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Bancarotta fraudolenta documentale: l'affidamento della contabilità a terzi non esclude la responsabilità

Bancarotta fraudolenta documentale

Cassazione penale sez. V, 30/11/2020, n.36870

In tema di bancarotta fraudolenta documentale, l'imprenditore non è esente da responsabilità per il fatto che la contabilità sia stata affidata a soggetti forniti di specifiche cognizioni tecniche, in quanto, non essendo egli esonerato dall'obbligo di vigilare e controllare le attività svolte dai delegati, sussiste una presunzione semplice, superabile solo con una rigorosa prova contraria, che i dati siano stati trascritti secondo le indicazioni fornite dal titolare dell'impresa.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza del 25 settembre 2017 del Tribunale di Milano che, per quanto di interesse in questa sede, ha affermato la penale responsabilità di M.A. e R.M., quali amministratrici di fatto della fallita (OMISSIS) s.r.l., per i reati di bancarotta fraudolenta documentale e di bancarotta semplice, unificati in un unico delitto di bancarotta fraudolenta aggravato ai sensi del R.D. n. 267 del 1942, art. 219, comma 2, n. 2, e, applicate le circostanze attenuanti generiche equivalenti all'aggravante, le ha condannate alla pena di giustizia, oltre che al risarcimento del danno in favore della parte civile. Alle due imputate si contesta di avere, al fine di procurare a se stesse un ingiusto profitto o di arrecare danno ai creditori sociali, tenuto le scritture contabili in guisa tale da non consentire la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari della società o di averle distrutte o occultate, in modo da non consentire di stabilire l'esatto valore delle rimanenze, iscritte nell'ultimo bilancio approvato al 31 dicembre 2008 per un valore superiore ai due milioni di Euro (capo a), nonchè di avere aggravato il dissesto della società protraendone l'attività nonostante l'esistenza di un dissesto già conclamato alla fine del 2008 (capo b). 2. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso M.A. e R.M., ciascuna a mezzo del suo difensore e con atti distinti, ma di contenuto pressochè identico, chiedendone l'annullamento ed affidandosi a quindici motivi. 2.1. Con il primo ed il secondo motivo le ricorrenti lamentano, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, la mancanza o manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui si afferma che dalla cessione delle quote si ricava la prova del dolo. La Corte di appello ha desunto la prova del dolo dalla cessione, da parte delle imputate, delle quote di partecipazione al capitale della fallita; la cessione era avvenuta nel 2011, quando era ormai evidente il dissesto economico della società, e da essa traspariva l'intento delle imputate di "prendere le distanze da tutte le carenze ed anomalie" presenti nella contabilità e sottrarsi all'obbligo di presentare istanza di fallimento, in tal modo procrastinando la dichiarazione giudiziale dell'insolvenza, già evidente. La Corte di appello non ha spiegato come tale circostanza potesse dimostrare la volontà delle imputate di tenere le scritture in modo tale da non consentire la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari. Dalla volontà, del tutto lecita, di non proseguire oltre nell'attività imprenditoriale non poteva desumersi il dolo dell'irregolare tenuta delle scritture in frode ai creditori. La motivazione risulta, pertanto, illogica e carente. Anche laddove la Corte territoriale ha affermato che la cessione era diretta a procrastinare le proprie responsabilità, essa ha desunto il dolo del reato di bancarotta fraudolenta documentale da quello del delitto di bancarotta semplice. Peraltro, le due imputate non erano amministratrici di diritto della società e la cessione delle quote non aveva l'effetto di allontanare da se stesse eventuali responsabilità, non emergendo con evidenza il loro ruolo di amministratrici di fatto sul quale era fondata la accusa mossa nei loro confronti. Neppure la Corte di appello ha dato risposta ai motivi di gravame. Con l'appello si era dedotto che l'omessa tenuta delle scritture nel periodo successivo al 2008, quando la società non aveva più operato e non era ravvisabile gestione da parte loro e quindi non poteva sussistere alcuna loro responsabilità, non era riconducibile alla volontà delle imputate di frodare le ragioni dei creditori, ma ad una carenza nella loro tenuta ad opera del commercialista, sul quale esse avevano riposto la loro fiducia; inoltre, anche la effettiva gestione della società da parte dell'amministratore di diritto, riconosciuta anche dal Tribunale, aveva indotto le imputate a ritenere che le scritture fossero regolarmente tenute; i testi avevano dichiarato che esse si erano curate di consegnare le scritture contabili antecedenti al 2008 in occasione della cessione delle quote. A tali censure la Corte territoriale ha riposto limitandosi ad affermazioni apodittiche ed a richiamare la motivazione della sentenza di primo grado e ad affermare che la delega al commercialista non valeva ad esonerare le due imputate da responsabilità, dovendo esse comunque vigilare sull'operato del professionista. 2.2. Con il terzo ed il quarto motivo le ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui si afferma che dal sospetto dell'esistenza di operazioni illecite alla cui copertura era funzionale la carenza delle scritture contabili si ricava la prova del delitto, nonchè la mancanza di motivazione e la violazione degli artt. 530 e 533 c.p.p., per avere affermato la sussistenza del dolo sulla base di una mera ipotesi non riscontrata. La Corte di appello ha affermato che l'interesse ad impedire che attraverso le scritture contabili potesse ricostruirsi il patrimonio e la gestione sociale caratterizzata da errate scelte commerciali si ricava dal mero sospetto che l'indebitamento della società non trovi effettiva giustificazione e dal sospetto che il patrimonio sociale sia ingiustificatamente "migrato" verso altre aziende riferibili alle imputate. La Corte di appello ha ritenuto provato il dolo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale sulla base di due meri sospetti, cosicchè la motivazione risulta illogica, non potendo due meri sospetti, privi di certezza, dimostrare la prova di un altro fatto, ossia il dolo del delitto. 2.3. Con il quinto motivo le ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, la mancanza o apparenza della motivazione in ordine alle prove, segnalate nei motivi di appello, che dimostrano la insussistenza del dolo, come l'avere le due imputate rilasciato fideiussioni e consentito iscrizioni ipotecarie sui loro beni personali a garanzia dei debiti della fallita e la disponibilità, in capo a questa, di un rilevante patrimonio immobiliare risultante da una relazione di consulenza di parte. Con l'appello si era dedotto che tali circostanze erano incompatibili con il dolo di frode del delitto di bancarotta fraudolenta documentale, che richiedeva il dolo generico, nella forma del dolo intenzionale, in ordine alla impossibilità di ricostruire il patrimonio ed il movimento degli affari. In ordine al rilascio delle garanzie la Corte non aveva affatto motivato, mentre sulla relazione di consulenza aveva replicato che essa non era attendibile e non valeva a sostituire le scritture contabili mancanti e non era in grado di chiarire le ragioni dei versamenti di somme di denaro effettuati dalla fallita a favore di altre società controllate dalle imputate. In realtà la perizia non era volta a dimostrare il valore degli immobili di proprietà della fallita, ma a dimostrare che la cessazione della attività di impresa era dovuta non all'intento delle imputate di frodare i creditori, ma alla crisi globale del mercato immobiliare. La Corte di appello non ha chiarito se la relazione dimostrasse o meno circostanze in contrasto con il dolo del delitto contestato alle due imputate. 2.4. Con il sesto ed il settimo motivo le ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, la violazione del R.D. n. 267 del 1942, art. 223, comma 1 e art. 216, comma 1, n. 2, nonchè mancanza della motivazione per violazione delle regole sull'onere probatorio circa il dolo. La Corte di appello ha ritenuto provato l'elemento soggettivo sulla base di circostanze di fatto irrilevanti, come la cessione delle quote societarie, e sulla base di meri sospetti sui rapporti della fallita con altre società controllate dalle imputate e in violazione dei principi affermati da questa Corte di cassazione in ordine all'onere della prova del dolo (vedi Sez. 5, n. 1137 del 17/12/2008 - dep. 2009, Vianello, Rv. 242550). 2.4.1. Con l'atto di appello si era dedotto che alle imputate era stata contestata la condotta di sottrazione o distruzione delle scritture contabili che richiedeva, per essere punita quale bancarotta fraudolenta documentale, il dolo specifico di cagionare danno ai creditori sociali o di cagionare a sè o ad altri un ingiusto profitto, e che tale intento era rimasto indimostrato, ma la Corte territoriale non aveva affatto motivato. 2.4.2. In ogni caso, anche volendo ritenere che la condotta fosse consistita nell'omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili in guisa da non consentire la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, occorreva il dolo intenzionale (vedi Sez. 5, n. 1137 del 17/12/2008 - dep. 2009, Vianello, Rv. 242550), nel senso che l'agente doveva volere che dall'omessa o irregolare tenuta conseguisse l'impossibilità di detta ricostruzione. L'onere motivazionale non risulta soddisfatto dal Tribunale e dalla Corte di appello, che non hanno motivato su quanto dedotto dalla difesa o hanno fornito motivazioni illogiche. 2.5. Con l'ottavo, il nono ed il decimo motivo le ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione alla condanna per il delitto di bancarotta semplice, la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione. La Corte di appello ha affermato che le imputate hanno procrastinato, anche attraverso la cessione delle loro quote di partecipazione al capitale della fallita, la presentazione dell'istanza di fallimento, sebbene la società fosse indebitata già nel 2006 e fosse divenuta insolvente all'inizio del 2009, così determinando un surplus di passività per interessi sui debiti ed ulteriori spese che avrebbero potuto essere evitati. La Corte di appello aveva contraddittoriamente affermato che la cessione delle quote fosse un mezzo per "procrastinare artificiosamente la vita della società" dopo aver sostenuto, in relazione al delitto di bancarotta fraudolenta documentale, che la cessione era un mezzo utilizzato dalle imputate per allontanarsi dalla società e dalle responsabilità ad essa inerenti. Inoltre, laddove si asseriva che la condotta delle imputate aveva determinato a partire dal 2009 un aumento di passività per maggiori interessi e spese, non si spiegava su quali prove la Corte di appello fosse pervenuta a tale conclusione. In ogni caso le imputate, anche laddove ritenute amministratrici di fatto, non erano legittimate a presentare istanza di fallimento, cosicchè esse non potevano essere chiamate a rispondere della omessa presentazione. 2.6. Con l'undicesimo motivo le ricorrenti deducono l'estinzione del reato di bancarotta semplice per intervenuta prescrizione, maturata successivamente alla sentenza di appello, con conseguente venir meno dell'aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta. 2.7. Con il dodicesimo ed il tredicesimo motivo le ricorrenti lamentano mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine al giudizio di bilanciamento tra circostanze. La Corte di appello ha giustificato la conferma dell'equivalenza delle attenuanti all'aggravante affermando che le imputate non hanno in alcun modo risarcito il danno, pur avendo la curatela revocato la propria costituzione di parte civile in conseguenza dell'avvenuto risarcimento. Nell'atto di revoca, allegato ai ricorsi, la parte civile aveva dichiarato di avere ricevuto una somma ritenuta integralmente satisfattiva dell'obbligo risarcitorio. Tale documento non è stato affatto valutato. In ogni caso la Corte di appello non ha motivato in ordine al giudizio di bilanciamento ed in genere sui motivi di appello relativi al trattamento sanzionatorio, con i quali si era dedotto che le imputate avevano collaborato con gli organi fallimentari, avevano garantito con i loro beni personali i debiti della società che esse avevano provveduto ad estinguere, limitandosi a fare riferimento esclusivo alla loro incensuratezza. 2.8. Con il quattordicesimo ed il quindicesimo motivo le ricorrenti si dolgono della mancanza e dell'illogicità della motivazione sulla durata delle pene accessorie fallimentari. La Corte territoriale, pur dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, ha confermato in dieci anni la durata delle pene accessorie e ha motivato la sua decisione affermando che essa è giustificata dalla entità oggettiva della condotta e dalla personalità delle imputate ed in particolare dalla mancanza di condotte risarcitorie. Anche tale decisione risulta illogica, avendo il giudice di secondo grado omesso di valutare l'atto di revoca di costituzione di parte civile in cui si dava atto dell'avvenuto risarcimento del danno. In ogni caso, la motivazione non fa alcun riferimento agli elementi indicati dall'art. 133 c.p. per quantificare le pene accessorie, considerato che esse sono state fissate nel massimo edittale. 3. Con memoria pervenuta il 24 novembre 2020 i difensori delle ricorrenti, in replica alle richieste del Pubblico ministero, hanno dedotto che nel caso di specie non ricorre una "doppia conforme", non avendo la Corte di appello motivato la sua decisione, limitandosi ad affermazioni apodittiche in ordine al dolo del delitto di bancarotta; la riproposizione delle doglianze è motivata dalla mancata risposta ai motivi di appello. La motivazione della sentenza di secondo grado è solo apparente e comunque fondata su meri sospetti e quindi del tutto illogica. Sussistono numerosi elementi, come le fideiussioni prestate a garanzia dei debiti della società, che evidenziano la sussistenza di un intento di frode. Con la loro memoria i difensori hanno anche ribadito il contenuto dei ricorsi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il sesto motivo di ricorso, con il quale le ricorrenti si dolgono della mancanza di motivazione in ordine al dolo specifico del delitto di bancarotta fraudolenta documentale commesso mediante sottrazione, distruzione o occultamento delle scritture contabili è inammissibile, dovendo considerarsi non specifico. La mancanza di specificità del motivo, invero, dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591, comma 1, lett. c), all'inammissibilità (Sez. 4, n. 256 del 18/09/1997 - dep. 1998, Ahmetovic, Rv. 210157; Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425). Nel caso di specie, la Corte di appello ha chiarito che il reato deve ritenersi sussistente nella forma della tenuta delle scritture contabili in guisa da non consentire la completa ed attendibile ricostruzione delle vicende societarie, diversa da quella alla quale si riferisce il motivo di ricorso. 2. Inammissibile è pure il secondo motivo di ricorso. Laddove si sostiene che le scritture sono state tenute fino al 2008 e che nel periodo successivo l'omessa tenuta delle scritture dipende dall'inattività della società, il motivo non considera che il delitto di bancarotta fraudolenta è stato ritenuto sussistente non per l'omessa tenuta delle scritture negli anni immediatamente precedenti al fallimento, ma soprattutto per le modalità con le quali sono state tenute le scritture negli anni dal 2003 al 2009. In applicazione del principio sopra esposto, il motivo non risulta specifico. Quanto, poi, all'osservazione che le due ricorrenti confidavano nella tenuta della contabilità da parte del commercialista e dell'amministratore di diritto, deve rilevarsi che dalla motivazione della sentenza di primo grado risulta che la società è stata costantemente amministrata esclusivamente dalle due ricorrenti e che il primo amministratore di diritto, V.M., lavorava come cuoco in un ristorante gestito dalla sua famiglia e non aveva alcuna esperienza gestionale; le due ricorrenti non potevano certo confidare sulla corretta tenuta della contabilità da parte sua. Peraltro, dalla motivazione della sentenza di primo grado emerge che erano le due ricorrenti a tenere i contatti con il professionista che materialmente si occupava della contabilità. In ogni caso, In tema di reati fallimentari, l'amministratore di fatto della società fallita è da ritenere gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili (Sez. 5, n. 39593 del 20/05/2011, Assello, Rv. 250844). Quanto all'affidamento della tenuta della contabilità al commercialista, il motivo è manifestamente infondato, atteso che secondo la giurisprudenza di questa Corte di cassazione, a norma degli artt. 2214 e 2241 c.c., l'imprenditore che esercita un'attività commerciale è obbligato, personalmente, alla regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili nella propria azienda. Egli può avvalersi dell'opera di un tecnico, sia esso un proprio dipendente o un libero professionista, ma resta sempre responsabile per l'attività da essi svolta nell'ambito dell'impresa. In caso di fallimento, quindi, risponde penalmente dell'attività e delle omissioni delle persone da lui incaricate che non hanno tenuto, in assoluto, o non hanno tenuto regolarmente i libri e le scritture contabili prescritte dalla legge. Il principio opera nel caso di inquadrabilità della condotta sia in reati punibili per dolo o colpa (bancarotta semplice), sia in delitti punibili soltanto a titolo di dolo (bancarotta fraudolenta documentale). In tale ultima ipotesi, l'imprenditore non va esente da responsabilità per aver affidato a un collaboratore le operazioni contabili, dovendosi presumere che i dati siano stati trascritti secondo le indicazioni e i documenti forniti dall'imprenditore medesimo. Trattasi, peraltro, di una presunzione iuris tantum, che può essere vinta da rigorosa prova contraria (Sez. 5, n. 2812 del 17/10/2013 - dep. 2014, Manfrellotti, Rv. 258947; Sez. 5, n. 11931 del 27/01/2005, De Franceschi, Rv. 231707; Sez. 5, n. 709 del 01/10/1998 - dep. 1999, Mollo, Rv. 212147; Sez. 5, n. 2055 del 15/12/1993 - dep. 1994, Decenvirale, Rv. 197268), che, dalle due sentenze di merito, non risulta essere stata fornita. 3. I motivi primo, terzo, quarto, quinto e settimo possono essere trattati unitariamente, poichè strettamente connessi in quanto tutti attinenti al dolo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale, e sono inammissibili per manifesta infondatezza. Deve innanzitutto osservarsi, quanto all'elemento soggettivo di tale reato, che lo stesso è costituito dal dolo generico, integrato dalla consapevolezza nell'agente che la confusa tenuta della contabilità potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, non essendo per contro necessaria la specifica volontà indirizzata ad ottenere l'effetto di impedire quella ricostruzione e tantomeno di arrecare pregiudizio ai creditori (Sez. 5, n. 5264 del 17/12/2013 - dep. 2014, Manfredini, Rv. 258881; Sez. 5, n. 5237 del 22/11/2013 - dep. 2014, Comirato, Rv. 258982; Sez. 5, n. 22109 del 11 maggio 2005, Veronesi, Rv. 231564). In particolare, l'integrazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale di cui alla seconda ipotesi della L.Fall., art. 216, comma 1, n. 2, richiede il dolo generico, ossia la consapevolezza che la confusa tenuta della contabilità renderà o potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, in quanto la locuzione "in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari" connota la condotta e non la volontà dell'agente, sicchè è da escludere che essa configuri il dolo specifico (Sez. 5, n. 21872 del 25/03/2010, Laudiero, Rv. 247444). Occorre anche ricordare, atteso che i motivi di ricorso attengono alla motivazione della sentenza impugnata in questa sede, che il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile (Sez. 5, n. 14022 del 12/01/2016, Genitore, Rv. 266617). La Corte di appello ha espressamente richiamato la motivazione della sentenza di primo grado laddove si afferma che i bilanci depositati sino al 2008 presentavano vistose anomalie, carenze ed incongruenze (pagine 8 e 9 della motivazione della sentenza del Tribunale). I bilanci dal 2003 al 2005 espongono dati che da un anno all'altro sono classificati in voci diverse, cosicchè il saldo di chiusura di un anno non coincide con quello di apertura dell'anno successivo; le note integrative presentano carenze informative e la documentazione acquisita non consente di ricostruire la voce rimanenze, che, invece, era particolarmente - rilevante considerato che la società aveva ad oggetto la costruzione di edifici e le rimanenze erano rappresentate da cantieri in corso d'opera o da terreni acquistati a scopo edilizio; non essendo stata rinvenuta la contabilità di cantiere, non è stato possibile accertare lo stato di avanzamento dei lavori. Non essendo possibile ricostruire la contabilità di cantiere, la valutazione della voce rimanenze alla fine di ogni esercizio è stata rimessa all'arbitrio dell'amministratore. Inoltre, il curatore ha rinvenuto pagamenti operati dal 2003 al 2009 dalla società poi fallita ad altre società controllate dalle due imputate per cifre di poco inferiori ai tre milioni di Euro che non trovano giustificazione nelle scritture contabili della (OMISSIS) s.r.l.. La rilevanza delle anomalie ed incongruenze nella tenuta della contabilità viene ribadita a pag. 25 della sentenza di primo grado, mentre a pag. 26 si afferma che la consapevolezza da parte delle due imputate della irregolare tenuta delle scritture e delle conseguenze di tali irregolarità, ovvero la impossibilità di ricostruire il patrimonio ed il movimento degli affari della società, emerge, oltre che dalle modalità con le quali le scritture sono state tenute, anche dall'avere le odierne ricorrenti cercato di far ricadere ogni responsabilità sull'amministratore di diritto, da loro proprio a tale scopo nominato; l'intento di allontanare il più possibile da se stesse la società destinata al fallimento e le responsabilità derivanti dall'avere esse amministrato di fatto la (OMISSIS) è reso evidente dalla cessione gratuita delle quote al nuovo amministratore di diritto della società, B.. Tale ragionamento viene fatto proprio e ribadito dalla Corte di appello che aggiunge che le predette anomalie e carenze nella tenuta nella contabilità hanno impedito di verificare se i pagamenti effettuati dalla fallita ad altre società controllate dalle due imputate avessero una reale giustificazione. Contrariamente a quanto affermato nei loro ricorsi dalle ricorrenti, secondo le quali la Corte di appello avrebbe desunto il dolo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale da meri sospetti, la Corte di appello ha affermato che "a buona ragione si può sospettare", per l'esistenza di rapporti economici tra la (OMISSIS) s.r.l. ed altre società controllate dalle ricorrenti in favore delle quali sono stati effettuati nel corso degli anni pagamenti per cifre di notevole rilevanza, che tali pagamenti siano privi di giustificazione e che vi sia in realtà stata una migrazione di risorse economiche dalla fallita a tali società. Proprio la assenza della documentazione contabile ha impedito il pieno accertamento di tali distrazioni. Tuttavia, la predetta situazione ha valore di ulteriore indizio, e come tale è stato utilizzato dalla Corte di appello, per affermare che le due ricorrenti avevano interesse a che non venisse accertata le loro responsabilità - sia penali che civili - connesse alla loro posizione di amministratrici di fatto della fallita e che tale interesse è stato perseguito anche tenendo le scritture contabili in guisa da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. Sempre al fine di evitare dette responsabilità le due socie hanno anche preferito cedere gratuitamente a terzi le loro quote, onde evitare, per quanto possibile, che la loro posizione di socie della fallita conducesse al loro coinvolgimento nelle indagini che di certo sarebbero state avviate dagli organi fallimentari in ordine alle cause del dissesto. Del resto, laddove dalle indagini non fosse emerso il loro ruolo di amministratrici di fatto della (OMISSIS) s.r.l., le ricorrenti sarebbero riuscite a realizzare il loro scopo. La motivazione addotta dai due giudici del merito appare completa, adeguata ed esente da contraddizioni o manifeste illogicità. I motivi di ricorso delle ricorrenti si fondano, invece, tutti sulla premessa che per la sussistenza del dolo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale non è sufficiente che la irregolare tenuta delle scritture sia avvenuta con la consapevolezza che essa renderà impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari dell'impresa fallita, ma occorre che l'irregolare tenuta delle scritture venga attuata proprio allo scopo di impedire tale ricostruzione, il che, come si è spiegato sopra, non è esatto. Ne consegue che è del tutto irrilevante che le due ricorrenti abbiano garantito con fideiussione i debiti verso le banche, ai quali corrispondono solo parte dei crediti ammessi al passivo fallimentare, o che nel 2009 la società fallita fosse titolare di un consistente patrimonio immobiliare. Tali circostanze non valgono ad escludere che le due ricorrenti abbiano provveduto alla tenuta delle scritture contabili nella consapevolezza che le modalità della loro tenuta avrebbero impedito la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. 4. Anche l'ottavo motivo di ricorso con il quale si deduce che la motivazione è contraddittoria per avere la Corte di appello ritenuto che la cessione delle quote abbia costituito un mezzo per procrastinare artificiosamente la vita della società, è inammissibile. Quel che rileva, come correttamente osservato dalla Corte di appello, è la volontà delle imputate di ritardare la dichiarazione di fallimento, omettendo di attivarsi affinchè fosse presentata la relativa istanza; tale volontà emerge anche dalla scelta di disinteressarsi della società resa evidente dalla cessione delle quote a titolo gratuito ad un ulteriore prestanome che ha assunto la qualifica di amministratore della (OMISSIS) e che si è anche lui del tutto astenuto dal compiere atti di gestione. Anche in questo caso le ricorrenti non si confrontano con le ragioni poste dalla Corte di appello a fondamento della decisione, cosicchè il motivo risulta inammissibile perchè non specifico. 5. Il nono motivo, con il quale le ricorrenti si dolgono dell'assenza di prova che il ritardo nella presentazione dell'istanza di dichiarazione di fallimento abbia aggravato il dissesto della società, è inammissibile, trattandosi di motivo nuovo, non essendo stato dedotto con l'atto di appello, e che pertanto incorre nella sanzione dell'inammissibilità ai sensi dell'art. 606 c.p.p., u.c.. 6. Il decimo motivo di ricorso, con il quale si deduce che le due imputate non erano legittimate a presentare istanza di fallimento, in quanto mere socie, è inammissibile per manifesta infondatezza. Deve richiamarsi quanto sopra esposto in ordine ai doveri di cui è destinatario l'amministratore di fatto. Egli, in base alla disciplina dettata dall'art. 2639 c.c., è da ritenere gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall'art. 40 c.p., comma 2, (Sez. 5, n. 7203 del 11/01/2008, Salamida, Rv. 239040). L'amministratore di fatto, quindi, può rispondere per il reato di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 224 e art. 217, comma 1, n. 4, nell'ipotesi in cui, pur non essendo legittimato a presentare istanza di fallimento per la società da lui amministrata solo di fatto, non si attivi perchè detta istanza venga presentata dall'amministratore di diritto munito di legittimazione o comunque non si attivi affinchè essa venga presentata dal pubblico ministero, anch'egli legittimato ai sensi dell'art. 6 citato R.D.. 7. L'undicesimo motivo di ricorso è inammissibile. Nei casi in cui l'inammissibilità dei ricorso sia dovuta a cause originarie, il giudicato deve ritenersi precedente e risalente alla decisione inammissibilmente impugnata. In tali casi la dichiarazione di inammissibilità del giudice ad quem riveste valore meramente ricognitivo della già intervenuta irrevocabilità della precedente decisione. Conseguentemente il decorso del tempo successivo alla stessa è del tutto irrilevante agli effetti della prescrizione (Sez. 3, n. 1073 del 08/03/2000, Foglia, Rv. 215887). Stante l'inammissibilità dei motivi di ricorso relativi al capo della sentenza concernente il reato di bancarotta semplice, in applicazione del principio sopra esposto, risulta inammissibile anche il motivo di appello con il quale si deduce, in relazione a detto reato, la estinzione per prescrizione maturata successivamente alla sentenza di appello. 8. Risultano, invece, parzialmente fondati il dodicesimo ed il tredicesimo motivo. Effettivamente nel corso del giudizio di appello la parte civile ha revocato la sua costituzione; della circostanza viene dato atto nella sentenza di secondo grado. Dall'atto di rinuncia risulta che le due imputate hanno corrisposto alla curatela fallimentare la somma di Euro 50.000,00. Ne consegue che vi è stato un travisamento per omessa valutazione del predetto atto di rinuncia laddove, ai fini del bilanciamento tra la circostanza aggravante e le circostanze attenuanti generiche già riconosciute con la sentenza di primo grado, si afferma che il giudizio di equivalenza trova giustificazione nella assenza di qualsivoglia condotta riparatoria del danno. Detto travisamento non ha, invece, inciso sulla quantificazione della pena base, atteso che essa si discosta dal minimo edittale nella misura di un sesto, come ha cura di evidenziare la Corte territoriale, che nel motivare tale scostamento ha fatto riferimento alla entità del danno complessivamente subito dai creditori sociali, senza fare riferimento alla assenza di condotte riparative. In relazione a tale punto il motivo di ricorso è inammissibile. 9. Sono fondati anche i motivi quattordicesimo e quindicesimo. La Corte di appello ha giustificato il mantenimento in dieci anni della durata delle pene accessorie previste dal R.D. n. 267 del 1942, art. 216, u.c. facendo soprattutto riferimento alla mancanza di condotte risarcitorie da parte delle due imputate. Anche tale decisione risulta, quindi, conseguenza del travisamento per omissione del contenuto dell'atto di revoca della costituzione di parte civile, in cui viene dato atto del versamento della somma di Euro 50.000,00 a titolo di risarcimento del danno da parte delle due imputate e, in quanto tale, affetta da manifesta illogicità. Peraltro, in tema di pene accessorie, nel caso in cui la durata di queste sia determinata in misura superiore alla media edittale, è necessaria una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall'art. 133 c.p., valutati ed apprezzati tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena (vedi Sez. 5, n. 11329 del 09/12/2019 - dep. 2020, Retrosi, Rv. 278788, che ha annullato una sentenza di patteggiamento per bancarotta fraudolenta, nella parte in cui il giudice aveva irrogato le pene accessorie di cui alla L. Fall., art. 219, u.c., nel massimo edittale, motivando genericamente sulla gravità del danno e sull'entità delle condotte distrattive). 10. La caducazione della pronuncia di condanna sul punto della pena accessoria osta al passaggio in giudicato del capo della sentenza relativo al delitto di bancarotta fraudolenta (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216239), per il quale soltanto è prevista ed è stata applicata la pena accessoria di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 216, u.c. nella misura di dieci anni, ma non incide sulla inammissibilità del ricorso relativo all'altro capo della sentenza relativo alla bancarotta semplice e non consente di rilevare l'intervenuta prescrizione per questo reato. Analoghe considerazioni valgono quanto all'accoglimento del motivo di ricorso relativo al bilanciamento del giudizio tra circostanze. La configurazione formale della cosiddetta continuazione fallimentare, prevista dalla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, come circostanza aggravante, ne comporta l'assoggettabilità al giudizio di bilanciamento con le eventuali attenuanti (Sez. 5, n. 48361 del 17/09/2018, C, Rv. 274182). Il giudizio di bilanciamento viene attuato esclusivamente in relazione alle circostanze aggravanti ed attenuanti applicate al più grave delitto di bancarotta fraudolenta, rispetto al quale il delitto di bancarotta semplice viene formalmente a trasformarsi in una aggravante. In caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016 - dep. 2017, Aiello, Rv. 268966). 11. Concludendo, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al bilanciamento tra circostanze ed alla determinazione della durata delle pene accessorie di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 216, u.c. con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, mentre i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili nel resto. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al bilanciamento tra circostanze ed alla determinazione della durata delle pene accessorie di cui all'art. 216, u.c. con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di appello di Milano. Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi. Così deciso in Roma, il 30 novembre 2020. Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2020
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