RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 24 luglio 2020, il Tribunale di Firenze, per quanto in questa sede rileva, condannava B.S., con i doppi benefici di legge, alla pena di mesi 10 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole dei reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. B (capo E), nonché D.P.R. n. 380 del 2001, art. 20, comma 13 e L. n. 241 del 1990, artt. 19 - 21 (capo F), reati contestati all'imputato perché, quale tecnico professionista asseveratore e direttore dei lavori svolti presso il (Omissis), nell'appartamento denominato "Cimabue" ubicato in (Omissis), faceva eseguire opere interne di demolizione, ricostruzione e modifica finalizzate alla destinazione residenziale privata dell'immobile, lavori da considerare abusivi, perché già accertati come tali con pronuncia di questa Corte n. 6873 del 2017 nell'ambito del procedimento penale n. 21240/2010/21; l'imputato, inoltre, attestava il falso nell'accertamento di conformità n. 4416/2017, asseverando sia la legittimità urbanistica dello stato dei luoghi, sia la conformità dei lavori di progetto agli strumenti urbanistici approvati, oltre che alle norme vigenti aventi incidenza sull'attività edilizia; fatti accertati in Firenze il 9 maggio 2017.
Con sentenza del 25 novembre 2021, la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, appellata sia dal P.M. che da B., dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di cui al capo E, perché estinto per prescrizione, e per l'effetto rideterminava la pena a carico dell'imputato, per il reato di cui al capo F, in mesi 8 di reclusione, confermando nel resto la decisione del Tribunale.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello toscana, B., tramite i suoi difensori, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando cinque motivi.
Con il primo, la difesa deduce la violazione della L. n. 241 del 1990, art. 19 e 21 osservando che l'arch. B. avrebbe dovuto essere assolto, in quanto egli ha solo predisposto una richiesta di sanatoria edilizia regolata dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, dovendosi escludere che le dichiarazioni del tecnico allegate a tale istanza abbiano efficacia fidefaciente, non applicandosi alla materia del permesso in sanatoria e dell'accertamento di conformità la disciplina penale prevista per le false asseverazioni in materia di scia e di dia.
Ed invero il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 non attribuisce alcun effetto giuridico alla dichiarazione del tecnico e alla presentazione della domanda di sanatoria, se non l'obbligo del Comune di pronunciarsi entro 60 giorni, per cui l'atto del privato, pur contenente dichiarazioni in ipotesi non veritiere, non può dare luogo al reato di falso, in assenza di una specifica previsione normativa.
Con il secondo motivo, sono state censurate la manifesta illogicità della motivazione e la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 e L.R. Toscana n. 65 del 2014, art. 209, rilevandosi che l'arch. B. si è limitato ad attestare esclusivamente la conformità dei modesti lavori abusivi realizzati dai suoi committenti, e non anche la conformità dell'intero edificio: l'intervento di cui si è occupato l'imputato, infatti, aveva un impatto minimo, risolvendosi nella rimozione di tamponature in cartongesso poste sopra il vano cucina, tale non da aumentare la superficie utile dell'appartamento, mentre il ricorrente nulla ha attestato circa la legittimità urbanistica dell'intero edificio, non andando oltre un mero e acritico richiamo alla d.i.a. finale del 2009.
La sua dichiarazione sarebbe quindi al più carente, ma non certamente falsa.
Con il terzo motivo, oggetto di doglianza, oltre la mancanza e manifesta illogicità della motivazione, è la violazione sia delle N. T.A. del P.R.G. del Comune di Firenze e del relativo regolamento edilizio, sia del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, 22 e 23, L.R. Toscana n. 52 del 1999, art. 4 e L.R. n. 1 del 2005, art. 79: si osserva in proposito che la Corte di appello avrebbe mancato di confrontarsi con le obiezioni difensive, con cui era stato rimarcato che il regime urbanistico di "(Omissis)" consentiva sia gli interventi di conservazione, sia gli interventi di restauro previsto dal testo unico dei beni culturali, essendovi un pieno parallelismo tra gli interventi realizzabili in base al P.R.G. e quelli assentibili in base al codice dei beni culturali, per cui le opere realizzate erano legittime, avendo la Soprintendenza regolarmente autorizzato l'intervento, come ben spiegato in dibattimento dal suo Dirigente. A ciò si aggiunge che l'aumento della superficie utile è stato smentito per tabulas dalla verifica effettuata dal Comune, mentre, quanto al frazionamento in più unità del complesso immobiliare e al mutamento di destinazione d'uso, si evidenzia che si tratta di intervento che erano consentiti dal piano regolatore comunale vigente, precisandosi altresì che il ricorso alla d.i.a. non era consentito dagli art. 10, 22 e 23 del testo unico dell'edilizia, ma era addirittura imposto dalla L.R. Toscana n. 52 del 1999, art. 4 e L.R. n. 1 del 2005, art. 79.
Con il quarto motivo, è stata eccepita la violazione della L.R. Toscana n. 1 del 2005, art. 59, sottolineandosi al riguardo che la Corte di appello non aveva fornito risposta all'obiezione difensiva secondo cui la destinazione turistico-recettiva valorizzata dal Tribunale riguardava non i lavori eseguiti nel complesso immobiliare, ma l'uso che successivamente era stato fatto di 10 dei 38 appartamenti realizzati, ovvero degli appartamenti di proprietà della "Associazione Tornabuoni", tra i quali pacificamente non è compresa l'unità immobiliare "Cimabue" per la quale è stato condannato l'arch. B.. Ma, più in generale, la difesa contesta la tesi della destinazione turistico-recettiva, osservando che l'intervento eseguito su "(Omissis)" non ha fatto altro, sotto l'attento controllo del Comune e della Soprintendenza, che recuperare l'immobile alla destinazione voluta dal P.R.G, ossia residenziale e non turistico-recettiva, destinazione questa che presuppone l'offerta al pubblico indifferenziato del bene, elemento questo carente nel caso di specie, atteso che lo scopo del "Club Tornabuoni" è solo quello di assicurare l'uso ripartito e turnario degli appartamenti da parte dei soci, secondo una finalità esclusivamente residenziale.
Il quinto motivo è infine dedicato al giudizio sulla configurabilità dell'elemento soggettivo del reato, precisandosi in proposito che doveva essere escluso il dolo in capo all'arch. B., il quale, essendo rimasto estraneo agli interventi terminati nel 2009, si è trovato ad occuparsi di una banale pratica di accertamento di conformità di uno dei 38 appartamenti del complesso edilizio, avendo confidato, magari colposamente ma non certo dolosamente, nelle indicazioni provenienti dall'ente pubblico titolare dei poteri di vigilanza sull'attività edilizia, fermo restando il ristretto perimetro della sua dichiarazione.
3. Con memoria pervenuta il 28 dicembre 2022, i difensori di B., nel replicare alle conclusioni del Procuratore generale, hanno insistito nell'accoglimento del ricorso, sviluppandone le argomentazioni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
1. Premesso che i motivi di ricorso, tra loro sostanzialmente sovrapponibili, sono suscettibili di trattazione unitaria, in quanto inerenti al tema della responsabilità penale, occorre evidenziare che la conferma del giudizio di colpevolezza dell'imputato in ordine al delitto ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 20, comma 13 (capo F, residuato dalla declaratoria di prescrizione che ha riguardato la contravvenzione di cui al capo E, per cui in primo grado vi era stata parimenti condanna) non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede.
Prima di soffermarsi sul contenuto delle doglianze difensive, si ritiene utile una breve ricostruzione della vicenda che fa da sfondo alle odierne imputazioni.
I fatti di causa ruotano, in particolare, intorno a taluni interventi edilizi che, in anni recenti, hanno interessato lo storico (Omissis), complesso di edifici realizzato dalla Consorteria (Omissis) (chiamata (Omissis) dal 1393) negli anni dal 1466 al 1469 su progetto dell'architetto M. e ampliatosi nei secoli successivi su iniziativa dei proprietari che vi si avvicendarono, anche mediante l'accorpamento degli edifici adiacenti su (Omissis), tra il (Omissis), per cui si è in presenza di un complesso disomogeneo per strutture orizzontali e verticali e per caratteristiche esteriori e interne; gli edifici riuniti costituiscono oggi un isolato quadrilatero ubicato in zona A Centro Storico del P.R.G. di Firenze e inserito dal 1982 nella perimetrazione del patrimonio dell'Unesco, mentre nel 1918, anno in cui fu acquistato dalla Banca Commerciale italiana, il Palazzo fu interamente sottoposto a vincolo ai sensi della L. n. 364 del 1909, artt. 1-37, tanto all'esterno quanto all'interno, perché "di importante interesse per l'arte e per la storia".
Il complesso edilizio, negli anni, è stato interessato da una serie di interventi di ristrutturazione: tra questi, nelle due sentenze di merito, sono stati ricordati quelli compiuti tra il 2004 e il 2010 e commissionati prima da Intesa Real Estate s.r.l., braccio operativo del gruppo bancario che aveva incorporato la Banca commerciale, e poi dalla s.r.l. Tornabuoni, che acquistò da Intesa Real Estate gran parte degli immobili situati nelle particelle n. 173, 174, 175 e 176.
La s.r.l. Tornabuoni, peraltro, figura tra i soci fondatori dell'ente privato senza fini di lucro "Associazione Pal. (Omissis)", creato il 26 giugno 2006 con il compito di gestire e manutenere il complesso residenziale nel quale sono collocati gli appartamenti cui gli associati possono avere accesso diretto.
Ora, gli interventi realizzati sino al 2010 sono stati oggetto di un procedimento penale iniziato nel 2010 e definito in primo grado dalla sentenza del Tribunale di Firenze del 22 dicembre 2014 che assolveva tutti gli imputati dai reati a loro ascritti (lottizzazione abusiva, falso e abusi edilizi vari) perché i fatti non sussistono. Tale pronuncia veniva impugnata per saltum dalla Procura della Repubblica di Firenze e questa Corte, con la sentenza n. 6873/2017 emessa da questa Sezione l'8 settembre 2016, depositata il 14 febbraio 2017, annullava con rinvio la decisione del Tribunale, richiamando i principi in tema di ristrutturazione edilizia e cambio della destinazione d'uso elaborati nella fase cautelare del procedimento con la sentenza n. 9845 del 20 ottobre 2011, depositata il 7 marzo 2012, e osservando tra l'altro che, come riconosciuto dallo stesso giudice monocratico, le varie d.i.a. che si erano succedute nel tempo (ben 18) avevano comportato la modifica della destinazione d'uso dell'imponente complesso immobiliare, occupante un intero isolato, da residenziale e direzionale a commerciale, direzionale e residenziale, il che avrebbe comportato la necessità del rilascio del permesso di costruire o, in alternativa, della d.i.a. sostitutiva di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22 comma 3 lett. a) (cd. "super d.i.a."), mentre del tutto insufficiente era l'azionato strumento della d.i.a. semplice.
In sede di rinvio, la Corte di appello di Firenze, con sentenza del 16 novembre 2018, divenuta definitiva nel 2019, dichiarava non doversi procedere nei confronti degli imputati, per essere i reati estinti per prescrizione.
Ciò posto, il procedimento in esame costituisce una sorta di prosecuzione dell'iniziale indagine giudiziaria del 2010 e ha visto coinvolti tre imputati, ovvero M.R., legale rappresentante dell'Associazione (Omissis), acquirente di vari appartamenti del Palazzo, G.M., titolare della omonima ditta esecutrice dei lavori, e appunto l'odierno ricorrente B.S., tecnico professionista asseveratore e direttore dei lavori.
Questi, in primo grado, è stato condannato per sole due imputazioni, ossia quelle oggetto dei capi E ed F: la prima ha ad oggetto il compimento di abusi edilizi nell'appartamento al primo piano denominato "(Omissis)" acquistato il (Omissis) dalla Associazione (Omissis), in cui furono eseguiti interventi di demolizione, ricostruzione e modifica, in assenza del permesso di costruire. Il capo F concerne invece il delitto di falso ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 20, comma 13 e L. n. 241 del 1990, artt. 19 e 21, contestandosi a B. di aver attestato il falso nell'accertamento di conformità n. 4416/2017 del 9 maggio 2017, asseverando sia la legittimità urbanistica dello stato dei luoghi, sia la conformità dei lavori di progetto agli strumenti urbanistici approvati, oltre che alle norme vigenti aventi incidenza sull'attività edilizia.
Rispetto a tali imputazioni, il Tribunale (pag. 38 della sentenza di primo grado) ha innanzitutto premesso che il monolocale "(Omissis)" di (Omissis), posto al primo piano con affaccio su (Omissis) (part. 177 sub 511), fu acquistato il (Omissis) dai coniugi inglesi L. dalla s.r.l. Tornabuoni, che l'aveva realizzato con d.i.a. n. 5621/09 dal frazionamento della preesistente superficie di piano oggetto delle varianti d.i.a. n. 5547/07 e d.i.a. n. 6128/08.
Nel corso di un sopralluogo eseguito il 28 maggio 2012, l'Ispettorato edilizio constatava la presenza, sopra il vano cucina, di un livello di piano intercluso tamponato con cartongesso non graficizzato nelle planimetrie allegate alle d.i.a. I nuovi proprietari fecero quindi realizzare la rimozione delle tamponature in cartongesso per ottenere un ampliamento della superficie utile senza avere né titolo edilizio né nulla osta della Soprintendenza e, con procura speciale datata 2 agosto 2016, incaricarono il tecnico arch. B.S. di regolarizzare le innovazioni con la sanatoria; pertanto l'imputato, qualificatosi "tecnico rilevatore e progettista", in data 9 maggio 2017 presentava la richiesta di sanatoria n. 4426 ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, preceduta da nulla osta della Soprintendenza, asseverando la preesistente conformità urbanistico-edilizia del monolocale derivante dalle d.i.a. presentate dalla s.r.l. Tornabuoni.
2. Tanto premesso, il Tribunale ha ritenuto illegittimi i lavori eseguiti nell'appartamento, evidenziando che gli stessi andavano valutati nel contesto complessivo degli interventi svolti sul (Omissis), contraddistinti da evidenti profili di illiceità, essendo stata operata una integrale ristrutturazione di tutti gli edifici facenti parte del complesso edilizio senza il titolo legittimamente (ovvero il permesso di costruire), ma solo attraverso molteplici d.i.a. artificiosamente frammentate; invero tali interventi edilizi, piuttosto che mirare alla conservazione dei fabbricati esistenti, hanno di fatto trasformato l'isolato variandone la distribuzione interna, incrementando la superficie utile lorda e così creando una struttura turistica a gestione unitaria, in contrasto con il D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 29, l'art. 17 NTA e gli art. 170-171 del regolamento edilizio.
La caratterizzazione turistico-recettiva del complesso edilizio è stata ben descritta dal primo giudice (pag. 31 ss. della sentenza), il quale ha sottolineato, in modo pertinente e all'esito di un giudizio di fatto non suscettibile in essere messo in discussione in questa sede, che la gestione unitaria degli appartamenti da parte del Club (Omissis) serviva a coordinare i periodi di godimento degli appartamenti, non diversamente da un albergo che mette a disposizione camere singole, servendo il pagamento delle quote da parte degli associati a garantire la copertura dei costi di manutenzione e di esercizio degli impianti, oltre che del personale di servizio, risultando quindi confacente alla struttura realizzata attraverso le d.i.a. la definizione di residence ex L.R. n. 40 del 2000, art. 62 secondo cui sono residence le strutture recettive costituite da almeno sette unità abitative aventi i requisiti igienico-edilizi, arredi cucina gestite unitariamente in forma imprenditoriale per fornire alloggio e servizi.
In definitiva, non di restauro o di risanamento conservativo si trattava, ma di una ristrutturazione edilizia richiedente il permesso di costruire, in quanto gli interventi erano volti non a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità nel rispetto dei suoi elementi essenziali tipologici, formali e strutturali, ma a modificare la volumetria complessiva degli edifici e a mutare la destinazione d'uso degli stessi, incidendo su sagome e prospetti, fino a portare a un organismo edilizio in tutto o in parte differente da quello preesistente, il che, ai sensi del del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10 comma 1 lett. c), avrebbe imposto non la presentazione di più d.i.a., ma il rilascio di un unico permesso di costruire. Tale impostazione è stata correttamente condivisa dalla Corte territoriale che, pur dichiarando prescritti gli abusi edilizi, ha tuttavia rimarcato (pag. 6 della sentenza impugnata), in linea con la richiamata pronuncia di annullamento operata da questa Corte (sentenza n. 6873/2017) la necessità di una visione non atomistica del singolo intervento realizzato nell'appartamento "(Omissis)", non potendosi prescindere da una valutazione unitaria della drastica trasformazione edilizia realizzata, nel senso che l'appartamento in esame, come tutti gli altri, non esisteva prima della ristrutturazione ed è stato appunto uno dei risultati degli abusi edilizi che hanno surrettiziamente fatto diventare (Omissis), a lungo sede di una grande banca, una lussuosa struttura turistico-recettiva.
I giudici di merito (al di là della sopravvenuta declaratoria di estinzione del reto per prescrizione) hanno dunque legittimamente ritenuto configurabile il reato di cui all'art. 44 del D.P.R. cit., essendo stata operata in tal senso corretta applicazione del principio elaborato da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 29251 del 05/05/2017, Rv. 270432 e Sez. 3, n. 51427 del 16/10/2014, Rv. 261330), secondo cui, in tema di edilizia, il regime di denuncia di inizio attività, anche in relazione a tipologia di interventi sottoposti a tale disciplina dal D.L. n. 133 del 2014, non è applicabile a lavori da eseguirsi su manufatti originariamente abusivi che non risultano oggetto di condono edilizio o di sanatoria, atteso che gli interventi ulteriori su immobili abusivi ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale cui ineriscono strutturalmente. La valutazione circa la sussistenza della fattispecie contestata al capo E appare dunque immune da censure, riproponendo il ricorso anche in questa sede osservazioni parcellizzate che perdono di vista il dato sostanziale del pieno inserimento dell'appartamento "(Omissis)" in un organismo edilizio che ha subito sine titulo una sostanziale e profonda trasformazione strutturale e funzionale, per cui i singoli interventi oggetto della domanda di sanatoria non possono che essere qualificati alla luce dell'illegittimità preesistente dell'unità immobiliare.
3. Le considerazioni appena esposte costituiscono la premessa per affrontare le doglianze riferite alla configurabilità del reato di cui al capo F.
Sul punto deve infatti osservarsi che le due conformi sentenze di merito hanno messo in evidenza la falsità della dichiarazione del professionista B. contenuta nell'accertamento di conformità n. 4426 del 9 maggio 2017, nella parte in cui l'imputato ha asseverato sia la legittimità urbanistica dello stato dei luoghi sia la conformità dei lavori di progetto agli strumenti urbanistici adottati e ai regolamenti edilizi vigenti, essendosi sottolineato in proposito che tale attestazione, contraria al vero in ragione della natura abusiva dei lavori eseguiti nell'appartamento "(Omissis)", è stata resa dopo che aveva avuto ampio risalto a livello nazionale la notizia dell'annullamento da parte di questa Corte della sentenza assolutoria del Tribunale di Firenze, essendo stata depositata la motivazione della pronuncia di legittimità il 14 febbraio 2017, ovvero circa tre mesi prima del momento in cui è stata depositata la relazione di B..
La decisione della Corte di cassazione aveva come detto messo ampiamente in discussione la legittimità degli interventi edilizi realizzati fino al 2010 presso il (Omissis), lavori riferibili anche all'appartamento "(Omissis)", per cui la falsa attestazione del professionista è stata non irragionevolmente ritenuta volontaria, tanto più ove si consideri che, al diNete: interlocuzioni informali, peraltro neanche adeguatamente provate (l'imputato ha riferito di essersi consultato preventivamente con il geom. S. dell'Edilizia privata e con l'arch. P. della Soprintendenza, testi di cui la difesa non ha chiesto l'escussione), non vi erano validi provvedimenti amministrativi su cui l'arch. B. potesse fare legittimo affidamento ai fini del giudizio di legittimità degli interventi svolti. Le valutazioni di merito operate dal Tribunale e dalla Corte di appello circa la configurabilità dell'elemento soggettivo, in quanto sorrette da argomentazioni non manifestamente illogiche, si sottraggono dunque alle obiezioni difensive.
4. Resta tuttavia da precisare un ultimo aspetto in ordine alla sussistenza della fattispecie dal punto di vista oggettivo, avendo la difesa contestato l'applicabilità del reato contestato alla procedura finalizzata all'accertamento di conformità.
Tale deduzione è fondata sul rilievo secondo cui l'art. 20, contenente la sanzione penale, si riferisce alle sole dichiarazioni funzionali al rilascio del permesso di costruire, che presuppone l'emanazione di un provvedimento formale, mentre nel diverso procedimento ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 vige la differente regola del silenzio-rifiuto, per cui dalla dichiarazione eventualmente falsa sulla conformità urbanistica non scaturiscono effetti favorevoli al richiedente.
Ora, la tesi difensiva, per quanto indubbiamente suggestiva, non appare tuttavia condivisibile: al riguardo deve premettersi che il reato per cui si procede è stato introdotto nel testo unico dell'edilizia dal D.L. n. 70 del 2011, art. 5, n. 3, convertito dalla L. n. 106 del 2011, che, nel riscrivere il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 20 (rubricato "procedimento per il rilascio del permesso di costruire"), ha previsto al comma 13 una nuova fattispecie incriminatrice, così delineata: "ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni di cui al comma 1, dichiara o attesta falsamente l'esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al medesimo comma è punito con la reclusione da uno a tre anni. In tali casi, il responsabile del procedimento informa il competente ordine professionale per l'irrogazione delle sanzioni disciplinari"; a sua volta, il comma 1 del medesimo art. 20 descrive le modalità di presentazione della domanda finalizzata al rilascio del permesso di costruire, disponendo che la stessa sia accompagnata da una "dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui la verifica in ordine a tale non comporti valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme relative all'efficienza energetica".
Contestualmente (e parallelamente rispetto alla previsione dettata in tema di permesso di costruire), il D.L. n. 70 del 2011, art. 5 ha inciso anche sulla L. n. 241 del 1990, art. 19, il cui comma 6 dispone che, ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività (non solo in materia edilizia), dichiara o attesta falsamente l'esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al comma 1 è punito con la reclusione da uno a tre anni.
Ora, prima della novella del 2011, la condotta del tecnico asseveratore che attestava dati non corrispondenti al vero era già ritenuta comunque penalmente rilevante, essendo costante nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 5, n. 35615 del 14/05/2010, Rv. 248878) l'affermazione secondo cui integra il reato di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 481 c.p.) la condotta del tecnico-professionista che, nell'espletamento del servizio di pubblica necessità assegnatogli, indichi, in sede di dichiarazione di inizio di attività, le opere da realizzare sulla base di una descrizione dello stato presente dei luoghi, non corrispondente al vero.
All'indomani dell'introduzione della fattispecie di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 20, comma 13, è stato invece precisato (cfr. Sez. 3, n. 30168 del 24/05/2017, Rv. 270252), che la nuova previsione criminosa in vigore dal 2011 n. 106, che punisce le false dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni circa l'esistenza dei requisiti e presupposti per il rilascio del permesso di costruire, ha un ambito applicativo che si sovrappone interamente alla fattispecie di falso ideologico in certificati commesso da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 481 c.p.) e di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.), di cui assorbe il disvalore, e si consuma quando oggetto di asseverazione siano non esclusivamente fatti che cadono sotto la percezione materiale dell'autore della dichiarazione, ma giudizi.
In tal senso, è evidente che la nuova figura di reato risulta riferite precipuamente alle false attestazioni destinate a confluire nel procedimento amministrativo finalizzato al conseguimento del permesso di costruire, per cui la fattispecie assume carattere speciale rispetto alla norma generale di cui all'art. 481 c.p., che sarebbe altrimenti applicabile, come pure è speciale rispetto alla norma codicistica il reato di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 19, che, come si è anticipato, concerne il differente modulo procedimentale della scia.
Tanto premesso e ribadito che nella vicenda in esame il titolo abilitativo necessario per il tipo di opere realizzate era il permesso di costruire in sanatoria e non la s.c.i.a. o la d.i.a.. è ora possibile soffermarsi sull'obiezione difensiva secondo cui la nuova fattispecie penale di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 20, comma 13, si applica solo alle asseverazioni non veritiere volte al conseguimento del permesso in costruire e non anche all'accertamento di conformità ex art. 36 del medesimo decreto relativo al permesso in sanatoria.
Ora, l'interpretazione difensiva appare legata a un'impostazione essenzialmente formale, che fa leva sull'inserimento della nuova previsione nell'ambito della norma che regola il procedimento amministrativo finalizzato all'ottenimento del permesso di costruire, ma a tale rilievo può replicarsi che, in realtà, l'accertamento di conformità è a sua volta diretto a conseguire un permesso in sanatoria, che altro non è che un permesso di costruire che differisce da quello ordinario per il fatto di essere postumo rispetto all'esecuzione dei lavori, ma ciò non toglie che al procedimento di cui all'art. 36 possa applicarsi, senza che ciò comporti alcuna violazione del divieto di analogia in malam partem, il medesimo regime sanzionatorio previsto dall'art. 20 del medesimo decreto, e ciò tanto più ove si consideri che la giurisprudenza di legittimità (cfr. ex multis Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Rv. 262422 e, da ultimo, Sez. 3, n. 2357 del 14/12/2022, dep. 2023, Rv. 284058) è costante nel richiedere, in caso di permesso in sanatoria, in coerenza con la previsione di cui all'art. 36, comma 1, il requisito della cd. "doppia conformità", ossia la conformità delle opere sia alla disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della realizzazione che a quella vigente al momento della presentazione della domanda di regolarizzazione, aspetto questo che corrobora il giudizio circa la sostanziale sovrapponibilità del procedimento di sanatoria rispetto a quello ordinario finalizzato al conseguimento del permesso. Ne' può condividersi il rilievo difensivo secondo cui all'asseverazione del tecnico presentata nella procedura di accertamento di conformità non può ricollegarsi alcun effetto giuridico, posto che, al di là di talune differenze procedimentali tra schema ordinario e procedura di sanatoria, è indubitabile che la relazione tecnica del professionista incaricato non è un atto neutro, ma costituisce il presupposto valutativo più pregnante, contenendo i dati tecnici essenziali ai fini della verifica della doppia conformità, non potendosi in ogni caso sottacere che il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, u.c., pone a carico del dirigente del preposto ufficio comunale il dovere di pronunciarsi sulla domanda di sanatoria "con adeguata motivazione", dal che si desume che la relazione tecnica allegata all'istanza è dotata di una efficacia giuridica, tale da comportare il rilievo penale delle attestazioni mendaci eventualmente rese dal professionista incaricato.
Deve pertanto concludersi, in sintonia con le deduzioni del Procuratore generale, che la condotta illecita dell'arch. B. è inquadrabile non nella norma generale di cui all'art. 481 c.p., ma in quella speciale ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 20 comma 13, non potendo ritenersi escluso dall'ambito di operatività di tale norma l'accertamento di conformità, anch'esso finalizzato al rilascio del permesso di costruire, sia pure in sanatoria e all'esito di un diverso iter formale, restando immutato il disvalore del fatto sanzionato dal legislatore.
Di qui l'infondatezza delle doglianze difensive in punto di responsabilità.
5. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto nell'interesse di B. deve essere rigettato, con onere per il ricorrente, ex art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2023.
Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2023