RITENUTO IN FATTO
1. E' proposto ricorso per cassazione nell'interesse di Q.O., C.A., P.R. e della " P.G. & Figli" S.r.l. avverso la sentenza della Corte di appello di Bari in data 22 ottobre 2021, che così ha deciso:
- quanto all'imputato Q.O., in riforma della sentenza di condanna nei suoi confronti pronunciata in data 22 marzo 2019 dal Tribunale di Bari, ha dichiarato non doversi procedere per i delitti di cui ai capi 1), 2), 9), sub a) e b), 15), 17), 22), 35), 39) perché estinti per intervenuta prescrizione, esclusa l'aggravante di cui all'art. 476 c.p., comma 2, con riguardo ai delitti di falso ideologico di cui ai capi 2), 17), 39); ha, invece, confermato la medesima sentenza: in riferimento alla condanna inflittagli per il delitto di cui agli artt. 81 cpv., 479 c.p. e art. 476 c.p., comma 2, di cui al capo 37), in relazione al quale ha rideterminato la pena in anni due e giorni quindici di reclusione; in riferimento alla confisca di tutti i suoi beni, eccetto l'immobile sito in (Omissis), fatta applicazione della norma di cui all'art. 578-bis c.p.p.; in riferimento alle statuizioni civili;
- quanto all'imputato C.A. ne ha confermato il proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 1, dichiarato nella sentenza di primo grado, per essere il reato ascrittogli, di cui al capo 31) sub 1), estinto per intervenuta prescrizione;
- quanto all'imputato P.R., in riforma della sentenza di condanna nei suoi confronti pronunciata, ha dichiarato non doversi procedere per il delitto di cui al capo 15) perché estinto per intervenuta prescrizione; ha confermato, invece, la medesima sentenza in riferimento alle statuizioni civili;
- quanto alla " P.G. & Figli" S.r.l., società chiamata a rispondere dell'illecito amministrativo di cui al capo D) dell'imputazione, ne ha in relazione ad esso confermato la condanna.
2. I motivi a sostegno dei ricorsi sono i seguenti (e saranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione secondo quanto stabilito dall'art. 173 disp. att. c.p.p.).
2.1. L'impugnativa nell'interesse di Q.O. consta di sei motivi.
- Il primo motivo denuncia la violazione dell'art. 521 c.p.p., art. 476 c.p., commi 1 e 2, art. 490 c.p., artt. 133 e 276 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 34, 35, 36 e 37 e art. 238-bis c.p.p. in relazione alla conferma della condanna inflitta all'imputato per i delitti di falso ideologico e di soppressione di atto pubblico di cui al capo 37) dell'imputazione, per avere, in concorso con il Presidente della Seconda Sezione della Commissione Tributaria Regionale Puglia - Sezione di Bari -, D.A., nel contenzioso J.G.-Agenzia delle Entrate, soppresso il dispositivo, emesso in data 2 dicembre 2008 in esito alla Camera di consiglio, riportante decisione favorevole all'Agenzia delle Entrate - che veniva sostituito con altro, riportante una decisione emessa nella stessa data ma di contenuto sfavorevole all'Agenzia delle Entrate - e formava una sentenza (n. 95/02/2008) di contenuto non corrispondente al deliberato della Camera di consiglio, materialmente redatta dal Presidente D. e da lui sottoscritta in qualità di estensore.
E' dedotta: 1) l'assenza di una valida contestazione dell'aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 476 c.p., comma 2, suscettibile di incidere sulla determinazione del tempo necessario a prescrivere il reato, non potendosi ritenere tale, alla stregua del diritto vivente, quella effettuata con il mero riferimento alla disposizione citata; 2) l'insussistenza dei presupposti in fatto richiesti per l'integrazione dei delitti contestati, posto che, secondo la normativa extra-penale evocata, la sentenza, sia essa civile o tributaria, acquista esistenza, efficacia e valore all'esterno, non quando viene scelto il dispositivo nel segreto della Camera di consiglio, ma quando è resa pubblica mediante il deposito nella cancelleria o nella segreteria del giudice, di modo che rimangono irrilevanti l'estensore della minuta di decisione, la data dell'adozione della stessa e il relativo dispositivo redatto in esito alla Camera di consiglio; 3) il difetto di prova in ordine all'ignoranza da parte del terzo membro del collegio giudicante del sovvertimento della decisione adottata in esito alla Camera di consiglio; 4) l'inconciliabilità del giudicato di assoluzione dai delitti rubricati, formatosi con riguardo a D.A., nei cui confronti si è proceduto separatamente, con la condanna pronunciata nei confronti di Q..
- Il secondo motivo denuncia la violazione dell'art. 240-bis c.p. e art. 578-bis c.p.p., in relazione all'art. 111 Cost., in riferimento al mancato adempimento dell'obbligo di motivazione a sostegno della disposta confisca dei beni del ricorrente.
E dedotto: 1) che l'assenza, nella sentenza di primo grado, di motivazione in ordine all'applicazione della detta misura ablatoria, non sarebbe stata sanabile dal giudice di appello con propria autonoma motivazione, tanto non essendogli consentito neppure ai sensi dell'art. 578-bis c.p.p., norma questa non applicabile retroattivamente in ragione della natura sostanzialmente sanzionatoria della confisca allargata; 2) che il giudizio di sproporzione delle disponibilità patrimoniali dell'imputato rispetto ai redditi da lui dichiarati ai fini delle imposte, sarebbe stato erroneamente formulato, perché non si sarebbe tenuto conto: a) delle somme già pagate dal Q. in esecuzione del ravvedimento operoso, posto che la stessa norma di cui all'art. 240-bis c.p. prescrive che il condannato può giustificare la legittima provenienza dei beni acquistati con il provento dell'evasione fiscale nel caso in cui "l'obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge"; b) della minor somma dovuta all'Erario a titolo di imposta evasa, atteso che secondo la stessa dizione normativa il denaro utilizzato per acquistare i beni oggetto di confisca deve essere solo quello "provento o reimpiego dell'evasione fiscale"; c) delle somme mutuate al ricorrente dalla convivente more-uxorio, in adempimento di un dovere di solidarietà reciproca e la cui restituzione costituiva oggetto solo di un'obbligazione naturale, e delle somme ricevute a titolo ereditario.
- Il terzo motivo denuncia la violazione dell'art. 597 c.p.p. e dell'art. 323-bis c.p. e il vizio di motivazione, posto che la Corte territoriale avrebbe rideterminato la relativa pena, concedendo, si, le attenuanti generiche ma senza applicare l'ulteriore riduzione derivante dall'applicazione dell'attenuante speciale di cui all'art. 323-bis c.p., riconosciuta dal Tribunale.
- Il quarto motivo denuncia la violazione dell'art. 319-ter c.p., in relazione ai delitti di cui ai capi 9), sub a) e b), 15), 22) e 35), pur dichiarati estinti per prescrizione, perché la corruzione in atti giudiziari non è applicabile al processo tributario, pena l'inosservanza dei principi di legalità e tassatività.
- Il quinto e il sesto motivo contestano la conferma delle statuizioni civili e della declaratoria di falsità delle sentenze meglio indicate in dispositivo.
2.2. L'impugnativa nell'interesse di C.A. consta di un solo motivo, che denuncia la violazione degli artt. 357 e 319 c.p. e il vizio di motivazione, in relazione alla conferma del proscioglimento dell'imputato dal delitto di corruzione, di cui al capo 31) n. 1, pronunciato dal Tribunale per estinzione del reato per prescrizione.
E' dedotta la manifesta insussistenza del delitto di corruzione - integrato, secondo la contestazione, dall'avere l'Avvocato C., da difensore dei contribuenti ricorrenti G.T. ed altri, promesso e, in parte, consegnato ad Q.O. somme di denaro affinché questi "influisse" (così, testualmente, pag. 1 del ricorso) sul collegio competente della Commissione Tributaria Provinciale di Bari o, comunque, "interferisse" in vista dell'assegnazione del ricorso tributario ad un collegio compiacente (così, a pag. 3 del ricorso), in modo che venisse adottata una decisione favorevole alle parti da lui rappresentate: ciò sul duplice rilievo che non era stato chiarito, specificamente, in che modo, concretamente, Q., giudice incardinato nella Commissione Tributaria Regionale di Bari, avrebbe potuto influire sui funzionari responsabili dell'assegnazione del ricorso - C. e R., i quali, tra l'altro, erano stati anche assolti - ad un collegio compiacente della Commissione Tributaria Provinciale di Bari, ma non si era neppure tenuto conto del principio di diritto secondo cui, stante la natura di reato proprio del delitto di corruzione, lo stesso non può essere realizzato da un pubblico agente nella cui sfera di competenza o di influenza non rientri il compimento dell'atto oggetto di mercimonio, come nel caso di Q..
2.3 L'impugnativa nell'interesse di P.R. consta di tre motivi.
- Il primo motivo denuncia vizio di motivazione, in ragione dell'insanabile contrasto tra l'affermazione di responsabilità del ricorrente per il fatto di corruzione in atti giudiziari di cui al capo 15) - ossia, per avere remunerato Q.O., giudice della Commissione Tributaria Regionale di Bari, con l'intermediazione di T.G., per il compimento di atti contrari al proprio ufficio posti in essere da Q. per favorire la " P.G. & Figli" S.r.l. (di cui P.R. era legale rappresentante) in un contenzioso tributario, provvedendo al pagamento del soggiorno del giudice e di altre due persone per la durata di nove giorni presso l'"Hotel Kalidria" di (Omissis) - e l'assoluzione di T.G. dall'accusa di concorso nel medesimo fatto corruttivo, coperta da giudicato. Peraltro, poiché il tema dedotto era stato devoluto al giudice di appello con specifici motivi di impugnazione, questi avrebbe avuto l'obbligo di esaminarli e, se del caso, di respingerli confutandone le argomentazioni a sostegno.
- Il secondo motivo denuncia vizio di motivazione, sul rilievo dell'assenza di prova della finalizzazione del pagamento del soggiorno di Q. ed altri presso l'"Hotel Kalidria" da parte della " P.G. & Figli" S.r.l. alla remunerazione degli atti contrari al proprio ufficio compiuti dal beneficiario del soggiorno, quale giudice della Commissione Tributaria Regionale, onde favorire la società in contenziosi tributari. E' dedotto che le dichiarazioni auto ed etero accusatorie rese da Q.O., unico elemento di prova a sostegno dell'ipotizzata corruzione susseguente (in riferimento all'adozione in data 8 aprile 2008 da parte della Commissione Tributaria Regionale di Bari di una decisione favorevole alla " P.G. & Figli" S.r.l., tradotta in una sentenza di cui Q. era stato l'estensore) non sarebbero state valutate secondo i criteri stabiliti dall'art. 192 c.p.p., comma 3: infatti, premessa la riconosciuta inattendibilità delle propalazioni di Q., queste, in ogni caso, non sarebbero state utilmente riscontrate dalla sentenza dell'8 aprile 2008, deliberata con l'apporto del dichiarante, trattandosi dello stesso oggetto di mercimonio, di modo che sarebbe stato indispensabile accertare lo specifico nesso sinallagmatico esistente tra l'adozione della sentenza stessa e la remunerazione dell'intervento di Q. tramite il pagamento del soggiorno - vacanze.
- Il terzo motivo denuncia vizio di motivazione in relazione alla conferma delle statuizioni civili contenute nella sentenza di primo grado.
E' dedotto che: 1) la condanna generica del ricorrente al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, subiti dalle parti civili costituite per effetto delle condotte tenute si sarebbe dovuta revocare perché nessuna delle parti civili aveva partecipato al giudizio di appello e, di conseguenza, non aveva rassegnato conclusioni; 2) che, in ogni caso, sarebbe illogico il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale in ordine al riconoscimento del danno patito dalle parti civili, posto che la sentenza emessa dalla Commissione Tributaria Regionale di Bari n. 2799/2018, depositata in data 24 settembre 2018, medio tempore divenuta irrevocabile, darebbe conto dell'insussistenza di qualsivoglia ipotesi di danno alle finanze pubbliche, come del resto già evincibile dal provvedimento di revoca del sequestro preventivo adottato nei confronti della " P.G. & Figli" S.r.l..
2.4. L'impugnativa nell'interesse della " P.G. & Figli" S.r.l. consta di tre motivi.
- I primi due motivi, che denunciano vizio di motivazione in punto di sussistenza del reato presupposto dell'illecito amministrativo contestato all'ente ricorrente - ossia quello di cui al capo D), perché, a seguito della commissione del reato di corruzione da parte di P.R. (vale a dire il reato di cui al capo 15), conseguiva l'indebito profitto di Euro 2.498.769,80, derivante dal mancato pagamento della pretesa erariale derivante dalle contestazioni fiscali; illecito perpetrato per non avere, prima della commissione del fatto ascritto a P.R., adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire la commissione di reati della stessa specie di quello verificatosi, così traendo dalla condotta delittuosa dell'"apicale" P.R., che non aveva agito nell'interesse proprio o di terzi, un profitto di rilevante entità - sono affidati a deduzioni identiche a quelle articolate a sostegno dei primi due motivi di ricorso nell'interesse di P.R., di modo che all'enunciazione di essi, come effettuata nel punto 2.3. che precede, può farsi integrale e recettizio rinvio.
- Il terzo motivo denuncia violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 11 e 12 e vizio di motivazione in punto di determinazione dell'importo delle quote della sanzione pecuniaria irrogata all'ente imputato in relazione all'illecito contestatogli.
E' dedotto, a sostegno: 1) che l'accertamento compiuto nella sentenza emessa dalla Commissione Tributaria Regionale di Bari n. 2799/2018, depositata in data 24 settembre 2018, medio tempore divenuta irrevocabile, dimostrerebbe l'insussistenza di qualsivoglia ipotesi di danno alle finanze pubbliche, cagionato dal fatto corruttivo dell'"apicale" P.R. commesso nell'interesse dell'ente, come del resto già comprovato dalla revoca del sequestro preventivo adottato nei confronti della " P.G. & Figli" S.r.l.; 2) che, in ogni caso, nel giudizio relativo alla gravità del fatto, a dispetto del principio di autonomia tra la condotta della persona fisica imputata e la condotta dell'ente, si sarebbe unicamente valutato il disvalore della prima, senza neppure tener conto dell'attività svolta dall'ente per eliminare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti.
3. Chiesta tempestivamente la trattazione orale dei ricorsi, la stessa è stata ritualmente accordata.
4. Tramite PEC in data 6 ottobre 2023 l'Avvocatura Generale dello Stato ha fatto pervenire memoria difensiva con allegate conclusioni nell'interesse delle parti civili Ministero dell'Economia e delle Finanze, Agenzia delle Entrate - Direzione Regionale Puglia - e Agenzia delle Entrate - Direzione Provinciale Barletta, Andria, Trani; Tramite PEC in data 22 ottobre 2023 l'Avvocato Ghiro ha depositato memoria difensiva con allegate conclusioni nell'interesse di Q.O..
5. Su sollecitazione del difensore è stato acquisito il certificato di morte di P.R., intervenuta in (Omissis).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. L'intervenuto decesso, in data (Omissis), come da certificato in atti, di P.R. impone l'immediata dichiarazione di estinzione del reato (quello di cui al capo 15) per il quale è già intervenuta declaratoria di estinzione per prescrizione. Non e', infatti, consentito al Collegio, essendo sopravvenuto il decesso dell'imputato, esaminare il relativo ricorso, trattandosi di causa estintiva del rapporto processuale che preclude ogni eventuale pronuncia di proscioglimento nel merito ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 2, (Sez. U, n. 49783 del 24/09/2009, Martinenghi, Rv. 245162; Sez. 5, n. 10696 del 16/12/2021, dep. 2022; Sez. 3, n. 23906 del 12/05/2016, Rv. 267384; Sez. 1, n. 24507 del 09/06/2010, Rv. 247790). Ciò vale anche nel caso di ricorso per cassazione presentato ai soli effetti civili, posto che il giudice dell'impugnazione penale (nella specie, la Corte di cassazione) non può decidere ai soli effetti civili ex art. 578 c.p.p. nel caso di morte dell'imputato, atteso che la possibilità di deliberare sulla pretesa civilistica fatta valere nel processo è limitata soltanto all'estinzione del reato per amnistia o prescrizione e, per il carattere speciale della disciplina, non può essere analogicamente estesa ad altre cause estintive (Sez. 4, n. 25532 del 16/01/2019, Rv. 276339; Sez. 4, n. 31314 del 23/06/2005, Rv. 231745; Sez. 6, n. 12537 del 05/10/1999, Rv. 216394).
Tanto comporta l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti di P.R., essendo il reato ascrittogli estinto per morte dell'imputato.
2. Il ricorso nell'interesse di Q.O. è inammissibile.
2.1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
2.1.1. L'aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 476 c.p., comma 2, suscettibile di incidere sulla determinazione del tempo necessario a prescrivere i reati di soppressione di atto pubblico e di falso ideologico in atto pubblico di cui al capo 37) dell'imputazione, è stata validamente contestata.
Le Sezioni Unite di questa Corte, infatti, con la sentenza n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, Rv. 275436, hanno affermato che, in tema di reato di falso in atto pubblico, la fattispecie aggravata di cui all'art. 476 c.p., comma 2, che ricorre nel caso in cui "la falsità concerne un atto, o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso", può ritenersi legittimamente contestata, sì che può essere ritenuta in sentenza dal giudice, qualora nel capo d'imputazione la natura fidefacente dell'atto sia esposta attraverso l'indicazione della relativa norma.
Al riguardo, è stato spiegato che la componente valutativa dell'aggravante in parola esige una compiuta contestazione, che può dirsi validamente operata laddove la "ritenuta natura fidefacente dell'atto oggetto della condotta di falso, sia esplicitata con l'indicazione nell'imputazione della norma di cui all'art. 476 c.p., comma 2, che, essendo detta norma specificamente ed esclusivamente riferita alla previsione della circostanza aggravante, identifica inequivocabilmente quest'ultima come inclusa nella contestazione" (in motivazione, pag. 13, primo capoverso).
2.1.2. La censura che denuncia l'insussistenza nella fattispecie concreta, descritta al capo 37) della rubrica, dei presupposti richiesti per l'integrazione dei delitti di soppressione di atto pubblico fidefacente e di falso ideologico in atto pubblico fidefacente è infondata.
I giudici di merito di entrambi i gradi hanno ritenuto provate le condotte contestate ad Q.O.: ossia, quelle di avere, da giudice della Commissione Tributaria Regionale di Bari nel contenzioso J.G. contro Agenzia delle Entrate, una volta modificata, in concorso con il Presidente del Collegio giudicante, Dott. D.A., la decisione, assunta in Camera di consiglio in data 2 dicembre 2008, sfavorevole al contribuente ricorrente, soppresso il dispositivo emesso a seguito della stessa, sostituendolo con altro, e di avere, nella stessa qualità, sottoscritto nella veste di estensore la relativa sentenza, ancorché redatta materialmente dal Presidente D..
In particolare, in riferimento alla questione della loro sussunzione nelle fattispecie astratte di cui agli artt. 476,479,490 c.p. e art. 476 c.p., comma 2, la Corte territoriale, richiamate le norme di cui:
- al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 35 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nella L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 30), che stabilisce che "1. Il collegio giudicante, subito dopo la discussione in pubblica udienza o, se questa non vi è stata, subito dopo l'esposizione del relatore, delibera la decisione in segreto nella Camera di consiglio" e che ""3. Alle deliberazioni del collegio si applicano le disposizioni di cui all'art. 276 c.p.p., e segg.";
- all'art. 36 dello stesso decreto, che stabilisce che "2. La sentenza deve contenere: 1) l'indicazione della composizione del collegio, delle parti e dei loro difensori se vi sono", nonché "... la data della deliberazione" e deve essere "sottoscritta dal presidente e dall'estensore";
- all'art. 37 del medesimo testo normativo, che stabilisce che "La sentenza è resa pubblica, nel testo integrale originale, mediante deposito nella segreteria della corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado entro trenta giorni dalla data della deliberazione. Il segretario fa risultare l'avvenuto deposito apponendo sulla sentenza la propria firma e la data";
- agli artt. 118 e 119 disp. att. c.p.c. (applicabili al processo tributario in forza della disposizione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, "I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile"), che stabiliscono che "La scelta dell'estensore della sentenza prevista nell'art. 276 c.p.p., u.c., è fatta dal presidente tra i componenti il collegio che hanno espresso voto conforme alla decisione" e che "L'estensore deve consegnare la minuta della sentenza da lui redatta al presidente del tribunale o della sezione. Il presidente, datane lettura, quando lo ritiene opportuno, al collegio, la sottoscrive insieme con l'estensore e la consegna al cancelliere, il quale scrive il testo originale a norma dell'art. 132 del codice";
ha evidenziato come, in forza del principio della collegialità perfetta, per il quale la decisione di un organo giudiziario plurale è atto unitario, cui pariteticamente concorrono tutti i membri del consesso, la sentenza, depositata e resa pubblica in data 16 dicembre 2008 nel contenzioso J.G.-Agenzia delle Entrate, doveva ritenersi ideologicamente falsa perché in essa si attestava: 1) che alla decisione avevano partecipato tutti i membri del collegio, indicati nell'intestazione; 2) che estensore ne era stato il giudice Q. - già relatore del ricorso in Camera di consiglio -; 3) che la decisione era stata assunta all'esito della Camera di consiglio tenutasi il 2 dicembre 2008, quando, invece, la stessa era stata redatta dal presidente del collegio, D., che aveva sovvertito la decisione adottata in camera, rendendola da sfavorevole a favorevole al contribuente ricorrente, senza riconvocare il collegio e che si era poi accordato con Q. affinché questi la sottoscrivesse da estensore e vi apponesse, quale data della decisione, quella in cui si era tenuta la Camera di consiglio.
Ha, pure, sottolineato che, quand'anche il dispositivo, redatto in Camera di consiglio ex art. 276 c.p.c., u.c., non abbia rilevanza giuridica esterna, ciò non toglie che si tratti, comunque, di atto pubblico dotato di rilevanza giuridica e di fede privilegiata, in esso attestando il presidente di un collegio giudicante che la deliberazione ha effettivamente avuto luogo all'esito di una Camera di consiglio espressasi nella decisione in esso trasfusa: da qui l'integrazione del delitto di soppressione di atto vero.
A sostegno il giudice di appello ha evocato gli arresti della giurisprudenza civile di legittimità, secondo cui la querela di falso, avendo lo scopo di privare il documento dell'efficacia probatoria qualificata che gli è attribuita dalla legge, può investire anche una sentenza, purché attenga a ciò di cui la stessa fa fede quale atto pubblico, ossia alla provenienza del documento dall'organo che l'ha sottoscritta, alla conformità al vero di quanto risulta dalla veste estrinseca del documento (data, sottoscrizione, composizione del collegio giudicante, ecc.) ed a ciò che il giudicante attesta essere avvenuto in sua presenza, e quelli della giurisprudenza penale di legittimità, secondo cui, ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico, la nozione di atto pubblico comprende non solo gli atti destinati ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, ma anche gli atti c.d. interni.
Tanto riportato della decisione impugnata, deve riconoscersi che le argomentazioni sviluppate a sostegno della conferma della condanna pronunciata nei confronti di Q.O. per i delitti ascrittigli al capo 37) della rubrica non contengono alcun errore di diritto.
2.1.2.1. Infatti, le stesse si sono conformate alla giurisprudenza civile di questa Corte, che ha pacificamente affermato che una sentenza fa fede fino a querela di falso con riferimento alla provenienza del documento dall'organo che l'ha sottoscritta, alla conformità al vero di quanto risulta dalla veste estrinseca del documento (data, sottoscrizione, composizione del collegio giudicante, ecc.) ed a ciò che il giudicante attesta essere avvenuto in sua presenza (Sez. 2-civ., n. 24007 del 12/10/2017, Rv. 645587; Sez. 3-civ., n. 2637 del 05/02/2013, Rv. 625411; Sez. 2-civ., n. 10282 del 29/04/2010, Rv. 612612); principio, questo, certamente applicabile alle sentenze emesse nell'ambito del giudizio tributario in virtù di quanto stabilito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 35, comma 3, secondo cui "3. Alle deliberazioni del collegio si applicano le disposizioni di cui all'art. 276 c.p.c., e segg." (oltre che in forza della disposizione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, che stabilisce che "I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile").
Al riguardo è stato spiegato che "La querela di falso ha lo scopo di privare un documento dell'efficacia probatoria qualificata che gli è attribuita dalla legge (art. 2700 c.c., art. 2702 c.c., e s.s.). In quanto tale, essa ben può investire anche una sentenza, purché attenga a ciò di cui la sentenza stessa fa fede quale atto pubblico, cioè alla provenienza del documento dall'organo che l'ha sottoscritta, alla conformità al vero di quanto risulta dalla veste estrinseca del documento - data, sottoscrizione, composizione del Collegio giudicante, ecc. - e di ciò che il giudicante attesta essere avvenuto in sua presenza (cfr. per tutte Cass. civ. 25 maggio 2006 n. 12386). La sentenza non certifica invece fino a querela di falso la correttezza intrinseca della decisione assunta, quanto agli accertamenti in fatto, alla valutazione delle prove, all'interpretazione degli atti di parte ed in genere a tutto ciò che è frutto di un giudizio e che, in quanto tale, è soggetto ai mezzi di impugnazione espressamente previsti dalla legge" (Sez. 3-civ., n. 2637 del 05/02/2013, in motivazione, pagg. 7 e 8).
Ne viene che, incontestata "la ricostruzione "storica" dei fatti sub capo 37)", in quanto non posta in discussione neppure con i motivi di appello (cfr. pag. 26, ultimo capoverso della sentenza impugnata), in disparte un generico riferimento, in seno al presente motivo di ricorso, al difetto di prova in ordine all'ignoranza da parte del terzo membro del collegio giudicante del sovvertimento della decisione adottata in esito alla Camera di consiglio, la qualificazione giuridica dei fatti medesimi è ineccepibile; donde, è anche possibile affermare il seguente principio di diritto: "In tema di falsità documentale, integra il delitto di falso ideologico in atto pubblico fidefacente l'attestazione non corrispondente al vero, contenuta in una sentenza, circa la data della decisione, la sua provenienza dall'organo decidente in una determinata composizione e in ordine a tutto ciò che il giudicante indica come avvenuto in sua presenza".
2.1.2.11. Parimenti manifestamente infondata è la deduzione con la quale si nega l'integrazione del delitto di cui all'art. 490 c.p., in relazione all'art. 476 c.p., comma 2, con riferimento alla soppressione del dispositivo emesso nel contenzioso J. c/Agenzia delle Entrate in esito alla Camera di consiglio del 2 dicembre 2008, sul rilievo che il detto dispositivo non è atto dotato di rilevanza esterna.
Risponde al vero che la giurisprudenza civile di legittimità ha fin qui insegnato che "il dispositivo redatto in Camera di consiglio ex art. 276 c.p.c., u.c., non ha rilevanza giuridica esterna ma solo valore interno, poiché l'esistenza della sentenza civile è determinata - salvo che nelle controversie assoggettate al rito del lavoro ovvero a riti ad esso legislativamente equiparati o specialmente disciplinati - dalla sua pubblicazione mediante deposito nella cancelleria del giudice che l'ha pronunciata, sicché è valida la sentenza ancorché agli atti non risulti la presenza di un dispositivo, sottoscritto dal presidente, mancando, tanto più, la previsione di un corrispondente vizio nella citata norma" (ex multis, Sez. 3 - Civ., n. 4430 del 11/02/2022, Rv. 663925; Sez. 1 - Civ., n. 33323 del 21/12/2018; Sez. 1-Civ., n. 22113 del 29/10/2015; Sez. 3-Civ., n. 394 del 07/02/1959), tuttavia l'enunciazione di tale principio non esclude la natura di atto pubblico del dispositivo redatto ai sensi dell'art. 276 c.p.c., u.c..
Invero, premesso che il concetto di atto pubblico e', agli effetti della tutela penale, più ampio di quello desumibile dall'art. 2699 c.c., di modo che rientrano in detta nozione pure gli atti, formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato nell'esercizio delle loro funzioni, aventi l'attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione e, quindi, anche gli atti preparatori di una fattispecie documentale complessa, a prescindere che il loro contenuto venga integralmente trasfuso nell'atto finale del pubblico ufficiale o ne venga a costituire solo il presupposto implicito necessario (Sez. 5, n. 37880 del 08/09/2021, Rv. 282028; Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, dep. 2019, Rv. 275415), deve darsi atto di come sia consolidato orientamento interpretativo della giurisprudenza penale di legittimità quello secondo il quale " costituiscono atti pubblici non solo quelli destinati ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, ma anche gli atti cosiddetti interni, cioè, sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, sia quelli che si collocano nel contesto di un complesso "iter" - conforme o meno allo schema tipico - ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi" (così Sez. 5, n. 11914 del 15/11/2019, dep. 2020, in motivazione, che richiama Sez. 5, n. 38455 del 10/05/2019, Rv. 27709201; Sez. 5, n. 9368 del 19/11/2013, Rv. 258952; Sez. 5, n. 4322 del 06/11/2012, Rv. 254388; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Rv. 249858; Sez. 5, n. 7636 del 12/12/2006, Rv. 236515).
Alla stregua di tali indicazioni direttive non e', allora, possibile dubitare del fatto che il dispositivo emesso ai sensi dell'art. 276 c.p.c., u.c., sia atto pubblico fidefacente, in quanto destinato a provare, fino a querela di falso, che la decisione in esso riportata corrisponda a quella adottata in esito alla discussione in Camera di consiglio, svoltasi in una certa data tra i componenti di un determinato collegio giudicante: e ciò senza che rilevi la mancanza di attitudine attestativa o probatoria esterna, assumendo, piuttosto, significato decisivo unicamente il dato del suo essere un segmento di una sequenza procedimentale che trova il suo sbocco nella pubblicazione della decisione mediante il deposito del provvedimento del giudice civile.
Può, dunque, affermarsi che è atto pubblico fidefacente, sia pure a rilevanza interna, il dispositivo di un provvedimento del giudice civile redatto in Camera di consiglio ex art. 276 c.p.c., u.c..
2.1.3. Manifestamente infondata e', infine l'eccezione di inconciliabilità del giudicato di assoluzione dai delitti rubricati, formatosi con riguardo al concorrente D.A. - per effetto della irrevocabilità della sentenza della Corte di appello di Bari del 15 luglio 2018 -, nei cui confronti si è proceduto separatamente con giudizio abbreviato, con la condanna pronunciata nei confronti di Q. in esito a giudizio dibattimentale.
In disparte il rilievo contenuto nella sentenza impugnata secondo cui le risultanze processuali esaminate nel processo celebrato a carico di D. erano "in parte, diverse da quelle che aveva a disposizione il giudice" della sentenza di condanna emessa nei confronti di Q. (cfr. pag. 32, punto 6^, della sentenza impugnata), devesi, comunque, ribadire che, nell'ipotesi di autonomi giudizi relativi ad un medesimo fatto storico, non trova applicazione il principio della pregiudizialità penale, essendo il giudice del diverso procedimento solo tenuto a motivare espressamente circa le ragioni per le quali è pervenuto a diverse conclusioni rispetto al giudizio già definito in precedenza, la cui decisione è elemento da valutare ai sensi dell'art. 238-bis c.p.p. (Sez. 1, n. 18343 del 21/12/2016, dep. 2017, Rv. 270658): tanto perché, nel codice di procedura penale vigente, le questioni pregiudiziali sono state ridotte a quelle relative allo stato di famiglia e alla cittadinanza e gli artt. 651,652,653 e 654 c.p.p. regolano soltanto l'efficacia delle sentenze penali di condanna o di assoluzione nel giudizio civile, amministrativo e disciplinare, mentre non è prevista né regolata l'efficacia delle sentenze penali di assoluzione in altro o nello stesso giudizio penale, di modo che quanto accertato nella precedente pronuncia penale non fa stato in quello successivo (Sez. 6, n. 4609 del 03/02/1995, Rv. 201147).
Fermo, pertanto, il principio di diritto secondo cui le risultanze di un precedente giudicato penale acquisite ai sensi dell'art. 238-bis c.p.p. devono essere valutate alla stregua della regola probatoria di cui all'art. 192 c.p.p., comma 3, ovvero come elemento di prova la cui valenza, per legge non autosufficiente, deve essere corroborata da altri elementi di prova che lo confermino (Sez. 1, n. 4704 del 08/01/2014, Rv. 259414), va riaffermato che le risultanze di un precedente giudicato penale, acquisite ai sensi dell'art. 238-bis c.p.p., impongono al giudice che giunga a diverse conclusioni sulla base di una differente valutazione giuridica dei medesimi fatti, di giustificare specificamente la conciliabilità del diverso esito, restando esclusa, tuttavia, la possibilità di contraddire la già accertata verificazione del medesimo fatto storico (Sez. 3, n. 36907 del 15/10/2020, Rv. 280278).
Nel caso di specie, a tale obbligo di motivazione specifica il giudice della sentenza impugnata ha certamente adempiuto, come dimostrato dalle diffuse e puntuali argomentazioni sviluppate nelle pagine da 27 a 50 della sentenza impugnata, che non contraddicono affatto l'esistenza del fatto storico, pacificamente accertato in entrambe le decisioni poste a raffronto, le quali divergono esclusivamente nella valutazione di rilevanza penale dello stesso.
2.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
2.2.1. La Corte di appello, pur avendo prosciolto Q.O. dai delitti di corruzione in atti giudiziari di cui ai capi 1), 9), sub a) e b), 15), 22) e 35), perché estinti per intervenuta prescrizione, in applicazione della norma di cui all'art. 578-bis c.p.p., ha confermato, la confisca, disposta nei suoi confronti ai sensi del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, conv. in L. n. 356 del 1992 (ora riprodotto nell'art. 240-bis c.p.), su beni di sua proprietà, già sottoposti a sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p., comma 2; segnatamente di somme di denaro fino alla concorrenza di Euro 68.000,00 nonché di due unità immobiliari (appartamento sito in (Omissis) e appartamento sito in (Omissis)).
Ha motivato la statuizione assunta, premettendo di dovere concentrare il proprio sindacato sulla sola "confisca immobiliare": infatti, "il motivo di appello sub 5) era esplicitamente ed esclusivamente riferito al "capo relativo alla confisca immobiliare disposta in danno del Q.", mentre nessuna questione era stata, invece, sollevata - se "non nella memoria in data 26 aprile 2021 e in termini giuridicamente impropri" - in relazione alla confisca per equivalente, che pure aveva attinto beni in sequestro dell'imputato, per un valore di Euro 68.000,00 (cfr. pag. 205, primo e secondo capoverso della sentenza impugnata).
Ha, quindi, evidenziato, rispetto al giudizio di sproporzione tra i beni immobili detenuti da Q.O. e i redditi da lui dichiarati, come nell'arco di tre anni - compreso tra l'acquisto dell'immobile di Via (Omissis) in data 4 luglio 2007 al prezzo di Euro 320.000,00 e l'acquisto dell'immobile di Via (Omissis) in data 24 marzo 2010 al prezzo di Euro 300.000,00 -, coincidente, peraltro, con il periodo in cui erano stati commessi i fatti di corruzione contestati, l'imputato avesse affrontato un esborso monetario per almeno 620.000,00 senza che avesse la capacità reddituale per affrontarlo, posto che le formulate deduzioni difensive spiegate per assolvere all'onere di giustificare la provenienza della provvista utilizzata (somme di derivazione ereditaria o finanziategli dalla convivente more uxorio) - non erano appaganti, anche perché ai fini del calcolo del reddito non era consentito tenere conto delle somme versate all'Erario a titolo di ravvedimento per sanare debiti tributari (cfr. in particolare, pag. 201 della sentenza impugnata).
2.2.2. Tanto riportato delle argomentazioni rassegnate dal giudice censurato, le doglianze articolate con il motivo in disamina devono essere respinte per le seguenti ragioni.
2.2.2.1. E' manifestamente infondata la deduzione secondo la quale l'assenza, nella sentenza di primo grado, di motivazione in ordine all'applicazione della misura ablatoria, non sarebbe stata sanabile dal giudice di appello con propria autonoma motivazione. Il diritto vivente ha, infatti, statuito che la mancanza assoluta di motivazione della sentenza non rientra tra i casi, tassativamente previsti dall'art. 604 c.p.p., per i quali il giudice di appello deve dichiarare la nullità della sentenza appellata e trasmettere gli atti al giudice di primo grado, ben potendo lo stesso provvedere, in forza dei poteri di piena cognizione e valutazione del fatto, a redigere, anche integralmente, la motivazione mancante (Sez. U, n. 3287 del 27/11/2008, dep. 2009, R., Rv. 244118).
2.2.2.2. E', parimenti, manifestamente infondata la deduzione secondo la quale la norma di cui all'art. 578-bis c.p.p. non sarebbe stata applicabile retroattivamente in ragione della natura sostanzialmente sanzionatoria della confisca allargata.
Al riguardo, deve ribadirsi che la confisca cd. "allargata" (introdotta dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12-sexies, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356), ora disciplinata dall'art. 240-bis c.p., ha natura di misura di sicurezza (Sez. 2, n. 15551 del 04/11/2021, dep. 2022, Rv. 283384; Sez. 2, n. 6587 del 12/01/2022, Rv. 282690), salva l'ipotesi di confisca allargata per equivalente disciplinata specificamente dall'art. 240-bis c.p., comma 2, secondo cui: "Nei casi previsti dal comma 1, quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui allo stesso comma, il giudice ordina la confisca di altre somme di denaro, di beni e altre utilità di legittima provenienza per un valore equivalente, delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona".
La delineata distinzione tra la confisca "allargata" di cui all'art. 240-bis c.p., comma 1, che costituisce misura di sicurezza, e la confisca allargata per equivalente di cui all'art. 240-bis c.p., comma 2 impone il richiamo al principio di diritto, enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 4145 del 29/09/2022, dep. 2023, Esposito, Rv. 284209, secondo cui: "La disposizione di cui all'art. 578-bis c.p.p., introdotta dal D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, art. 6, comma 4, ha, con riguardo alla confisca per equivalente e alle forme di confisca che presentino comunque una componente sanzionatoria, natura anche sostanziale e, pertanto, è inapplicabile in relazione ai fatti posti in essere prima della sua entrata in vigore".
Ne viene che, nella fattispecie al vaglio, essendo stato devoluto alla Corte di appello il punto della sentenza di primo grado relativo alla confisca allargata immobiliare, non anche quello della confisca allargata per equivalente, il giudice censurato ha correttamente fatto applicazione, in relazione alla prima, della norma di cui all'art. 578-bis c.p.p., applicabile retroattivamente in relazione alla confisca allargata quale misura di sicurezza, che soggiace alla disciplina dettata dell'art. 200 c.p., comma 1, richiamato dall'art. 236 c.p., comma 2, in forza della quale "Le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione".
2.2.2.3. Manifestamente infondato è il rilievo difensivo secondo il quale il giudizio di sproporzione delle disponibilità patrimoniali dell'imputato rispetto ai redditi da lui dichiarati ai fini delle imposte, sarebbe stato erroneamente formulato, perché non si sarebbe tenuto conto delle somme da lui già pagate in esecuzione del ravvedimento operoso, posto che la stessa norma di cui all'art. 240-bis c.p. prescrive che il condannato può giustificare la legittima provenienza dei beni acquistati con il provento dell'evasione fiscale nel caso in cui "l'obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge".
Deve, al riguardo, ribadirsi il principio di diritto secondo cui, in tema di confisca, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, ex art. 12-sexies convertito in L. 7 agosto 1992, n. 356, l'interessato può dimostrare la proporzione tra redditi disponibili e valore degli acquisti e/o degli investimenti, fornendo la prova che l'acquisto è avvenuto con redditi ulteriori rispetto a quelli regolarmente dichiarati (quali, ad esempio, lasciti ereditari, vincite di gioco o redditi provenienti da attività lecita prima della scadenza del termine per la dichiarazione), a condizione che gli stessi non costituiscano provento di evasione tributaria e che si tratti di provviste lecite e tracciabili; ne consegue che e', a tal fine, irrilevante l'adesione al condono tributario tombale di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9, comma 10, in quanto, pur configurandosi quale causa di non punibilità di alcuni reati tributari, lo stesso non incide sull'illiceità originaria della condotta (Sez. 6, n. 10765 del 06/02/2018, Rv. 272719). In proposito, va ricordato come la giurisprudenza di questa Corte abbia già espressamente sancito, in materia di confisca di beni di soggetto sottoposto a misure di prevenzione patrimoniali, l'assenza di valenza giustificativa della misura premiale prevista dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, affermando che è legittimo il provvedimento di confisca di beni del prevenuto che ne giustifichi il possesso dichiarando di averli acquistati con i proventi dell'evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, senza che assuma rilievo, in proposito, la circostanza che a seguito del perfezionamento dell'"iter" amministrativo previsto dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413 (c.d. condono "tombale") le somme di cui all'evasione fiscale siano entrate a far parte legittimamente del patrimonio del prevenuto medesimo, dal momento che l'illiceità originaria del comportamento con cui se le è procurate continua a dispiegare i suoi effetti ai fini della confisca (Sez. 2, n. 2181 del 06/05/1999, Rv. 213853).
Deve, dunque, affermarsi che: "In materia di confisca allargata ex art. 240-bis c.p., non assume alcuna rilevanza, ai fini del giudizio di proporzione tra le disponibilità patrimoniali dell'imputato e i redditi da lui dichiarati ai fini delle imposte, l'adesione a forme di ravvedimento operoso atte a sanare esposizioni debitorie con l'Amministrazione finanziaria dello Stato, posto che tali misure premiali non elidono l'illiceità originaria del comportamento con cui il soggetto inciso si è procurato le risorse impiegate per l'acquisto dei beni oggetto di ablazione".
2.2.2.4. Tutti gli ulteriori rilievi per i quali, ai fini della formulazione del giudizio di sproporzione tra i beni nella disponibilità dell'imputato, il giudice avrebbe dovuto tener conto della minor somma dovuta all'Erario a titolo di imposta evasa, atteso che secondo la stessa dizione normativa il denaro utilizzato per acquistare i beni oggetto di confisca deve essere solo quello "provento o reimpiego dell'evasione fiscale", nonché delle somme mutuate al ricorrente dalla convivente more-uxorio, in adempimento di un dovere di solidarietà reciproca e la cui restituzione costituiva solo oggetto di un'obbligazione naturale, e delle somme ricevute a titolo ereditario, sono inammissibili, perché generici e interamente versati in fatto.
Questa Corte ha, infatti, affermato che non sono deducibili in cassazione i vizi attinenti alla verifica in concreto dei presupposti di fatto del sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, conv. in L. n. 356 del 1992, con conseguente inammissibilità del ricorso (Sez. 3, n. 20432 del 04/03/2009, Rv. 244074): principio, questo, certamente valevole nel caso di specie, a fronte di una motivazione completa e congrua rassegnata dal giudice censurato, che ha dato conto di essersi specificamene confrontato con tutte le allegazioni difensive, disattese con argomentazioni che non esibiscono alcun profilo di manifesta illogicità e che, comunque, non sono state censurate in questa sede mediante la deduzione di decisivi ed inopinabili elementi di fatto atti a scardinarne la tenuta.
In ogni buon conto, ferma restando l'astratta posssibilità di giustificare la proporzione tra acquisti e disponibilità economiche con redditi ulteriori rispetto a quelli regolarmente dichiarati (ad es. lasciti ereditari, vincite di gioco, redditi derivanti da attività lecita prima della scadenza del termine di dichiarazione), sempre che non costituiscano provento di evasione tributaria tout court, il ricorrente non si sarebbe dovuto limitare ad allegarne l'esistenza, ma avrebbe, invece, dovuto dimostrare specificamente che l'acquisto dei due beni immobili confiscati era avvenuto con impiego di provviste lecite e tracciabili, ossia provenienti dall'eredità paterna ovvero dal mutuo erogatogli dalla convivente more - uxorio (Sez. 6, n. 10765 del 06/02/2018, Rv, 272719; Sez. 2, n. 49498 del 11/11/2014, Rv. 261046).
2.3. Generico è il terzo motivo di ricorso, che denuncia la violazione dell'art. 597 c.p.p. e dell'art. 323-bis c.p. e il vizio di motivazione, perché la Corte territoriale avrebbe rideterminato la pena irrogata ad Q.O., concedendogli, si, le attenuanti generiche, ma senza tener conto dell'ulteriore riduzione di pena derivante dall'applicazione dell'attenuante speciale di cui all'art. 323-bis c.p., pur riconosciuta dal Tribunale.
I rilievi al riguardo articolati sono, invero, privi di confronto con il tenore della motivazione rassegnata sul punto nella sentenza impugnata (cfr. pagg. 190192), nella quale si è ben spiegato come dell'attenuante speciale di cui all'art. 323-bis c.p. non si potesse tener conto perché i delitti di cui all'art. 319-ter c.p. (di cui ai capi 9), sub a) e b), 15), 22) e 35)), in relazione ai quali soltanto, è prevista la speciale attenuazione di pena (come testualmente stabilito dal comma 2 della norma evocata), erano stati dichiarati estinti per prescrizione.
2.4. Il quarto motivo, che denuncia la violazione dell'art. 319-ter c.p., in relazione ai delitti di cui ai capi 9), sub a) e b), 15), 22) e 35), pur dichiarati estinti per prescrizione, perché i giudici di merito avrebbero errato nel ritenere la corruzione in atti giudiziari applicabile al processo tributario, è articolato in assenza del necessario interesse concreto all'impugnazione ex art. 568 c.p.p., comma 4.
Al riguardo, giova richiamare quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 182 del 30 luglio 2021: ossia, che il giudice dell'impugnazione penale, nel decidere sulla domanda risarcitoria in presenza di un reato estinto per prescrizione (art. 578 c.p.p.), "non è chiamato a verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta in volta contestato; egli deve invece accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell'illecito aquiliano (art. 2043 c.c.)", seguendo "il criterio del "più probabile che non" o della "probabilità prevalente" che consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati delle prove dichiarative e documentali, appare più probabile di ogni altra ipotesi e in particolare dell'ipotesi contraria", principio questo recepito nella successiva giurisprudenza di legittimità (Sez. 4, n. 37193 del 15/09/2022, Rv. 283739; Sez. 2, n. 11808 del 14/01/2022, Rv. 283377).
Donde, nessun rilievo assume, ai fini della confermata responsabilità civile - né del resto il ricorrente ha specificamente dedotto il profilo d'interesse -, la qualificazione giudica dei fatti di cui ai capi richiamati, produttivi di danno, alla stregua della corruzione semplice ovvero della corruzione in atti giudiziari.
Per completezza, va, comunque, rimarcato che la giurisprudenza di questa Corte si è già pronunciata sulla questione dedotta, affermando che è configurabile il delitto di corruzione in atti giudiziari nel caso in cui la condotta corruttiva sia posta in essere per favorire una delle parti in un processo tributario in quanto, attraverso il riferimento al processo civile, penale o amministrativo, l'art. 319-ter c.p. include ogni tipo di processo, anche quello contabile o tributario, che, per la corrispondenza delle posizioni giuridiche tutelate, è riconducibile all'ambito della giurisdizione civile o amministrativa (Sez. 6, n. 17973 del 22/01/2019, Rv. 275935).
2.5 - Il quinto e il sesto motivo, che contestano la conferma delle statuizioni civili e della declaratoria di falsità delle sentenze meglio indicate in dispositivo, sono inammissibili, perché solo enunciati e non specificamente argomentati in ossequio al principio di specificità dell'impugnazione di cui all'art. 581 c.p.p..
3. Il ricorso nell'interesse di C.A. è inammissibile.
L'unico motivo, cui lo stesso è affidato, che denuncia la violazione degli artt. 357 e 319 c.p. e il vizio di motivazione, in relazione alla conferma del proscioglimento del ricorrente dal delitto di corruzione, di cui al capo 31) n. 1, pronunciato dal Tribunale per estinzione del reato per prescrizione, è manifestamente infondato.
Va premesso che il proscioglimento dell'imputato C.A., pronunciato all'esito del giudizio di primo grado, per estinzione del reato ascrittogli per intervenuta prescrizione, ha impedito l'adozione di ogni genere di statuizioni nei suoi confronti, quindi sia di quelle agli effetti penali che di quelle agli effetti civili: ciò, a causa della mancanza di accertamento della sua responsabilità. Il diritto vivente e il giudice delle leggi hanno, infatti, affermato che imprescindibile condizione perché il giudice (anche quello dell'impugnazione) possa decidere sugli interessi civili è l'emissione di una valida condanna dell'imputato (Corte Cost., sentenza n. 182 del 30 luglio 2021; Sez. U, n. 39614 del 28/04/2022, Di Paola, Rv. 283670; Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211191).
Il rilievo qui formulato impone di fare applicazione del principio di diritto secondo cui, in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274).
Non rientra, infatti, nel concetto di constatazione, nei termini illustrati dal diritto vivente, l'apprezzamento che si è demandato a questa Corte con il motivo di ricorso in disamina: ossia, verificare se sia o meno corretta la motivazione con la quale i giudici di merito hanno ritenuto integrato il delitto di corruzione, quale reato proprio realizzabile solo dal pubblico agente nella cui sfera di competenza o di influenza rientri il compimento dell'atto oggetto di mercimonio, per avere Q., quale giudice incardinato nella Commissione Tributaria Regionale di Bari, accettato la promessa dell'Avvocato C.A. di consegnargli la somma di Euro 15.000,00 per influire, anche tramite un'assegnazione "pilotata" sulla decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Bari, investita del ricorso proposto da G.T. ed altri c/Agenzia delle Entrate.
3. Il ricorso nell'interesse dell'ente " P.G. & Figli" S.r.l. è inammissibile.
3.1. I primi due motivi, che denunciano vizio di motivazione in punto di sussistenza del reato presupposto all'illecito amministrativo contestato all'ente ricorrente - ossia, quello di cui al capo D) della rubrica, perché, per effetto del reato di cui al capo 15) della rubrica, commesso da P.R., nella sua qualità di amministratore e legale rappresentante, la " P.G. e Figli" S.r.l. conseguiva l'indebito profitto di Euro 2.498.769,80, derivante dal mancato pagamento della pretesa erariale come determinata sulla base delle contestazioni fiscali; illecito perpetrato anche per non avere, prima della commissione del fatto ascritto a P.R., adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi, così traendo dalla condotta delittuosa dell'"apicale" P.R., che non aveva agito nell'interesse proprio o di terzi, un profitto di rilevante entità - sono inammissibili per genericità e manifesta infondatezza.
3.1.1. In particolare, il primo motivo, che denuncia vizio di motivazione in ragione del contrasto tra l'affermazione di responsabilità di P.R. per il fatto di corruzione di cui al capo 15), ossia, per avere questi remunerato Q.O., giudice della Commissione Tributaria Regionale di Bari, con l'intermediazione di T.G., per il compimento di atti contrari al proprio ufficio, posti in essere per favorire la P.G. & Figli S.r.l. (di cui P.R. era legale rappresentante) in un contenzioso tributario, provvedendo al pagamento del soggiorno del giudice e di altre due persone per la durata di nove giorni presso l'Hotel Kalidria di (Omissis), e l'assoluzione di T.G. dall'accusa di concorso nel medesimo fatto corruttivo, coperta da giudicato, è generico.
Ribadito quanto già in precedenza affermato, vale a dire che l'acquisizione della sentenza irrevocabile di assoluzione del coimputato del medesimo reato non vincola il giudice, che, fermo il principio del "ne bis in idem", può rivalutare anche il comportamento dell'assolto, al fine di accertare la sussistenza ed il grado di responsabilità dell'imputato da giudicare (Sez. 5, n. 15 del 21/11/2019, dep. 2020, Rv. 278389; Sez. 2, n. 9693 del 17/02/2016, Rv. 266656; Sez. 4, n. 19267 del 02/04/2014, Rv. 259371), deve evidenziarsi che quanto dedotto a sostegno del motivo non si confronta neppure con la motivazione della sentenza della Corte di appello di Bari del 1 dicembre 2017 (allegata al ricorso), che ha confermato l'assoluzione pronunciata in esito a giudizio abbreviato di T.G. dal delitto di corruzione ascrittogli al capo 15) della rubrica, non solo perché le chiamate in correità, effettuate da Q.O., non erano state ritenute credibili, attendibili e riscontrate, come, invece, richiesto per riconoscere loro valore di prova ai sensi dell'art. 192 c.p.p., comma 3, ma anche perché non risultava provato l'elemento soggettivo del delitto di corruzione, ossia perché "Treglia non aveva mai partecipato, anche secondo le indicazioni di Q., ad alcuna trattativa ovvero ad un accordo corruttivo tra il Q. e il P., avente ad oggetto la soluzione favorevole di un contenzioso tributario" (così pag. 101, primo capoverso, della sentenza della Corte di appello di Bari del 1 dicembre 2017).
E' evidente, allora, che nessun contrasto vi è tra la condanna (ai soli effetti civili) pronunciata nei confronti di P.R. per il delitto di corruzione di cui al capo 15) della rubrica e l'assoluzione dallo stesso reato pronunciata nei confronti di T.G.: infatti, non solo la valutazione della chiamata in correità di P.R. da parte di Q.O., in riferimento al delitto di corruzione di cui al capo 15), è stata effettuata sulla base di un differente e ben più ampio corredo probatorio, se non altro perché acquisito nel giudizio dibattimentale (diversamente da quanto accaduto nel giudizio celebrato a carico di T., che aveva optato per il giudizio abbreviato), ma nei riguardi del coimputato T. si era, comunque, ritenuta non raggiunta la prova di un suo consapevole e volontario coinvolgimento nell'accordo corruttivo, eventualmente intercorso tra Q. e P..
Priva di pregio e', infine, la doglianza di omessa confutazione da parte della Corte territoriale delle singole argomentazioni spiegate, a sostegno del tema dell'inconciliabilità tra la condanna di Q. e l'assoluzione di T., con i motivi di gravame.
Riconosciuta la non manifesta illogicità della motivazione rassegnata nella sentenza impugnata per suffragare la tesi, già fatta propria dal Tribunale, del riscontro individualizzante offerto alle propalazioni di Q.O. dalle evidenze documentali in atti - comprovanti che P.R., per conto della " P.G. S.r.l." in data 2 marzo 2009, aveva effettivamente pagato il soggiorno di Q.O., giudice del collegio tributario che aveva emesso una sentenza favorevole all'ente da lui rappresentato, presso l'"Hotel Kalidria", senza che fosse stato allegata dalla difesa dell'appellante alcuna giustificazione alternativa di tale comportamento -, si deve dare atto che il giudice di appello non aveva alcun obbligo di controbattere ogni esercitazione dialettica difensiva e di confutare, una per una, tutte le argomentazioni e tutte le doglianze proposte con i motivi di gravame: va, infatti, ribadito che l'obbligo di motivazione può considerarsi adempiuto allorché il giudice di secondo grado, senza diffondersi nella confutazione particolareggiata di un motivo di gravame, involgente la critica di un elemento di prova, dimostri, mediante l'enunciazione delle ragioni che hanno determinato la sua decisione, di aver tenuto conto di tutte le principali e decisive risultanze acquisite nel processo (Sez. 2, n. 1612 del 08/06/1976, dep. 1977, Rv. 135181). D'altro canto, il diritto vivente ha stabilito che l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Rv. 214794).
3.1.11. Quanto al secondo motivo, la censura che eccepisce la mancata valutazione delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie di Q.O. alla stregua dei criteri stabiliti dall'art. 192 c.p.p., comma 3, è articolata senza alcun effettivo confronto con le ragioni argomentate nella sentenza impugnata al riguardo.
Premesso che la sentenza impugnata non si espone a nessun rilievo d'inosservanza del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, nella valutazione della chiamata in correità o in reità, il giudice, ancora prima di accertare l'esistenza di riscontri esterni, deve verificare la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni, ma tale percorso valutativo non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l'art. 192 c.p.p., comma 3, alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale (Sentenza n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, Rv. 255145), va rilevato come a riscontro delle dichiarazioni di Q.O. non sia stata richiamata solo la sentenza favorevole oggetto di mercimonio, dal momento che sono state valorizzate ulteriori, decisive evidenze documentali: ossia, la fatturazione, in data 8 settembre 2008, delle spese di soggiorno per la durata di dieci giorni del giudice Q. e di suoi accompagnatori presso l'"Hotel Kalidria" alla " P.G. S.r.l." e il pagamento della detta fattura da parte di P.R., quale legale rappresentante della società indicata in data 2 marzo 2009, "quando ormai era già stato assicurato e incassato con certezza il risultato positivo costituito dalla sentenza ormai pubblicata (il 7 ottobre 2008)" (cfr. pag. 188, terzultimo capoverso della sentenza impugnata).
Generica è l'ulteriore censura, articolata in seno al motivo in disamina, di assenza di prova della finalizzazione del pagamento del soggiorno di Q. ed altri presso l'"Hotel Kalidria" da parte della " P.G. & Figli S.r.l." alla remunerazione degli atti contrari al proprio ufficio compiuti dal beneficiario del soggiorno.
A fronte della mancata allegazione - di cui si è dato conto nella sentenza impugnata (cfr. pag. 188, secondo capoverso) - da parte della difesa di P.R. di "un qualche plausibile motivo" (rapporti di sorta, parentali, amicali, professionali o anche di natura illecita, ma estranei alla vicenda oggetto della regiudicanda) per il quale egli, in proprio o nell'interesse della " P.G. e Figli" S.r.l. (di cui era legale rappresentante), potesse avere interesse ad elargire un così notevole "benefit" ad Q.O. (in luogo del quale la società in parola aveva pagato il costo non solo del soggiorno vacanze ma anche degli "extra") e, invece, della puntuale illustrazione (anche nei loro riferimenti cronologici) delle evidenze documentali atte a riscontrare le dichiarazioni rese dallo stesso Q., ossia, che la " P.G. e Figli S.r.l.", parte del contenzioso con l'Agenzia delle Entrate pendente dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale di Bari, si era accollato, saldandolo, il costo complessivo del suo soggiorno presso l'"Hotel Kalidria" di (Omissis), per remunerarlo del suo operato nel farsi assegnare il contenzioso e nel far sì che si concludesse con esito favorevole, i rilievi difensivi risultano protesi unicamente a rimettere in discussione l'apprezzamento della correlazione tra l'atto contrario ai doveri dell'ufficio e la "donazione remuneratoria", senza, neanche in questa sede, indicare specifici elementi probatori capaci di spiegare quale fosse la giustificazione del "benefit" accordato ad Q.O. dalla " P.G. & Figli" S.r.l..
3.2. Il terzo motivo, che denuncia la violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 11 e 12 e il vizio di motivazione in punto di determinazione dell'importo delle quote della sanzione pecuniaria irrogata all'ente imputato in relazione all'illecito contestatogli, è inammissibile.
La Corte territoriale ha ritenuto giustificata e congrua l'irrogazione all'ente della sanzione pecuniaria determinata in 300 quote, inferiore alla media desumibile dal regime edittale (D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 25), evidenziando: 1) come il fatto di corruzione fosse stato commesso da P.R. nell'interesse esclusivo della " P.G. e Figli" S.r.l. con piena immedesimazione tra la persona fisica dell'amministratore e la persona giuridica rappresentata, come dimostrato dalla circostanza che il pagamento del soggiorno-vacanza di Q.O. presso l'"Hotel Kalidria" venne effettuato da P.R. con moneta della " P.G. e Figli" S.r.l., nei cui confronti era stata emessa la fattura; 2) come l'adozione del modello organizzativo previsto allo scopo di evitare la reiterazione di illeciti dello stesso tipo avesse avuto luogo dopo oltre tre anni dalla consumazione del reato presupposto; 3) come nulla avesse fatto la società per eliminare le conseguenze dell'illecito; 4) come il fatto non potesse dirsi non grave, avuto riguardo al valore del contenzioso (Euro 2.498.769,80) e all'utilità procurata al giudice corrotto (Euro 8.000,00); 5) come il valore della quota (determinato in Euro 500,00), neppure contestato con i motivi di appello, fosse comunque congruo rispetto alle dimensioni e alla sfera operativa dell'ente, capace di generare un notevole volume di affari, stante il volume del contenzioso tributario; 5) come il danno cagionato non potesse ritenersi di speciale tenuità (ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2011, art. 12, comma 1, lett. b)), avuto riguardo al contenuto confuso della sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Bari n. 2799/2018, depositata in data 24 settembre 2018.
Il riportato apparato giustificativo della sanzione inflitta all'ente è immune sia dalla denunciata violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 11 e 12, sia da illogicità evidenti, avendola il giudice di merito quantificata, attenendosi ai criteri utilizzati per le pene disposte nei confronti delle persone fisiche (Sez. 3, n. 39952 del 16/04/2019, Rv. 278531), senza incorrere, nel proprio apprezzamento discrezionale, in alcuna arbitrarietà.
Anche la valutazione circa la speciale tenuità (se non assenza) del danno prodotto dall'illecito ascritto all'ente non può essere sindacata in questa sede, come richiesto dalla ricorrente " P.G. e Figli S.r.l." sulla base della sentenza emessa dalla della Commissione Tributaria Regionale di Bari n. 2799/2018, depositata in data 24 settembre 2018, Ciò, per un duplice ordine di ragioni: vuoi, perché è sollecitato un accertamento in fatto non consentito nel giudizio di legittimità; vuoi perché il danno prodotto all'Amministrazione dello Stato non è solo di ordine patrimoniale.
4. Per tutto quanto sin qui esposto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente al reato contestato a P.R. perché estinto per morte dell'imputato. I ricorsi di Q.O., C.A. e della società " P.G. & Figli" S.r.l. devono, invece, essere dichiarati inammissibili, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Nulla è dovuto per le spese di parte civile: infatti, la memoria difensiva presentata dall'Avvocatura Generale dello Stato nell'interesse delle parti civili Ministero dell'Economia e delle Finanze, Agenzia delle Entrate - Direzione Regionale Puglia - e Agenzia delle Entrate - Direzione Provinciale Barletta, Andria, Trani, in quanto non sostenuta da alcun effettivo apparato argomentativo atto a giustificare le rassegnate conclusioni, non può dirsi effettiva esplicazione di un'attività diretta a contrastare la pretesa dell'imputato in funzione della tutela degli interessi degli enti rappresentati.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato contestato a P.R. perché estinto per morte dell'imputato. Dichiara inammissibili i ricorsi di Q.O., C.A. e della società " P.G. & Figli" S.r.l., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Nulla per le spese di parte civile.
Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2023.
Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2023