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Bancarotta documentale: non è necessario che l'omissione annotativa sia perdurata per tutta la vita dell'impresa

Bancarotta fraudolenta documentale

Luglio 2024 - Cassazione penale sez. V, 02/07/2024, n.33465

Come si desume dalla norma (che parla di sottrazione, distruzione o falsificazione, "in tutto o in parte" dei libri o delle altre scritture contabili) anche la parziale carenza di documentazione integra la fattispecie di cui alla prima parte dell'articolo 216, comma 1, n. 2, r.d. 267/1942.
Non è necessario che detta omissione annotativa sia perdurata per tutta la vita dell'impresa, né che essa riguardi tutte le scritture contabili, ben potendo essere parziale, sia in riferimento all'oggetto che in riferimento allo sviluppo, potendo essa manifestarsi sia in senso diacronico che sincronico. Ciò, peraltro, emerge inequivocabilmente dal testo della disposizione normativa, che chiarisce come la condotta riguarda "...in tutto o in parte ..." le scritture contabili, potendo, quindi, manifestarsi attraverso la radicale carenza di tutte o di parte delle scritture e dei libri contabili e non in una loro tenuta lacunosa, connotata da omissioni annotative, come già detto in precedenza. Si è, inoltre, spiegato, ad ulteriore individuazione del discrimine tra le due fattispecie delineate dalla disposizione di cui all'art. 216, comma 1, n. 2, legge fallimentare, che la fraudolenta tenuta delle scritture, a dolo generico, presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di Roma ha giudicato Za.Ma., amministratore unico dal 19/8/2008 al 29/5/2012 e socio unico dal 2/11/2010 al 9/1/2012 della Hermitage Hotel Srl (fallita il 19/5/2016), nonché, successivamente al 29/5/2012, suo amministratore di fatto, per i reati di cui agli articoli: (1)110 cod. pen., 216, comma 1 n. 2, 223, comma 1, R.D. 267/1942, poiché in concorso con Me.Br.(amministratore di diritto), deceduto nelle more, aveva sottratto libri e scritture contabili della società fallita per procurarsi un ingiusto profitto (distrazione del ramo d'azienda di seguito specificato) e recare pregiudizio ai creditori (stante l'impossibilità di accertare l'esistenza di cespiti attivi); (2) 110 cod. pen., 223, comma 2 n. 2 R.D. 267/1942, per avere, in concorso col detto Me.Br., cagionato con dolo il fallimento della Hermitage Hotel Srl col mancato pagamento delle imposte dal 2007 al 2012, generando un debito tributario di Euro 868.380,86, parte consistente dell'intero passivo (di Euro 1.717.798,08); (3) 110 cod. pen., 223, comma 2 n. 2 R.D. 267/1942, per avere, in concorso col Me.Br., aggravato il dissesto della società contabilizzando compensi a favore dello stesso Za.Ma., per la sua attività di amministratore, per un importo di Euro 770.000,00, causando una perdita di Euro 867.212,00, facendo ridurre il capitale al di sotto del minimo legale ed omettendo di adottare i provvedimenti doverosi ex articolo 2482 cod. civ.; (4) 110 cod. pen., 216, comma 1 n. 1, 223, comma 1 R.D. 267/1942, per avere, in concorso col Me.Br.e, inoltre, con Co.Ti., Ra.Ke.e Ma.St., distratto il ramo d'azienda destinato all'attività turistico-alberghiera della struttura "Hotel Hermitage", in M, via dei Me, attraverso vari contratti di affitto di ramo d'azienda e di locazione dell'immobile (a favore di soggetti a lui vicini e, da ultimo, una settimana prima del fallimento, a sé stesso, con ulteriore subaffitto, a fallimento dichiarato, il 27/10/2016, ancora a soggetto a lui riconducibile, la Gesting di Ni.Ma. E C. Snc) a canoni incongrui e comunque mai corrisposti, il cui credito (maturato e da maturare) era stato peraltro ceduto allo stesso Za.Ma., fino a concorrenza di Euro 770.000,00, a pagamento dei menzionati compensi asseritamente maturati per la funzione di amministratore della fallita. Il Tribunale di Roma, giudicando lo Za.Ma. e la Co.Ti., ha assolto quest'ultima, ritenendo colpevole il primo dei reati ascrittigli, tutti considerati aggravati dal danno patrimoniale di rilevante entità e dall'essersi verificati plurimi fatti di bancarotta. Il menzionato Tribunale ha, dunque, condannato lo Za.Ma. (con la riduzione per il rito e previa concessione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti) a tre anni di reclusione e alle correlate pene accessorie, nonché al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile. 2. La Corte d'Appello di Roma ha ridotto la pena principale e quella accessoria ex articolo 216 ultimo comma r.d. 267/1942 a due anni e quattro mesi di reclusione, revocando l'interdizione dai pubblici uffici e confermando nel resto la sentenza del Tribunale. 3. Ha proposto ricorso per Cassazione lo Za.Ma. 3.1. Col primo motivo lamenta violazioni di legge e illogicità e carenze di motivazione, di seguito specificate. 3.1.1. Violazione dell'art. 2639 cod. civ.: l'attribuzione allo Za.Ma. della qualità di amministratore di fatto della Hermitage Hotels Srl era avvenuta senza prove sufficienti circa la sua attività gestoria, in contrasto coi principi giurisprudenziali che richiedono la partecipazione non occasionale alle attività gestionali. 3.1.2. Violazione dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen.: si assume vi sia stata un'erronea applicazione dei criteri di valutazione dell'attendibilità delle dichiarazioni di Me.Br., coimputato in procedimento connesso, senza adeguato giudizio della sua attendibilità soggettiva ed oggettiva. 3.1.3. Carenza ed illogicità della motivazione: la sentenza impugnata sarebbe contraddittoria riguardo all'attività gestoria dello Za.Ma., da un lato affermando che questi avesse cessato le attività gestionali dopo il passaggio di consegne a favore del Me.Br., mostrando il suo disinteresse verso le sorti della società poi fallita, dall'altro sostenendo che la mancanza dì attività gestoria dimostrasse, invece, l'intento predatorio dello stesso Za.Ma. 3.1.4. Così parte ricorrente argomenta le dette doglianze. Secondo la Suprema Corte, la veste di amministratore di fatto, pur non richiedendo l'esercizio continuo di tutti i poteri correlati ad essa, necessitava di un'attività gestionale apprezzabile e non occasionale, mediante la partecipazione diretta al governo dell'ente societario, l'identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi e l'intervento del gerente di fatto nelle scelte più importanti per l'impresa. La Corte d'Appello sarebbe caduta in contraddizione affermando che lo Za.Ma., a seguito del passaggio di consegne al Me.Br., non risultasse avere più svolto una propria attività gestoria, abbandonando consapevolmente le sorti della società una volta soddisfatti i propri intenti predatori, ma che neanche il Me.Br. risultasse aver mai compiuto attività gestoria (al di fuori del tentativo di indebita dismissione denunciato dallo stesso Za.Ma.). Nella specie, la Corte d'Appello, per riconoscere la detta veste, aveva fatto leva sulla sola azione civile promossa dallo Za.Ma. per la restituzione delle quote societarie intestate in via fiduciaria al Me.Br.(utilizzata quale riscontro alle parole di costui, circa il detto ruolo in capo al ricorrente). La stessa, però, non aveva considerato che tale azione provava il contrasto tra lo Za.Ma. e il Me.Br., evidenziando, in tal modo, l'autonomia di quest'ultimo nella gestione della società: sicché tale azione civile non avrebbe potuto considerarsi riscontro idoneo, ex articolo 192 cod. proc. pen., alle parole del coimputato (di cui, dunque, non sarebbe stata adeguatamente valutata l'attendibilità, avendo peraltro egli un interesse economico contrapposto a quello dello Za.Ma.). Sempre la stessa sentenza impugnata non avrebbe adeguatamente considerato le parole dei fratelli Gh. (commercialisti di fiducia della società de qua) al curatore, in data 14/10/2016, secondo cui essi non avevano avuto più contatti con lo Za.Ma. sin da 4 o 5 anni prima, ossia da epoca coincidente col subentro nell'amministrazione Me.Br. In definitiva, il ruolo di amministratore di fatto della Hermitage Hotels Srl non sarebbe stato provato e tanto avrebbe dovuto portare all'assoluzione dello Za.Ma. per i reati contestati ai capi 1) e 3) dell'imputazione, per non aver commesso il fatto (accaduto dopo la sua cessazione delle qualità di socio e amministratore). 3.2. Col secondo motivo la difesa dello Za.Ma. si duole della violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e c) cod. proc. pen. (in relazione all'art. 216, comma 1, n. 2, r.d. 267/1942). Vi sarebbe stata la violazione di norme processuali previste a pena di nullità o inutilizzabilità in relazione all'affermazione di responsabilità per fatto diverso da quello contestato nel capo 1) di imputazione. Si assume che nel capo d'imputazione fosse stata contestata la sottrazione delle scritture contabili, mentre, secondo la sentenza impugnata, il curatore aveva acquisito dal Me.Br.documentazione incompleta (priva delle scritture contabili aggiornate alla data del fallimento, con l'elenco dei creditori e dei debitori della società). Tuttavia, l'articolo 216, comma 1, numero 2, r.d. 267/1942 contemplerebbe, secondo parte ricorrente, due ipotesi alternative di bancarotta fraudolenta documentale: la prima consistente nella sottrazione o distruzione (cui è parificata l'omessa tenuta) delle scritture contabili (che richiede il dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori); la seconda integrata dalla tenuta della contabilità in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o degli affari, che, diversamente dalla prima ipotesi, presuppone un accertamento condotto sui libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dagli organi fallimentari e richiede il dolo generico. Trattandosi di ipotesi alternative, se contestata la sottrazione od omessa tenuta delle scritture, non avrebbe potuto essere addebitata all'agente la loro fraudolenta tenuta (ipotesi che presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dagli stessi organi fallimentari). La Corte d'Appello avrebbe erroneamente interpretato l'articolo 216, comma 1, n. 2, r.d. 267/1942 come se fosse una fattispecie unitaria, non tenendo conto delle due alternative ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale ivi disciplinate, giungendo quindi ad affermare la penale responsabilità dell'imputato in relazione ad un fatto diverso da quello oggetto di imputazione. Tale diversità avrebbe dovuto essere rilevata d'ufficio dal giudice d'appello, ove pure sollecitata da una parte non impugnante, trattandosi di una nullità assoluta per inosservanza di norme processuali. In mancanza di regolare modifica del capo di imputazione, la Corte d'Appello avrebbe dovuto assolvere lo Za.Ma. dal reato ascrittogli di bancarotta documentale, siccome contestato nel capo di imputazione, e rinviare gli atti all'organo dell'accusa per il nuovo esercizio dell'azione penale. 3.3. Col terzo motivo parte ricorrente lamenta nuovamente, ex art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen., la violazione di norme processuali previste a pena dì nullità o inutilizzabilità, in relazione all'affermazione di responsabilità per fatto diverso da quello contestato al capo 2) di imputazione, e il difetto di motivazione in relazione al terzo motivo di gravame (nella parte in cui si rilevava che il debito tributario non avesse contribuito a determinare il dissesto societario). Si assume, anzitutto, che la sentenza impugnata, in relazione al capo 2) d'imputazione, avrebbe preso ad oggetto il debito erariale nel suo complesso (inclusi i debiti verso l'INPS e generati dalle contravvenzioni al codice della strada, portati dalle cartelle esattoriali) e non solo quello tributario, espressamente indicato in tale capo, violando, così, il principio di correlazione fra l'imputazione e la sentenza. Secondo la Corte d'Appello, l'importo complessivo di Euro 868.380,86, definito con espressione sintetica "debito tributario", doveva ritenersi chiaramente riferito all'intero debito verso l'Erario portato dalle cartelle notificate da Equitalia Sud Spa, come agevolmente ricavabile dalla tabella relativa allo stato passivo: sicché non vi sarebbe stato il difetto di correlazione tra accusa e sentenza. Per parte ricorrente, però, il capo di imputazione (che aveva usato i termini tecnici "imposte" e "debito tributario" per circoscrivere le partite oggetto di imputazione dal complessivo passivo fallimentare di Euro 1.717.798,08) non conteneva alcun riferimento alla "Equitalia Sud Spa" o alle "cartelle notificate": sicché l'interpretazione della Corte d'Appello era fuorviante, anche perché, pur avendo l'imputato a disposizione l'intero prospetto del passivo fallimentare, non tutte le voci al suo interno risultavano oggetto di contestazione. Sicché, se non interpretati in modo tecnico i detti termini ("imposte" e "debito tributario"), il capo d'imputazione sarebbe stato totalmente indeterminato. Pertanto, in mancanza di sua regolare modifica, lo Za.Ma. avrebbe dovuto essere assolto dal reato così come contestato ed avrebbero dovuto essere inviati gli atti all'organo dell'accusa per il nuovo esercizio dell'azione penale. Con ulteriore censura, si evidenzia che il Giudice del gravame avesse omesso qualsivoglia motivazione sull'esclusione, da parte del Curatore fallimentare (con nota del 12/7/2017), del debito tributario dalle cause del dissesto della società, avendo egli evidenziato che la perdita di Euro 867.212,00 (riportata nella situazione contabile al 31/12/2012) fosse stata determinata in prevalenza dalla contabilizzazione di compensi in favore dell'amministratore per Euro 770.000,00. 3.4. Col quarto motivo la difesa dell'imputato lamenta la violazione dell'articolo 606, comma 1, lett. e), cod. pròc. pen., per la contraddittorietà della motivazione, sia interna, sia rispetto alla documentazione in atti e, ancora, per l'omessa motivazione in relazione al danno patrimoniale. In particolare, quanto al primo profilo, si assume che a pagina 11 della sentenza d'appello si sarebbe riconosciuto che l'appostazione a debito della somma di Euro 770.000,00 nei conti della società fosse avvenuta nel 2012 (periodo in cui lo Za.Ma. non era più suo amministratore), mentre, a pagina 12 della medesima sentenza, si sarebbe affermato che la somma non fosse stata appostata a bilancio nel 2012. Si evidenzia che, tuttavia, secondo la relazione ex articolo 33 r.d. 267/1942 (pagine 5 e 8), la contabilizzazione fosse avvenuta, in effetti, nel 2012 e che tale somma non fosse stata mai, di fatto, incassata. Con lo stesso motivo ci si duole, ancora, dell'omessa motivazione sul danno patrimoniale arrecato dall'imputato alla società in relazione al capo 3 dell'imputazione, nonostante la difesa avesse evidenziato che nel 2012, periodo della contabilizzazione della somma di Euro 770.000,00, lo Za.Ma. non rivestisse la carica di amministratore, come confermato dalla detta relazione del Curatore Fallimentare. 3.5. Col quinto motivo la difesa dell'imputato censura la sentenza d'appello per la violazione dell'articolo 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., ovvero per vizio di motivazione riguardo al beneficio economico derivante dalla stipula dei contratti di affitto d'azienda e locazione d'immobile e circa l'elemento soggettivo di tale reato. La Corte d'Appello avrebbe omesso di considerare il rilevante risparmio di spesa (di circa Euro 160.000,00 annui, secondo le scritture contabili) derivante dalla stipula dei detti contratti, nonché gli introiti (di Euro 95.000,00 annui) conseguiti in base ad essi. La sentenza sarebbe priva di una valutazione tecnico-economica e basata su considerazioni apodittiche. La Corte territoriale, poi, aveva inoltre omesso di valorizzare la circostanza che l'atto distrattivo fosse avvenuto ben sei anni prima della dichiarazione di fallimento, senza dimostrare la consapevolezza, nello Za.Ma., di sottrarre beni all'esecuzione concorsuale in previsione dell'insolvenza. 3.6. Col sesto motivo parte ricorrente lamenta la violazione dell'articolo 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen., per errata valutazione della gravità del danno ex articolo 219, comma 1, r.d. 267/1942, in base al passivo fallimentare (contrariamente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza, che richiede di considerare la diminuzione patrimoniale causata dall'atto distrattivo), senza dare alcuna spiegazione sul suo ammontare e sui criteri utilizzati per la sua determinazione. Ci si duole, in particolare, del fatto che non fosse stato chiarito: (a) in che modo l'appostazione (nel bilancio del 2012) dell'importo di Euro 770.000,00, a titolo di compensi dovuti all'amministratore, avesse inciso sul ceto creditorio, dato che le somme non erano mai state riscosse, né per esse v'era stata insinuazione nel passivo fallimentare; (b) quale fosse il valore di mercato dell'immobile ceduto; (c) quale fosse il danno derivante dalla sottrazione delle scritture contabili. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è, nel complesso, infondato. 1.1 II primo motivo (sulla veste di amministratore di fatto della Hermitage Hotels Srl in capo allo Za.Ma.) è inammissibile poiché sollecita una nuova valutazione della fondatezza delle accuse, diversa da quella operata in sede di merito, senza scardinare i capisaldi (di cui oltre, per completezza, si dirà) della logica motivazione impugnata. In sede di legittimità ci si deve limitare a verificare che il ragionamento della decisione impugnata sia coerente e non manifestamente illogico (e, dunque, abbia senso comune), posto che, salvo il travisamento di specifici atti del processo, la Corte di cassazione non può sovrapporre la propria logica o la propria valutazione a quella compiuta nei precedenti gradi, non rientrando tra le sue competenze lo stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione dei fatti, né condividerne la giustificazione. Insomma, laddove la motivazione abbia una sua logica, comunque idonea a sorreggere la decisione presa, non può trovare ingresso, in questa sede, qualsivoglia tesi che ne prospetti un'altra, ove pure ipoteticamente maggiormente plausibile (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944-01; Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504-01; Sez. 6, n. 49153 del 12/11/2015, Rv. 265244-01; Sez. 6, n. 29263 del 08/07/2010, Rv. 248192-01). Solo se vi sia disarmonia nel sillogismo tra premesse e conclusioni (Sez. 1, n. 9539 del 12/05/1999, Rv. 215132-01) o tra dispositivo e motivazione o, ancora, tra varie considerazioni di quest'ultima sullo stesso fatto o, infine, resti inesplicato quale, delle varie ipotesi formulate dal giudice, conducenti ad esiti diversi, siano state poste a base del convincimento espresso (Sez. 2, n. 12329 del 04/03/2010, Rv. 247229-01), è doveroso l'intervento correttivo di questa Corte (Sez. 5, n. 19318 del 20/01/2021, Rv. 281105-01). Quanto al giudizio sull'istruttoria svolta, solo il travisamento della prova (e non del fatto), e dunque l'errore percettivo (e non valutativo) che ne stravolga il pacifico diverso significato e sia, al contempo, determinante la decisione deve essere emendato in questa sede (Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, Rv. 250168; Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Rv. 244623; Sez. 1, n. 8094 del 11/01/2007, Rv. 236540). Laddove, se l'errore sia imputabile al giudice di primo grado e la relativa questione non sia stata devoluta al giudice dell'appello, che vi si conforma, ex articoli 606, comma 3, e 609, comma 2, cod. proc. pen., la questione non è neppure ammissibile (Sez. 3, n. 35494 del 17/06/2021, Rv. 281852 - 01; Sez. 3, n. 33815 del 17/09/2020, Rv. 280045-01; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758-01; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Rv. 258774-01). All'uopo non basta segnalare minime incongruenze o la mancata considerazione di ogni deduzione difensiva o risultanza processuale (ove pure ritenuta più attendibile), essendo sufficiente (a ritenerla immune da censure) che la motivazione oggetto d'impugnazione abbia offerto una valutazione globale tale da esplicitare le razionali ragioni della decisione (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794-01; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260-01; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074-01). In presenza, poi, di una doppia conforme affermazione di responsabilità, è sufficiente (salvo non siano allegati, dal giudice del gravame, nuovi argomenti rispetto al primo grado) che il secondo giudice rinvii alla motivazione del primo, le sentenze di merito integrandosi in un'unica entità (Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Albergamo, Rv. 197250; Sez. 1, n.19769 del 10/04/2024, non massimata). Nella specie, in modo illegittimo e persino illogico da parte ricorrente, si contrappone (ancorché mascherata anche da pretese violazioni di legge: vedasi, sulla corretta qualifica, la nota Sez. U, Sentenza n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-04) una diversa e parcellizzata lettura delle prove, nonché l'esasperazione di poco significative (perché su elementi non di rilievo) incongruenze: inidonee, ad ogni modo, ad inficiare la complessiva valutazione e le conclusioni cui è correttamente giunto (sulla base dei ponderosi elementi rimasti non efficacemente contestati) il provvedimento impugnato. Trattasi, insomma, di una non consentita (in questa sede) rivalutazione del materiale probatorio finalizzata a una rivisitazione del giudizio di merito con cui, in modo logico, esaustivo e non contraddittorio, s'è ritenuto il ruolo di amministratore di fatto dell'imputato, in base ai seguenti elementi. 1.1.1. Anzitutto sono menzionate le dichiarazioni di Me.Br.al Curatore, correttamente ritenute non soggette alla disciplina di cui all'articolo 63, comma 2, cod. proc. pen. (in quanto questi non è organo ispettivo o di vigilanza ex articolo 220 disp. coord. cod. proc. pen.: Sez. 5, n. 17828 del 09/02/2023, Rv. 284589 - 02; Sez. 5, n. 12338 del 30/11/2017, dep. 2018, Rv. 272664 - 01; Sez. 5, n. 18792 del 20/12/2022, dep. 2023, Rv. 284448 - 01), e riscontrate, ai sensi dell'articolo 192, comma 3, cod. proc. pen., dagli elementi oltre richiamati. La Corte d'Appello rammenta che il Me.Br.avesse evidenziato: (a) l'intestazione fittizia a suo favore delle quote sociali ed il suo ruolo di mero formale amministratore della fallita, atti da lui accettati perché l'amico Za.Ma. doveva spogliarsi dei suoi beni essendo in fase di separazione dalla moglie; (b) che in tale operazione fosse stato assistito da Gh.An., professionista di fiducia dello Za.Ma., il cui studio era presso la sede della fallita; (c) che egli nulla sapesse delle vicende societarie, se non che la società fosse proprietaria di un albergo locato alla Consulting Hotel, di cui s'era tentata invano la vendita; (d) che fosse stato citato in sede civile dallo Za.Ma., che gli aveva chiesto la restituzione, a titolo gratuito, delle quote sociali della Hermitage Hotels Srl di cui l'imputato assumeva (come da dichiarazione scritta resa in data 20/2/2012 dallo stesso Me.Br.) la loro cessione fiduciaria al secondo. 1.1.2. Ulteriori dati valorizzati dalla Corte d'Appello sono, poi, il detto atto di citazione (redatto - come si desumeva dal suo contenuto, a dire della Corte d'Appello - per avere lo Za.Ma. saputo che il Me.Br.stesse approfittando della sua carica fiduciaria per cedere a terzi - in particolare a Br.Ro.- le quote sociali in questione e la proprietà dell'Hotel Hermitage, bene principale della società, in danno dello Za.Ma., legittimo titolare, seppure occulto) e la lettera di cui si dava atto nella menzionata citazione (con cui lo Za.Ma. aveva già richiesto formalmente, in via stragiudiziale, non solo il ritrasferimento delle quote, ma anche le dimissioni immediate del Me.Br.). 1.1.3. Ed ancora, secondo la Corte d'Appello ennesimo riscontro alle parole del Me.Br. era la scrittura privata nella quale questi aveva dichiarato di ricevere dallo studio dei commercialisti Gh.-Gi. parte delle scritture contabili, poi consegnate al curatore (ciò che riscontrava l'affermazione dello stesso Me.Br., secondo cui era stato lo studio Gh., di fiducia dello Za.Ma., ad occuparsi sempre della contabilità e a possedere la smart card per il deposito dei bilanci). 1.1.4. Analoga importanza è stata data, dalla Corte d'Appello, alle dichiarazioni dei commercialisti Gh.Fr.e Gh.An., già soci della Etrusca Invest (incorporata nella Hotel Forte di Za.Ma., il (omissis), dando così vita alla Hermitage Hotels Srl), secondo cui: (a) la fallita era sempre stata amministrata di fatto dallo Za.Ma. (la cui moglie, Za.Lo., era sorella di Za.Si., già proprietaria del 90% delle quote sociali della originaria Etrusca Invest); (b) negli ultimi anni la Hermitage Hotels Srl aveva avuto difficoltà economiche, tanto da sospendere i pagamenti fiscali e previdenziali, oltre che la corresponsione delle competenze spettanti ai professionisti (inclusi gli stessi commercialisti); (c) essi avevano conosciuto il Me.Br.soltanto nel giugno 2016, in occasione della sua richiesta di consegna delle scritture contabili. 1.1.5. Sempre secondo la Corte d'Appello, il Me.Br.risultava amministratore di altre otto società: ciò che, lungi dal dimostrare la sua attitudine nella gestione di imprese, era indice (secondo la sentenza impugnata) della sua predisposizione a prestarsi senza scrupoli a ruoli formali di mera testa di legno. 1.1.6. Rilevanti, poi, sono state ritenute le ulteriori affermazioni dei fratelli Gh., circa il fatto di non aver avuto contatti, oltre che con lo Za.Ma., da epoca più o meno coincidente con la nomina quale amministratore del Me.Br., anche con quest'ultimo (se non nel giugno 2016, quando si era presentato a ritirare la documentazione e la corrispondenza giacente, verosimilmente allo scopo di consegnarla al curatore) e circa il fatto che, però, tutta la corrispondenza societaria pervenuta in quegli anni presso il loro studio fosse stata consegnata o direttamente allo Za.Ma. (fino a quando con lui rimasti in contatto) o ad altri incaricati all'uopo verbalmente dallo stesso. 1.1.7. Secondo la sentenza impugnata, inoltre, la società in questione, per quanto già sostanzialmente inattiva e svuotata alla data del passaggio di consegne al Me.Br., aveva continuato ad essere vincolata ai contratti di affitto di azienda e di locazione stipulati con durata pluriennale dallo Za.Ma. nel 2010 e, quindi, ancora in esecuzione al momento del fallimento e prima della cessione degli stessi ancora una volta allo stesso Za.Ma.. 1.1.8. Ulteriore dato significativo è stato ritenuto quello per cui, il 21/2/2012, poco dopo il subingresso nell'amministrazione del Me.Br.(in data 9/1/2012), la società fallita avesse ceduto allo Za.Ma. il credito derivante dal contratto di locazione del complesso immobiliare alberghiero e dal contratto di affitto di azienda, sino alla somma complessiva di Euro 770.000,00 (oltre i canoni fino al 2021 per Euro 90.000,00, come si evinceva da una scrittura in atti), per effetto di una transazione in pari data (anch'essa acquisita), conclusa per definire quanto dovuto a titolo di compensi allo Za.Ma. quale amministratore. 1.1.9. Ed ancora, la Corte d'Appello ha ulteriormente valorizzato che i due contratti di affitto e di locazione fossero stati stipulati dalla fallita con la Consulenza Hotel Srl, amministrata dall'8/1/2013 al 30/3/2016 da Co.Ti., compagna dello Za.Ma. (che, peraltro, la sentenza di primo grado aveva ritenuto -assolvendola - avesse mera veste formale in tal senso, per conto dello stesso Za.Ma.). 1.1.10. Da ultimo, ennesimo significativo dato che confermava il detto ruolo della Za.Ma. è stato ritenuto quello per cui, il 12/5/2016, poco dopo il ricorso (nel febbraio 2016) per la declaratoria del fallimento dell'Hermitage Hotel Srl, i detti contratti (di affitto d'azienda e locazione) fossero stati ceduti dalla Consulenza Hotel Srl direttamente allo Za.Ma. (che, in tal modo, aveva continuato a beneficiarne anche dopo il fallimento, ulteriormente lucrando risorse attraverso un successivo subaffitto di ramo d'azienda fra lui e la società Gesting per il periodo dal 27/10/2016 al 20/10/2019 e per il canone complessivo di Euro 220.000,00). 1.1.11. In definitiva, secondo la sentenza impugnata, il compendio probatorio (in sintesi: i documenti acquisiti relativi all'azione civile intentata dallo Za.Ma. contro il Me.Br., le dichiarazioni dei Gh., le dissipazioni riconducibili allo Za.Ma. dei crediti, la transazione a favore dello Za.Ma. subito dopo il passaggio di consegne col Me.Br., l'interessenza dello Za.Ma. rispetto alla società cessionaria dei contratti, di cui era titolare la sua compagna, e, infine, il recupero della gestione dell'Hotel tramite la cessione dei contratti di affitto d'azienda e di locazione dell'immobile a suo diretto beneficio e poi ancora a favore di ulteriori terzi) offriva significativi riscontri alle parole del Me.Br. circa il ruolo di dominus sostanziale mantenuto dallo Za.Ma. fino al fallimento. Tutti i detti elementi superavano (sempre a logico dire della Corte d'Appello) la mancata emersione di atti specifici gestori nel periodo successivo all'assunzione della carica formale di Me.Br., che non poteva, certo, dirsi sintomo di non ingerenza dello Za.Ma., bensì della sua volontà "di dismettere/abbandonare la società appropriandosi tuttavia di quanto di appetibile fosse residuato in termini di patrimonio e di utile". Da ultimo, la Corte d'Appello rammenta che, a causa delle dette vicende, orchestrate dallo Za.Ma., il fallimento aveva dovuto intentare azioni revocatorie per la declaratoria della inefficacia degli atti in pregiudizio dei creditori, come emergeva dalla relazione ex articolo 33 r.d. 267/1942. Né, infine, il dato (richiamato da parte ricorrente) secondo cui i Gh. non avessero avuto a che fare da anni con lo Za.Ma. può dirsi di per sé idoneo a scardinare la dovizia di argomenti evidenziati in senso opposto dalla Corte d'Appello: tanto più che l'omessa cura e redazione delle scritture contabili, negli ultimi anni di vita della società fallita, rendeva tale dato del tutto insignificante e che lo stesso era contrastato (come detto) dal fatto che la corrispondenza societaria fosse dagli stessi comunque consegnata all'odierno ricorrente o a persone a lui riferibili. Insomma, in modo inammissibile e sulla base di elementi privi di reale forza probatoria contraria, tale, comunque, da rendere illogica la sentenza d'appello, da parte ricorrente si contrappone una lettura alternativa del compendio istruttorio, a fronte di quella fatta propria, in modo del tutto logico, in sede di merito. 1.2 Il secondo motivo (condanna, per il capo 1 di imputazione, invece che per la - contestata - sottrazione delle scritture contabili, per essere le stesse - come invece non contestato - incomplete) è inammissibile, sia perché posto per la prima volta in questa sede (come riconosciuto dalla stessa parte ricorrente, che ha evidenziato come la questione non sia stata sollevata con l'atto di appello), sia perché, in ogni caso, manifestamente infondato. Anzitutto, non è affatto vero (come sostiene parte ricorrente nella memoria del 21/6/2024) che la sentenza di primo grado non tratti il tema della mancanza delle scritture contabili, leggendosi, per contro, in essa (a pagina 6) della "assenza delle scritture contabili" e (a pagina 7) della "condotta ostinatamente omissiva assunta dallo Za.Ma. il quale per un verso sottraeva le scritture contabili della società e su altro versante ne aggravava il dissesto e ne svuotava il patrimonio". In secondo luogo, diversamente da quanto ancora sostenuto dalla difesa, va qui ribadito che si condivide la tesi secondo cui la nullità della sentenza derivante dall'immutazione del fatto contestato non rientri tra quelle assolute ed insanabili, sicché, in difetto di espresso motivo di gravame, e per il principio devolutivo, il giudice d'appello non può rilevare d'ufficio la mancanza di correlazione tra sentenza ed accusa (così, ad esempio: Sez. 2, del n. 14243 del 26/11/2021, dep. 2022, non massimata; Sez. 2, n. 11125 del 23/06/1992, Campagna, Rv. 192555 - 01; Sez. 3, n.51892 del 08/09/2016 non massimata; Sez. 2, n. 1918, del 18/12/2015, dep. 2016, non massimata). Non si condivide l'orientamento contrario (fatto proprio, ad esempio, da Sez. 6, n. 43336 del 09/09/2016, Rv. 268441-01), che reputa assoluta la nullità de qua, ritenendo che la stessa presidi il corretto esercizio dell'azione penale: tanto sia perché, se così fosse, anche l'indeterminatezza assoluta del capo d'imputazione sarebbe suscettibile di analoga soluzione (cui, invece, è contraria la pacifica giurisprudenza di questa Corte, secondo cui: "la nullità del decreto che dispone il giudizio per insufficiente enunciazione del fatto ha natura di nullità relativa, sicché non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine previsto dall'art. 491 cod. proc. pen."; così Sez. 6, n. 50098 del 24/10/2013, Rv. 257910-01; confronta, negli stessi termini: Sez. 3, n. 19649 del 27/02/2019, Rv. 275749-01; sez. 5, n. 20739 del 25/03/2010, Rv. 247590-01, tra le numerose più recenti, sez. 4, n.18132 del 06/02/2024, non massimata, e sez. 5, n. 16407 del 16/01/2024, non massimata), sia perché, se tale nullità fosse rientrata nell'alveo di quelle ex art. 178, comma 1, lettera b, cod. proc. pen., non sarebbe stato necessario prevederla (anche) espressamente nell'art. 522 cod. proc. pen. Tanto comporta che non vi sia alcun vizio nella sentenza impugnata, non avendo la stessa, correttamente, esaminato una questione che, in definitiva, non le era stata posta con l'appello, né avendo essa introdotto ex novo una tematica non trattata dal primo giudice: e comporta, infine, che sia ora parte ricorrente a devolvere a questa Corte una questione del tutto nuova. A ciò si aggiunga, ad abundantiam, anche la manifesta infondatezza della questione. La Corte d'Appello ha accertato (in base alla relazione ex articolo 33 r.d. 267/1942) che il curatore ha "acquisito dal Me.Br.documentazione del tutto incompleta, in quanto non gli sono state consegnate le scritture contabili aggiornate, né la situazione contabile alla data del fallimento con l'elenco dei creditori e dei debitori della società". E ha evidenziato, ancora, che l'ultimo bilancio depositato era relativo all'esercizio 2009 e che tra la documentazione consegnata al curatore erano "state rinvenute le situazioni contabili relative al 2010, 2011 e al 2012, prive di documentazione di supporto". Orbene, come si desume dalla norma (che parla di sottrazione, distruzione o falsificazione, "in tutto o in parte" dei libri o delle altre scritture contabili) anche la parziale carenza di documentazione integra la fattispecie di cui alla prima parte dell'articolo 216, comma 1, n. 2, r.d. 267/1942. Tanto, peraltro, è stato di recente ribadito da questa Corte: "... non è necessario che detta omissione annotativa sia perdurata per tutta la vita dell'impresa, né che essa riguardi tutte le scritture contabili, ben potendo essere parziale, sia in riferimento all'oggetto che in riferimento allo sviluppo, potendo essa manifestarsi sia in senso diacronico che sincronico. Ciò, peraltro, emerge inequivocabilmente dal testo della disposizione normativa, che chiarisce come la condotta riguarda "...in tutto o in parte ..." le scritture contabili, potendo, quindi, manifestarsi attraverso la radicale carenza di tutte o di parte delle scritture e dei libri contabili e non in una loro tenuta lacunosa, connotata da omissioni annotative, come già detto in precedenza. Si è, inoltre, spiegato, ad ulteriore individuazione del discrimine tra le due fattispecie delineate dalla disposizione di cui all'art. 216, comma 1, n. 2, legge fallimentare, che la fraudolenta tenuta delle scritture, a dolo generico, presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi" (Sez. 5, n. 15743 del 18/01/2023, Rv. 284677 - 02, in motivazione). Nella specie, tuttavia, come detto, la Corte d'Appello ha correttamente (e conformemente all'accusa) rilevato (non la fraudolenta tenuta delle scritture consegnate, bensì) l'incompletezza della documentazione consegnata al fallimento (mancando, ad esempio, l'elenco dei creditori e dei debitori della società e la documentazione di supporto della contabilità degli anni 2010, 2011 e 2012): così restando pienamente nell'alveo della contestazione formulata. 1.3. Il terzo motivo (sulla non conformità della condanna al capo d'imputazione, laddove la prima aveva fatto riferimento all'intero debito verso enti pubblici, mentre il secondo era circoscritto al debito tributario, e sulla carente motivazione circa la contribuzione di quest'ultimo a determinare il dissesto societario) è infondato. Come si rammenta nello stesso ricorso, la Corte d'Appello ha correttamente evidenziato che, seppure il capo d'imputazione faccia riferimento alle "imposte" non pagate e al "debito tributario", lo stesso indichi quest'ultimo, poi, in concreto, nel complessivo importo di "Euro 868.380,86, costituente una parte consistente del passivo fallimentare (pari ad Euro 1.717.798,08)": importo che ingloba (in base alla documentazione in atti, in particolare in base alla parziale contabilità rinvenuta ed alle cartelle esattoriali) non solo i debiti tributari, ma anche ogni altro debito nei riguardi di enti pubblici. Da tanto, in modo del tutto logico, la Corte territoriale ha desunto che l'imputato non abbia avuto alcuna incertezza, al riguardo, né alcuna difficoltà a difendersi: non a caso neanche accennata in questa sede in modo specifico. Ad ogni modo, è noto che: "per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619; in termini, cfr. Sez. 3, n. 7146 del 04/02/2021, Ogbeifun Hope, Rv. 281477; Sez. 2, n. 34969 del 10/05/2013, Caterina e altri, Rv. 257782; Sez. 5, n. 9347 del 30/01/2013, Baj e altro, Rv. 255230; Sez. 6, n. 6346 del 09/11/2012, dep. 2013, Domizi e altri, Rv. 254888; nonché le motivazioni di Sez. 5, n. 31680 del 22/05/2015, Cantora, Rv. 264673)" (così riassume la giurisprudenza di questa Corte Sez. 5, n.19976 del 19/04/2024, non massimata). Insomma, ciò che rileva è verificare se l'imputato abbia potuto esercitare le proprie prerogative difensive, non solo nei riguardi di ciò che è indicato nel capo d'imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a sua conoscenza (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, Di Guglielmi, Rv. 257278; Sez. 3, n. 10742 del 15/2/2022, non massimata). Nella specie, come detto, nulla di concreto si dice, nel ricorso, sul reale pregiudizio al diritto di difesa di cui sarebbe stato vittima l'imputato. Anzi, risulta evidente che questi abbia avuto modo di interloquire su ogni aspetto della vicenda, chiaramente delineatosi nel corso dell'istruttoria. Quanto all'affermazione del curatore che la perdita di 867.000,00 Euro fosse stata determinata in prevalenza dalla contabilizzazione dei compensi in favore dell'amministratore (per Euro 770.000,00) e che su tale perdita (e sulla rilevanza, ai fini del fallimento, del menzionato debito nei riguardi di enti pubblici) la Corte d'Appello non abbia espresso la sua valutazione, la censura è manifestamente infondata, in fatto (atteso che è evidente che il curatore si riferisse al debito sin lì contabilizzato, non certo a quello complessivo che, anni dopo, aveva poi portato al fallimento, chiaramente indicato dal medesimo curatore, secondo la Corte d'Appello, in Euro 1.717.798,08), e, prima ancora, in diritto (non essendo possibile ripetere, in questa sede, la valutazione sui presupposti della dichiarazione di fallimento e, nello specifico, dello stato di insolvenza dell'impresa: Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, Rv. 239398): diversamente, si determinerebbe una impropria forma di impugnazione di una sentenza civile in sede penale (Sez. 5, n. 21920 del 15/03/2018 Rv. 273188; sez. 5, n. 16117 del 20/02/2024, non massimata; sez. 5, n. 17149 del 26/01/2024; sez. 5, n. 13784 del 07/02/2024, non massimata; Sez. 5, n. 49139 del 16/9/2019, non massimata). Insomma, non può riconoscersi pregio alle difese con cui si miri a mettere in discussione i presupposti della sentenza dichiarativa di fallimento. Le ragioni qui addotte sulla (asseritamente immotivata) declaratoria di fallimento avrebbero dovuto essere (eventualmente) vagliate nella competente sede civile, di certo non potendo rilevare in questa sede. 1.4. Manifestamente infondato è il quarto motivo di ricorso (circa la contraddittorietà o scarsa chiarezza dell'epoca in cui sarebbe stata annotata a debito la somma di Euro 770.000,00 nei conti della società). La sentenza impugnata afferma chiaramente, a pagina 11 (come assume lo stesso ricorrente), che l'appostazione in bilancio della detta somma, per compensi all'amministratore Za.Ma., sia avvenuta nel 2012. La successiva precisazione menzionata dal ricorrente, di cui a pagina 12 della medesima sentenza, ad un'attenta lettura non contraddice affatto tale dato, ma è volta a smentire semplicemente la tesi difensiva secondo cui con tale operazione lo Za.Ma. non avesse nulla a che fare, in quanto nel menzionato periodo egli non era più amministratore della società. La Corte d'Appello, nello smentire tale estraneità ("ciò per quanto emerso sia in ordine alla prossimità della manovra rispetto al formale passaggio di consegne, sia per essere palese come l'unico beneficiario dell'operazione sia stato lo stesso Za.Ma., sia per il ruolo dallo stesso mantenuto di amministratore di fatto sul quale ampiamente ci si è trattenuti"), non solo non contraddice quanto poco prima affermato, ma implicitamente lo conferma: atteso che il tema in discussione era proprio quello della contabilizzazione del debito subito dopo il passaggio di consegne Za.Ma.-Me.Br., rispetto al quale la sentenza impugnata, in tale punto, evidenzia proprio la "prossimità della manovra rispetto al formale passaggio di consegne" (avvenuta il 29/5/2012). Dunque, non v'è alcuna contraddizione al riguardo, né interna, né rispetto a quanto emergente dagli atti richiamati da parte ricorrente (in particolare, la relazione del curatore che, come rammenta parte ricorrente, colloca tale fatto nell'esercizio 2012). Quanto detto, infine, dà conto della manifesta infondatezza anche della doglianza secondo cui la Corte d'Appello non avrebbe motivato in alcun modo l'attribuzione allo Za.Ma. dell'appostazione a bilancio del debito di Euro 770.000,00 per compensi maturati dall'amministratore, la quale, per contro, risulta motivata e anche in modo del tutto logico, con tutti gli elementi richiamati dalla Corte d'Appello a sostegno del ruolo di reale dominus della società, in capo allo stesso Za.Ma. (come, peraltro, ammette indirettamente parte ricorrente, allorché nella menzionata memoria del 21/6/2024 parla di motivo "strettamente connesso con il primo", evidenziandone la rilevanza solo se si "ritenesse esclusa la qualità di amministratore di fatto in capo a Za.Ma.": pagina 8 della detta memoria). Da ultimo, l'argomento (che, per vero, non pare sollevato col motivo in esame, ma è ugualmente richiamato nella menzionata memoria di parte ricorrente) secondo cui si sarebbe in presenza della cosiddetta "bancarotta riparata", non essendo stata richiesta dallo Za.Ma. la somma di Euro 770.000,00 neanche in sede di insinuazione nel passivo fallimentare, risulta superato dalla considerazione del giudice d'appello secondo cui tale importo è stato certamente utilizzato dallo Za.Ma. in compensazione, allorché s'è reso cessionario del credito societario di cui ai menzionati canoni di affitto di azienda e locazione immobiliare (così depauperando la stessa società): ciò su cui i giudici di merito si sono abbondantemente spesi. 1.5 Il quinto motivo (omessa motivazione circa il beneficio economico derivante dalla stipula dei contratti di affitto d'azienda e locazione d'immobile e circa l'elemento soggettivo di tale reato) è anch'esso inammissibile, per manifesta infondatezza. Con esso, invero, ci si duole solo della valutazione di incongruità dei canoni di locazione, asseritamente non motivata, da parte della Corte d'Appello, laddove, però, quest'ultima ha affermato la responsabilità per il capo 4 anche (e soprattutto) in relazione al mancato incasso dei canoni, alla cessione del relativo credito in favore dello Za.Ma. (a soddisfo di un suo inesistente credito verso la società) ed alla cessione dell'unico bene aziendale di valore, per i creditori, allo stesso imputato o a terzi sempre a lui ricollegabili. In tal modo, la pronuncia s'è attenuta al costante (e logico) orientamento secondo cui: 2integra gli elementi costitutivi della bancarotta fraudolenta per distrazione la stipula, in epoca precedente la dichiarazione di fallimento, di un contratto di locazione di beni aziendali dell'impresa fallita senza che i relativi canoni siano versati nelle casse aziendali (Sez.5, n. 49489 del 15/06/2018, Filomeni, Rv. 274370), così come si perfeziona il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione nel caso di stipulazione di un contratto di affitto d'azienda in previsione del fallimento, allo scopo di trasferire la disponibilità di tutti o dei principali beni aziendali ad altro soggetto giuridico, in particolar modo quando l'affitto d'azienda determini la sostanziale inattività della società in decozione (sez. 5, n. 16748 del 13/02/2018, Morelli, Rv. 272841)" (sez. 5, n. 42403 del 26/09/2023, non massimata; così pure, tra le tante conformi: sez. 5, n. 4579 del 24/11/2023, dep. 2024, non massimata; sez. 5, n. 30528 del 22/04/2021, non massimata; Sez. 5, n. 12456 del 28/11/2019, dep. 2020, Porreca, Rv. 279044- 01). In maniera del tutto logica e, prima ancora, in nessun modo adeguatamente censurata, la sentenza impugnata non solo rimarca il "prezzo vile" delle cessioni, ma, soprattutto, stigmatizza la carenza di qualsivoglia attività riscossiva dei canoni e, come detto, la cessione del relativo credito al fine di soddisfare "i compensi "sine titulo" dell'amministratore" e, ancora, la stipulazione (da parte dell'imputato) "dei contratti con controparti palesemente fittizie ed, infine, con se stesso" (volta all'evidente scopo di sottrarre al fallimento il controllo dell'unico bene di rilievo per i creditori): tutti comportamenti (si ripete, non oggetto di censura alcuna) correttamente ritenuti dimostrativi dell'intento distrattivo di cui al quarto capo di imputazione (e di per sé sufficienti ad integrare, sotto i profili oggettivo e soggettivo, il delitto di bancarotta distrattiva fraudolenta). Quanto, in particolare, al dolo, la motivazione della Corte d'Appello esiste ed è assolutamente logica, avendo la stessa evidenziato "il carattere sistematico delle omissioni dei pagamenti e la rilevanza degli importi, lasciati lievitare nel tempo senza che emerga alcun proposito di sistemazione od operose iniziative idonee alla loro riduzione", ciò che dava "prova della sussistenza del dolo contestato", sin dal periodo in cui lo Za.Ma. era amministratore, a maggior ragione considerata la "circostanza che, nello stesso periodo, lo Za.Ma. provvedeva invece a registrare nei confronti della società i crediti relativi ai suoi compensi". In tal modo, la Corte d'Appello ha dato esatta contezza della precipua volontà dell'imputato (come detto, certamente amministratore di fatto della fallita) di distrarre dal patrimonio societario i crediti maturati per canoni di affitto e locazione, non a caso mai oggetto di alcuna iniziativa riscossiva, da parte del detto amministratore di fatto. Sicché, anche condotte attuate molto prima del fallimento sono state (correttamente) ritenute foriere dello stesso, in quanto preordinate alla duratura spoliazione delle uniche entrate di rilievo e poste in essere proprio nella piena consapevolezza di quale sarebbe stato l'esito finale della vita della società, considerato il ruolo (rimasto confermato, all'esito dell'esame della relativa doglianza) di reale dominus della fallita, in capo allo Za.Ma. 1.6 Da ultimo, manifestamente infondato è pure il sesto motivo di ricorso (sulla gravità del danno arrecato alla fallita), proprio in ragione delle considerazioni appena svolte. È evidente che l'omessa riscossione di crediti per centinaia di migliaia di Euro e le molteplici cessioni pluriennali dell'unico bene in grado di determinarli (così rendendone almeno difficoltoso lo sfruttamento economico e/o l'alienazione a soddisfo del ceto creditorio) costituiscano, di per sé stesse, la prova del danno patrimoniale di rilevante entità, senza che si debba ulteriormente argomentare all'uopo (emergendo ex se il rilevantissimo pregiudizio in tal modo determinato, anche indipendentemente da qualsivoglia ulteriore depauperamento). Ad ogni modo, la Corte d'Appello ed il Tribunale hanno ben spiegato che non vi fu solo l'appostazione in bilancio dell'importo di Euro 770.000,00, quale compenso dovuto all'amministratore Za.Ma., ma che tale credito (pacificamente inesistente, tanto da assumersene, in questa sede, l'omessa riscossione e sua richiesta in sede fallimentare) sia stato utilizzato dall'imputato per rendersi cessionario di altrettanti crediti societari, sottratti illecitamente alla fallita. Consegue, a quanto detto, l'esito in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 2.000, oltre accessori di legge. Così deciso in data 02 luglio 2024. Depositato in Cancelleria il 3 settembre 2024.
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