotesi di società a responsabilità limitata, pertanto, oltre ai libri ed alle scritture contabili previste dall'art. 2214 c.c., vengono in considerazione, grazie all'art. 2478 c.c., anche i libri sociali obbligatori previsti da tale disposizione normativa, fra i quali il libro delle adunanze e delle deliberazioni del collegio sindacale. Ne discende che la censura in scrutinio è manifestamente infondata, anche nella parte in cui prospetta una qualificazione della condotta in termini di bancarotta semplice partendo dall'erroneo presupposto che il giudice si sarebbe limitato a rilevare l'assenza del libro delle adunanze del collegio sindacale come unico requisito sufficiente a integrare la condotta prevista dall'art. 216, comma 2, L. Fall., laddove ben altre sono le condotte ascritte, afferenti le svariate appostazioni contabili passate in rassegna nella sentenza impugnata (e ancor più puntualmente nella pronuncia di primo grado, richiamata da quella di appello). 3.4. Quanto al vizio argomentativo denunciato in relazione alla motivazione afferente il reato di cui al capo g) occorre evidenziare che, da un lato, la corte territoriale ha già precisato che invece il curatore aveva confermato l'aggravamento del dissesto causato dalla mancata iscrizione della passività conseguente alla escussione della fideiussione, da parte di Hyosung Deutschland Gmbh, prestata, per Euro 2.419.246,33, dalla società (Omissis) in favore di altra società (Itam), evidenziando come tale mancata iscrizione avesse comunque aggiunto nuovi debiti a carico della fallita, a nulla rilevando se tali debiti supplementari non costituissero il "grosso" del debito; indi ha concluso la corte di appello che l'individuazione da parte del curatore della causa del dissesto nella concessione e nella successiva escussione delle ingenti garanzie prestate a Du Pont e Hyosung dalla (Omissis) in favore di Itam, pari complessivamente a 16.000.000,00 di Euro, non smentisce affatto il perfezionamento del reato di cui all'art. 223, comma 1, n. 1 L. Fall. dal momento che non si imputa alla mancata iscrizione di aver causato il dissesto ma semplicemente di averlo aggravato nella misura in cui essa non faceva emergere il patrimonio netto negativo effettivo a fronte della protrazione dell'attività di impresa fino al fallimento (con disavanzo ingiustificato che arrivava a circa 13,5 milioni di Euro anche in ragione della continuazione dell'attività di impresa, secondo quanto precisato dallo stesso curatore). D'altronde, integra il reato di bancarotta impropria da reato societario la condotta dell'amministratore che espone nel bilancio dati non veri al fine di occultare la esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell'attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, con conseguente accumulo di perdite ulteriori, poiché l'evento tipico di questa fattispecie delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto (cfr. tra tante, Sez. 5, n. 42811 del 18/06/2014, Rv. 261759 - 01). Indi correttamente, e in maniera del tutto coerente con tale ricostruzione, il tribunale rilevava che non potesse ritenersi sussistente l'aggravante del danno di rilevante gravità in relazione alle condotte imputate a Z., essendo stato questo determinato dalla concessione, a monte, delle ingenti garanzie, non tanto dal loro occultamento e dalle altre attività ascrivibili al ricorrente. Il motivo pertanto, nel suo complesso, si appalesa aspecifico e manifestamente infondato 2.4. Il quarto e ultimo motivo, sulle statuizioni civili, segnatamente sulla determinazione della somma liquidata a titolo di provvisionale, è inammissibile. Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte non e', infatti, impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento (Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019, Rv. 277773 - 02). 3. Dalle ragioni sin qui esposte deriva la declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal medesimo atto impugnatorio, al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entità delle questioni trattate. Consegue altresì la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile liquidate in complessivi Euro 1.500,00, oltre accessori di legge, come richiesto. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio alla parte civile, che liquida in complessivi Euro 1.500,00, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 7 giugno 2022. Depositato in Cancelleria, il 30 settembre 2022
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