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La falsa dichiarazione di trasferimento di dimora abituale configura il reato di falso ideologico ex art. 483 c.p.

Falso ideologico

Cassazione penale sez. III, 04/04/2023, n.17419

Integra il delitto di cui all'art. 483 c.p. la falsa dichiarazione di trasferimento della propria dimora abituale resa ai fini della iscrizione anagrafica per mutamento della residenza, trattandosi di dichiarazione sostitutiva di atto notorio ai sensi dell'art. 47 del D.P.R. n. 28 dicembre 2000 n. 445.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Adito da una richiesta di emissione di decreto penale di condanna, il G.i.p. del Tribunale di Palermo, ai sensi degli artt. 459, comma 3 e 129, comma 1, c.p.p., assolveva B.M. dai reati di cui all'art. 76 D.P.R. n. 4450 del 2000, in relazione all'art. 483 c.p., contestati ai capi 1) e 2) della rubrica, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. In particolare, al B. si imputava di avere falsamente attestato, nell'istanza di cambio di residenza presenza al Comune di (Omissis) a mezzo portale dei servizi on line dell'Area cittadinanza-Servizi Demografici, di avere in locazione l'immobile di edilizia popolare residenziale pubblica (ERP) di proprietà del Comune di (Omissis), sito in (Omissis), (Omissis), piano (Omissis), interno (Omissis), identificato catastalmente (Omissis), particella (Omissis), (Omissis), allegando un contratto di locazione materialmente ed ideologicamente falso, recante la data del 17 gennaio 2021. 2. Avverso l'indicata sentenza il pubblico ministero territoriale propone ricorso per cassazione, affidato a un unico motivo, con cui eccepisce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) e c), c.p.p.. Preliminarmente, espone il ricorrente che, secondo quanto stabilito dalle Sezioni unite n. 43055 del 2010, la sentenza di proscioglimento, emessa dal giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di decreto penale di condanna, può essere impugnata solo con ricorso per cassazione; in ogni caso, qualora, in analogia con il novellato art. 428 c.p.p., dovesse ritenersi che la sentenza di proscioglimento ex art. 459, comma 3, c.p.p. deve essere impugnata con l'appello, rappresenta il ricorrente che il presente atto andrebbe convertito in appello, ai sensi dell'art. 568, comma 5, c.p.p.. Quanto al merito, il pubblico ministero censura l'interpretazione seguita dal G.i.p., in forza della quale, per l'integrazione del reato in esame, sarebbe necessario che la falsa dichiarazione del privato sia resa e contenuta in un atto pubblico, addirittura capace di attribuire alla dichiarazione medesima efficacia fidefacente, il che, ad avviso del ricorrente, comporterebbe una sostanziale interpretatio abro-gans della fattispecie incriminatrice in esame, la quale, per contro, è sorretta dalla chiara ratio di rinforzare l'efficacia certificati e/o di attestazione delle dichiarazioni sostitutive dei privati, la cui genuinità è garantita dalla previsione della sanzione penale nel caso di falsità. Aggiunge, infine, il ricorrente, che il G.i.p., prima di pronunciare sentenza ex art. 129 c.p.p., avrebbe dovuto fissare camera di consiglio, provocando il contraddittorio tra le parti. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. 2. In primo luogo, pur nel mutato assetto normativo conseguente alle modiche legislative intervenute medio tempore, va riaffermato il principio espresso nel 2010 dalle Sezioni Unite Dalla Serra (n. 43055 del 30/09/2010, dep. 03/12/2010 Rv. 248378), secondo cui la sentenza di proscioglimento, emessa dal giudice per le indagini preliminari investito della richiesta di decreto penale di condanna, può essere impugnata solo con ricorso per cassazione. In quella decisione, le Sezioni Unite affermarono la non compatibilità, con il sistema delle impugnazioni, dell'impugnabilità della sentenza di proscioglimento, ex art. 459, comma 3, con il mezzo dell'appello. E ciò in quanto, come si legge in motivazione, "l'appello, salvo le ipotesi stabilite dall'art. 604 c.p.p. in cui il giudice di secondo grado può dichiarare la nullità della sentenza o del provvedimento del giudice di primo grado, non ha effetti rescindenti della decisione impugnata con la conseguente prosecuzione del giudizio in sede rescissoria; in principio, il giudice di appello può concludere il giudizio di impugnazione unicamente con pronuncia di conferma o riforma della sentenza di primo grado (art. 605 c.p.p.)". Ancora attuali sono le argomentazioni di ordine sistematico addotte dalle Sezioni Unite, incentrate sulla peculiarità strutturale del procedimento monitorio: "La non esperibilità dell'appello, nella ipotesi in esame, si palesa appunto giustificata in relazione all'incompetenza funzionale del giudice di appello ad emettere decisione di annullamento della sentenza del Giudice per le indagini preliminari e contemporaneamente all'incompetenza ad emettere, nel caso di impugnazione del p.m., sentenza di condanna dell'imputato. Infatti, il giudice di appello non può incidere sulla regiudicanda con poteri di cognizione più ampi rispetto a quelli di cui è titolare il giudice di primo grado, il quale, ai sensi dell'art. 459 c.p.p., ricevuta la richiesta di emissione di decreto penale di condanna, può non accogliere la richiesta e restituire gli atti al p.m. ovvero pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129". 3. Si tratta, come anticipato, di un'interpretazione da confermare. E' sufficiente aggiungere che, ove si seguisse una diversa interpretazione, alla Corte d'appello non sarebbe consentito il ricorso all'art. 604 c.p.p. - trattandosi di un'ipotesi non contemplata dalla norma -, ma spetterebbe soltanto il potere di confermare la pronuncia o di riformare la stessa in me/ius. Un'eventuale condanna, però, non potrebbe che assumere la forma della sentenza, non suscettibile, tuttavia, diversamente dal decreto penale, di opposizione, a tutto svantaggio dell'imputato, il quale, inoltre, si vedrebbe preclusa la scelta di accedere a un rito premiale, diversamente da quanto previsto per l'atto di opposizione ai sensi dell'art. 461, comma 3, c.p.p.. Oltre a ciò, non solo la pronuncia di condanna emessa dalla Corte di appello priverebbe l'imputato di un grado di giudizio, ma, quand'anche si forzasse il dato letterale dell'art. 604 c.p.p. e si consentisse una pronuncia di annullamento dalla Corte d'appello con contestuale trasmissione degli atti al g.i.p., nulla vieterebbe di ribadire l'originaria pronuncia, non esistendo alcun vincolo pregiudiziale rispetto al principio di diritto enunciato in appello, situazione che, invece, è scongiurata con l'annullamento da parte della Cassazione, che crea un vincolo per la decisione in sede di rinvio. 4. Ciò posto, nel merito il ricorso è fondato. 5. La materialità del fatto non è controversa. Secondo quanto ritenuto dallo stesso G.i.p., "risulta che l'imputato, allegando alla dichiarazione di residenza un contratto di locazione contraffatto e contenuti-sticamente falso, ha effettivamente commesso la condotta allo stesso contesta nell'imputazione". Nondimeno, il G.i.p., discostandosi deliberatamente "dal consolidato contrario orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione" (p. 2), ha ritenuto che la condotta in esame non integri gli estremi del reato di cui all'art. 483 c.p.. Dopo aver evidenziato che l'art. 76, comma 1. D.P.R. n. 445 del 2000 - che punisce "chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente decreto" - non contiene un'autonoma norma incriminatrice ma opera un rinvio alle fattispecie incriminatrici previste dal codice penale e dalle legge speciali, ad avviso del G.i.p., affinché la falsa attestazione contenuta in un'autocertificazione possa essere ricondotta alla fattispecie ex art. 483 c.p., è necessario: 1) che il privato renda una falsa dichiarazione; 2) che tale attestazione sia resa ad un pubblico ufficiale; 3) che sia altresì resa in un atto pubblico; 4) che quest'ultimo sia destinato a provare la verità del fatto attestato. Orbene, ad avviso del G.i.p. il requisito sub 3) non sarebbe presente nel caso di dichiarazione falsa contenuta in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, in quanto la stessa non è ricompresa nella nozione di "atto pubblico" fornita dagli artt. 2699 e 2700 c.c. Del resto, secondo il G.i.p., la giurisprudenza di legittimità non avrebbe mai affermato apertamente che la dichiarazione sostitutiva di atto notorio sia un atto pubblico (si indica, al proposito, Cass. Pen. 24.2.1983, n 4135). Di conseguenza, l'attestazione fatta dal privato in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio (o di certificazione) non può essere considerata un'attestazione fatta "in un atto pubblico" e, quindi, non può integrare il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, in quanto detta dichiarazione è formata dal privato e non dal pubblico ufficiale nell'esercizio della sue funzioni, il quale rappresenta il mero destinatario della stessa. Aggiunge il G.i.p. che il requisito dell'attestazione in un atto pubblico non può ritenersi soddisfatto dall'equiparazione tra dichiarazione sostitutiva e dichiarazione resa a pubblico ufficiale, ai sensi dell'art. 76, comma 3, D.P.R. n. 445 del 2000, stante la differenza tra l'attestazione fatta al pubblico ufficiale e l'attestazione fatta in un atto pubblico, come del reato emerge dal confronto tra i reati di cui agli artt. 495 e 496 c.p., nella formulazione antecedente alle modifiche apportate con il D.L. n. 92 del 2008, conv., con modif. nella L. n. 125 del 2005. Allo stesso modo, secondo il G.i.p., non può valere l'argomento della destinazione della dichiarazione ad essere "trasfusa" in un atto pubblico, situazione affatto diversa dell'essere la dichiarazione resa in un atto pubblico. 6. Si tratta di un'interpretazione non persuasiva. 7. La questione sollevata dal G.i.p. è già stata più volte affrontata e decisa da questa Corte in senso diametralmente opposto, come peraltro riconosciuto dal G.i.p. medesimo. Invero, da lungo tempo si è formato e consolidato l'orientamento di questa Corte, secondo il quale il delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) è configurabile solo nei casi in cui una specifica norma giuridica attribuisca all'atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, così collegando l'efficacia probatoria dell'atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero (Sez. U, n. 28 del 15/12/1999, Rv. 215413); tale principio è stato costantemente affermato anche con riguardo al delitto di cui all'art. 76 D.P.R. n. 445 del 2000, in relazione all'art. 483 c.p. (Sez. 5, Sentenza n. 16275 del 16/03/2010, Rv. 247260). Si è osservato, infatti, che l'atto disciplinato dalle norme di cui agli artt. 46 e 47, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa è per sua natura "destinato a provare la verità" dei fatti in esso affermati, che - concernono - fatti, - stati e qualità personali (Sez. 5, Sentenza n. 38748 del 09/07/2008, Rv. 242324, secondo cui integra il reato previsto dall'art. 483 c.p. la condotta del privato che renda, a norma del D.Lgs. n. 445 del 2000, artt. 46 e 76, falsa dichiarazione circa stati, qualità personali e fatti per conseguire l'esenzione dal contributo alla spesa sanitaria. Dalla citata giurisprudenza si ricava che la riflessione di questa Corte ha individuato la natura pubblica dell'atto di cui all'art. 483 c.p. solo nei casi in cui una specifica norma attribuisca all'atto stesso la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, collegandone l'efficacia probatoria al dovere del dichiarante di affermare il vero. 8. Con riguardo al caso per cui è ricorso, ossia le dichiarazioni sostitutive di atto notorio rilasciate ai sensi degli artt. 46 e 47 D.P.R. n. 445 del 2000, la natura pubblica dell'atto è stata desunta anche dalla sua naturale destinazione a provare la verità dei fatti in esso affermati, a sua volta ricavabile dalla funzione di comprovare stati, qualità personali e fatti, che le due disposizioni in parola assegnano alle dichiarazioni sostitutive di atti notori e di certificazioni. Del resto, in uno con la lettera della legge, secondo la quale "le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt. 46 e 47, sono considerate come fatte a pubblico ufficiale" e considerato il tenore letterale dell'art. 2699 c.c., che definisce la nozione di atto pubblico in riferimento al soggetto che lo emana secondo le previste formalità, notaio o altro pubblico ufficiale, ed al potere conferitogli ad attribuirgli pubblica fede, deve osservarsi che la stessa legge sulla documentazione amministrativa vuole attribuire alle suddette autodichiarazioni la qualità di atti pubblici; ne deriva, pertanto, l'illiceità penale, da inquadrare in una delle fattispecie astratte previste dal codice in tema di falsità in atti pubblici, nel caso in cui il privato rilasci una dichiarazione, ai sensi degli artt. 46 e 47, che sia falsa. In altri termini, ai fini della consumazione del reato non rileva che tale dichiarazione sia trasfusa in un atto (pubblico) distinto dalla medesima, atteso che, a norma dell'art. 75 legge citata - emanata per venire incontro all'esigenza di semplificazione della documentazioni amministrativa tra pubbliche amministrazioni e privati cittadini - le dichiarazioni sostitutive di certificazioni sono state pienamente equiparate agli effetti penali agli atti pubblici, essendo "considerate come fatte a pubblico ufficiale", il quale ovviamente le raccoglie in un atto pubblico. La prospettazione qui criticata svaluta il disposto dell'art. 76 comma 3, D.P.R. n. 445 del 2000, da cui emerge chiaramente che il significato da attribuire alla disposizione incriminatrice è quello di includere le dichiarazioni rese ai sensi degli artt. 46 e 47 D.P.R. n. 445 del 2000 nel novero degli atti pubblici; nel caso concreto il risultato di tale interpretazione è arricchito in senso confermativo dalla ponderazione della ragione giustificatrice delle norme di riferimento, individuabile nella destinazione probatoria dalla stesse perseguita. 9. Su questi presupposti si innesta il principio, qui da ribadire, secondo cui integra il delitto di cui all'art. 483 c.p. la falsa dichiarazione di trasferimento della propria dimora abituale resa ai fini della iscrizione anagrafica per mutamento della residenza, trattandosi di dichiarazione sostitutiva di atto notorio ai sensi dell'art. 47 del D.P.R. n. 28 dicembre 2000 n. 445 (Sez. 5, n. 31833 del 14/10/2020, Tronconi, Rv. 279834; Sez. 5, n. 29469 del 07/05/2018, Fabbroncino, Rv. 273331). Invero, la dichiarazione di trasferimento della residenza funzionale all'iscrizione nelle liste anagrafiche è una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, giacché contiene una attestazione da parte del privato in merito a fatti che sono di sua diretta conoscenza (il trasferimento della residenza quale conseguenza del trasferimento della propria dimora abituale), anche eventualmente riguardanti altri soggetti, come richiesto dall'art. 47 D.P.R. n. 445 del 2000. Di conseguenza, essendo un atto destinato a provare la verità di un fatto a norma dell'art. 46, lett. b), D.P.R. n. 445 del 2000, collegandosi proprio tale efficacia probatoria al dovere del dichiarante di affermare il vero, la falsa dichiarazione di residenza rientra nella previsione dell'art. 483 c.p.. 10. Nel caso di specie, alla luce di quanto sopra osservato, ai fini della consumazione del falso ideologico è stato sufficiente il rilascio da parte del ricorrente della falsa dichiarazione di residenza, a prescindere dal rilievo che la stessa non sia poi mai stata iscritta nell'Anagrafe del Comune. 11. Per i motivi indicati, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio con trasmissione atti al G.i.p. del Tribunale di Palermo, in diversa composizione fisica, che, nel valutare la richiesta del pubblico ministero di emissione del decreto penale di condanna, si atterrà al principio dinanzi enunciato. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di Palermo, ufficio G.i.p., in diversa composizione fisica per l'ulteriore corso. Così deciso in Roma, il 4 aprile 2023. Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2023
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