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Fede privilegiata ex art. 476 c.p.: criteri di attribuzione e limiti per gli atti redatti da pubblici ufficiali

Falso ideologico

Cassazione penale sez. VI, 19/10/2023, n.15641

In tema di falso documentale, sono documenti dotati di fede privilegiata, ex art. 476, comma 2, c.p., quelli destinati ab initio alla prova, ossia precostituiti a garanzia della pubblica fede, e redatti da un pubblico ufficiale investito di una speciale potestà documentatrice, attribuita da una legge o da norme regolamentari, anche interne, ovvero desumibili dal sistema, in forza delle quali l'atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l'accoglimento della querela di falso o con sentenza penale. (In applicazione del principio, la Corte ha escluso la sussistenza dell'aggravante della fidefacienza con riferimento alle attestazioni contenute negli atti e nelle richieste di amministratori giudiziari e coadiutori, funzionali all'adozione, da parte del giudice delegato, del provvedimento finale di valutazione dei compensi, quest'ultimo munito di pubblica fede fino a querela di falso).

Falso ideologico del pubblico ufficiale: attestazioni o omissioni non veritiere in atto pubblico

Concorso nel reato proprio non esclusivo: responsabilità del non qualificato con il contributo dell'intraneus

Falsa attestazione sulla legittimità di opere edilizie: reato ex art. 20, comma 13, d.P.R. 380/2001

Il registro cimiteriale come atto pubblico fidefacente con presunzione di verità assoluta

Il verbale d'udienza penale: atto pubblico con piena prova ex art. 2700 c.c.

La falsa dichiarazione di trasferimento di dimora abituale configura il reato di falso ideologico ex art. 483 c.p.

Falsa dichiarazione al medico sui sintomi: reato di falso ideologico in atto pubblico

La relata di notifica: atto pubblico fidefacente impugnabile solo con querela di falso

Il verbale d'udienza penale è atto pubblico con piena prova fino a querela di falso

Concorso materiale tra falsità materiale in atto pubblico e false dichiarazioni all'autorità giudiziaria

Inammissibilità parziale del ricorso per cassazione: effetti sui reati unificati dal vincolo della continuazione

Falso ideologico e curatela ereditaria: esclusione del reato per dichiarazioni mendaci dopo l'accettazione dell'eredità

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Caltanissetta, con sentenza del 20 luglio del 2022 (motivazione depositata il successivo 13 gennaio 2023), pronunciandosi a seguito degli appelli presentati dagli imputati, nonché dal pubblico ministero (Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta e Procuratore generale preso la Corte di appello di quel distretto) e da talune delle parti civili, in parziale riforma della pronuncia di primo grado ha per quanto rileva in questa sede: a) dichiarato Sa.Si. responsabile dei reati di cui ai capi 10, 16 e 68 (riqualificando ai sensi degli artt. 361 e 61 n. 9 cod. pen. il fatto contestato in quest'ultimo capo, originariamente rubricato come violazione dell'art. 378 cod. pen.), rideterminando la pena inflitta alla medesima in anni otto, mesi dieci e giorni quindici di reclusione; b) assolto Ca.Se. dai reati di cui ai capi 19, 20 e 21, condannandolo per i reati di cui ai capi 10, 15 e 23 (riqualificando i fatti contestati negli ultimi due capi indicati ai sensi degli articoli 110 e 314 cod. pen.), ritenuta la sussistenza delle circostanze aggravanti contestate in riferimento ai reati di cui ai capi 14 e 22, rideterminando la pena a carico del medesimo in anni sette e mesi sette di reclusione; c) assolto Ca.Lo. dai reati di cui ai capi 19, 20 e 21, condannandolo per i reati di cui ai capi 15 e 23 (riqualificando i fatti contestati ai sensi degli articoli 110 e 314 cod. pen.), ritenuta la sussistenza delle circostanze aggravanti contestate in riferimento ai reati di cui ai capi 14 e 22, confermando la pena al predetto inflitta in primo grado (anni sei, mesi due e giorni dieci di reclusione); d) riconosciuto le circostanze attenuanti generiche a favore degli imputati Sa.Ro., Ca.Em., Na.Ro., Vi.Wa., In.Ma., Ma.Ca. e Di.Ma. (per i primi tre imputati, giudicate prevalenti sulle contestate aggravanti), rideterminando la pena inflitta ai medesimi in anni quattro e mesi due di reclusione per Sa.Ro., in mesi quattro di reclusione per Ca.Lo., in anni due e mesi otto di reclusione per Na.Ro., in anni uno e mesi quattro di reclusione per Vi.Wa., in anni due e mesi otto di reclusione per In.Ma. e Ma.Ca., in anni uno e mesi dieci di reclusione per Di.Ma., al quale concedeva la sospensione della pena inflitta alle condizioni di legge; e) adeguato alle pronunce in tema di responsabilità penale e alla misura delle pene inflitte ai diversi imputati le statuizioni relative alle pene accessorie e al pagamento delle somme, ex art. 322-quater cod. pen., in favore del Ministero della Giustizia; f) esteso gli importi delle confische per equivalente, già disposte in primo grado, a carico di Ca.Se. e Sa.Si., ordinando altresì la confisca delle somme in sequestro in relazione ai capi 15 e 16; g) adottato le conseguenti statuizioni civili, in ordine al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese di giudizio delle parti civili. 2. I fatti in ordine ai quali la Corte nissena ha pronunciato condanna riguardano, in primo luogo, tre contestazioni di corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio che vedono Sa.Si., all'epoca presidente della Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, quale pubblico ufficiale corrotto. Si tratta dei delitti a lei ascritti: al capo 8), nell'ambito del quale Ca.Lo., marito di Sa.Si. e concorrente sul versante passivo della corruzione, viene indicato quale "percettore della più gran parte delle illecite utilità", al capo 30 e al capo 58. Questi ultimi coinvolgono, quali corruttori, rispettivamente, Ca.Se. (capo 9) e Pr.Ca. e Sa.Ro. (capo 31), nonché Na.Ro. (capo 59). 2.1. In particolare, secondo l'impostazione accusatoria, recepita dai giudici di merito, nel primo caso (capi 8 e 9), Sa.Si. avrebbe violato i propri doveri di ufficio, nominando Ca.Se. quale amministratore giudiziario in importanti e lucrose procedure di prevenzione patrimoniali da lei gestite nella qualità di presidente della Sezione e giudice delegato, ottenendo quale corrispettivo da questi il coinvolgimento del proprio marito, Ca.Lo., quale coadiutore in altre amministrazioni di prevenzione, non pendenti presso il Tribunale di Palermo, delle quali Ca.Se. era amministratore giudiziario, nonché, nel corso del tempo, svariate altre utilità e, da ultimo, la consegna di una somma di denaro nell'estate del 2015. 2.2. Nel secondo sistema corruttivo (capi 30 e 31) viene contestato a Sa.Si.di avere, sempre violando i propri doveri di ufficio, nominato - su "input" di Pr.Ca., professore presso l'Università Kore di Enna - Sa.Ro., persona di fiducia del predetto, quale amministratore in svariate e importanti procedure di prevenzione, ottenendo in cambio l'impegno di Pr.Ca. di "seguire il percorso universitario del figlio Em.", che a tale fine si trasferiva presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università Kore di Enna ove si laureava (con una tesi redatta dal Pr.Ca. stesso e falsamente attribuita allo studente), nonché ulteriori utilità di diverso tipo e, da ultimo, la consegna di una somma di denaro nell'estate del 2015. 2.3. Infine (capi 58 e 59), Sa.Si.e Na.Ro. sono stati condannati per il "pactum sceleris", realizzato attraverso la nomina da parte della Sa.Si.di Gi.Ri. - "sponsorizzato" da Na.Ro. ai cui desideri egli era "prono" -quale amministratore giudiziario nella procedura "Vi.Wa.," di Gi.Ri., ottenendo in cambio la promessa da parte di Na.Ro. del coinvolgimento del marito, del figlio Fr. e della di lui fidanzata Ma.Pa. in future occasioni lavorative. 2.4. Sa.Si.è stata altresì condannata per due concussioni, entrambe a danno di Sc.Al., amministratore giudiziario da lei nominato nell'ambito di procedure di prevenzione. La prima, consumata (capo 65), e commessa in relazione alla gestione di un supermercato nella procedura "Sgroi". A Sa.Si.in particolare si contesta di avere, con abuso dei propri poteri e della qualità, costretto Sc.Al. a darle gratuitamente merci e generi alimentari per un valore complessivo di Euro 13.936, debito poi "ripianato" dallo stesso Sc.Al.. Nella seconda concussione, qualificata dal Tribunale come tentata (capo 66) di cui risponde in concorso con Ca.Fr., all'epoca Prefetto di Palermo, si contesta alle imputate di aver tentato di imporre sempre a Sc.Al. l'assunzione, nell'ambito di una procedura di prevenzione dal predetto amministrata, di Ri.Sc., nipote dell'ex Prefetto di Palermo. 2.5. Sa.Si.è stata condannata per ulteriori imputazioni: capo 5, induzione indebita ex art. 319-quater cod. pen., di cui rispondono la predetta quale pubblico ufficiale "inducente", nonché, ai sensi del secondo comma della norma indicata, Vi.Wa. quale "indotto"; capo 10, falsità materiale nella redazione di un provvedimento giudiziario nell'ambito della procedura "Spadaro"; capo 16, relativo al concorso nel delitto di peculato ascritto a Ca.Se. e Ca.Lo. per le somme di denaro versate a quest'ultimo quale coadiutore giudiziario in relazione all'attività falsamente dichiarate dal predetto come svolte in qualità di coadiutore nelle procedure "Bu.Gi." e "Ca.Gi." (per detti due capi l'imputata era stata assolta in primo grado, venendo condannata in appello); capo 35, falsità materiale dei provvedimenti di liquidazione del 9 luglio 2015 in favore di Sa.Ro.; capo 48, falsità ideologica relativa al provvedimento di liquidazione del 24 marzo 2014 a favore del coadiutore Di.Ma.; capo 55, contestazione, di cui risponde in concorso con Pr.Ca., relativa alla falsità nella redazione della tesi di laurea del figlio Ca.Em.; capi 62, 63 e 64, relativi alla rivelazione di segreti di ufficio a Na.Ro., al professor Co.Vi. e a Ca.Se., aventi ad oggetto notizie relative a indagini condotte dalla procura di Caltanissetta in merito alla procedura di prevenzione "Rappa"; capo 68, omessa denuncia aggravata - così riqualificata dalla Corte di appello l'originaria imputazione di favoreggiamento personale -; capi 74, 75 e 76, concorso nei falsi materiali commessi dal magistrato Fa.Li. per l'apposizione, da parte del predetto e su "istigazione" o "autorizzazione" della Sa.Si., della falsa firma della stessa, quale presidente del Collegio di prevenzione, su provvedimenti di liquidazione adottati nelle procedure di prevenzione "Italgas", "Rappa" ed "Evola". 2.6. Vi.Wa.è stato condannato per il già indicato episodio di induzione indebita (a lui contestato al capo 6). 2.7. Ca.Se., oltre che per la corruzione sopra indicata (capo 9), ha riportato condanna: per falso ideologico, in concorso con Sa.Si. (è l'episodio di cui al capo 10); in concorso con Ca.Lo., per falso ideologico aggravato in atto pubblico (in appello è stata ritenuta sussistente la circostanza aggravante di cui al comma 2 dell'art. 476 cod. pen. e conseguentemente riformata la pronuncia di primo grado, che aveva esclusa detta aggravante) e peculato - cosi riqualificata dalla Corte di appello l'imputazione originaria di cui all'art. 640 cod. pen. - in relazione alla vicenda della gestione del "Gruppo Bu.Gi." (capi 14 e 15); in concorso con Sa.Si. e Ca.Lo., per violazione dell'art. 314 cod. pen. in merito alle fatture adottate nell'ambito della gestione del "Gruppo Bu.Gi." (capo 16); in concorso sempre con Ca.Lo., per falso ideologico aggravato - anche in questo caso avendo la Corte territoriale ritenuta la circostanza aggravante di cui al comma 2 dell'art. 476 cod. pen. e riformato sul punto la pronuncia di primo grado - e per peculato (così riqualificata l'originaria l'imputazione di cui all'art. 640 cod. pen.), in merito agli atti adottati nell'ambito della gestione della "procedura Padovani" (capi 22 e 23). 2.8. Ca.Lo. è stato condannato per la corruzione sopra riportata (capo 8) e per gli episodi di falso ideologico e peculato, prima indicati (capi, 14, 15, 16, 22 e 23). 2.9. Pr.Ca. è stato condannato, oltre che per la su riportata corruzione, in concorso con Sa.Ro. (capo 31), ascritta a Sa.Si.al capo 30, per il falso ideologico - sempre in concorso con Sa.Ro. - relativo alle attestazioni, effettuate nell'ambito della procedura "Acanto" dal Sa.Ro. su input del Pr.Ca., e finalizzate a far trasferire un lavoratore - Re.An. - e disporre l'assunzione di altre persone, più gradite (capo 53) e per la redazione, in concorso con Sa.Si., della tesi falsamente attribuita al di lei figlio, Em. e da questi utilizzata in sede di laurea (capo 55). 2.10.Sa.Ro. è stato condannato, oltre che per la corruzione sub capo 31 e per il falso ideologico già indicato (capo 53), per tre episodi di peculato e falso ideologico, in riferimento alle attività svolte da In.Ma. e Ma.Ca., nominate coadiutrici da Sa.Ro. nell'ambito delle procedure "Ingrassia" e "Vetrano", e per le quali sarebbero state falsamente attestate attività mai effettuate e liquidati i relativi compensi (capi 37, 38, 41 e 42), per un ulteriore peculato e falso in atto pubblico aggravato, avente ad oggetto la liquidazione a favore del professore Di.Ma., nominato nell'ambito della procedura "Ingrassia" coadiutore "consulente giuridico per i rapporti tra PA e mercato", del compenso per euro 2.000 oltre IVA e Cpa, relativo ad attività ritenuta inesistente e falsamente attestata (capi 45 e 46), nonché per il falso ideologico aggravato, avente ad oggetto attestazioni circa le bombole della società "Elgas" (capo 50). 2.11. Na.Ro. è stato condannato per la già menzionata corruzione a lui contestata al capo 59 e ascritta a Sa.Si.sub capo 58. 2.12. Ca.Fr. è stata condannata per la tentata concussione, in concorso con Sa.Si., di cui al capo 66. 2.13. Di.Ma. ha riportato condanna per la fattispecie di peculato, in relazione alla vicenda della liquidazione del compenso per le attività, giudicate falsamente attestate, nell'ambito della procedura nella quale, come già riportato, egli era stato nominato coadiutore (capo 45). 2.14. In.Ma. e Ma.Ca. sono state condannate per peculato e falso ideologico, in relazione alle liquidazioni dalle stesse ottenute per attività, ritenute mai effettuate, attestate dalle predette, nominate coadiutrici dal Sa.Ro. nell'ambito delle procedure "Ingrassia" e "Vetrano" (capi 37 e 41). 2.15. Ca.Em. è stato condannato per la falsa attribuzione della tesi di laurea (in realtà redatta dal Pr.Ca.) e per l'utilizzo della medesima nel relativo esame (capo 54). 3. Avverso la sentenza di appello tutti gli imputati hanno, a mezzo dei propri difensori, presentato ricorsi i cui motivi vengono, ai sensi dell'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., di seguito sinteticamente riportati. 4. Nell'interesse di Sa.Si. sono stati dedotti i seguenti motivi. 4.1. In relazione al capo 5 (induzione indebita ex art. 319-quater cod. pen., di cui risponde quale "privato" anche Vi.Wa.) si eccepisce violazione di legge penale e travisamento della prova, non essendo emersi concreti elementi idonei a dimostrare che l'imputata abbia posto in essere condotte induttive finalizzate a far assumere Ma.Pa. (all'epoca fidanzata del figlio Fr.) presso lo studio Vi.Wa. 4.2. In relazione al capo 8 (nel quale viene contestato il primo degli episodi di corruzione, di cui rispondono, come detto, anche Ca.Lo., a titolo di concorso, e Ca.Se. quale corruttore) vengono dedotti quattro motivi. Con il primo si evidenzia il "disallineamento logico-temporale" tra l'oggetto del presunto accordo corruttivo, individuato come intervenuto nel 2010, e la supposta ultima utilità, consistente nella dazione/ricezione della somma di denaro fissata nel giugno 2015; dazione che, ove avvenuta, trova esclusiva causa in una situazione di difficoltà economica contingente e non prevedibile né preventivabile quale oggetto dell'originario accordo. Nel secondo motivo si eccepisce violazione di legge in relazione all'art. 2, quarto comma, cod. pen., in riferimento alla disciplina sanzionatoria applicabile in ragione del tempus commissi delieti, avendo la sentenza impugnata fatto erronea applicazione retroattiva della novella normativa del 2015 in relazione a delitto connotato dalla circostanza che il pactum sceleris si sarebbe formato nel 2010 (e al riguardo si richiama il principio fissato da Sez. U, n. 40986/2018, Pittala). Con il terzo motivo, si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata in relazione alla ritenuta sussistenza di prova in merito all'accordo corruttivo Sa.Si. Ca.Se., che i giudici di merito hanno fondato su una serie di circostanze che vengono analiticamente contestate. Con il quarto motivo, in relazione alla imputazione avente a oggetto la consegna della somma di 9.500 Euro alla ricorrente da parte di Ca.Se. la sera del 30 giugno 2015, si deduce, oltre alla violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e fatto ritenuto in sentenza, l'illogicità della motivazione della sentenza di appello nella parte in cui, pur dovendo ammettere che l'espressione "documenti", cui si riferiscono Sa.Si.e Ca.Se. in relazione all'incontro che deve avvenire tra i due, può riferirsi alla documentazione relativa ad atti delle procedure nelle quali Sa.Si.era giudice delegato e Ca.Se. amministratore giudiziario, in modo apodittico sostiene che non si può escludere che nell'incontro abbia anche avuto luogo la consegna del denaro, nonché la mancata valutazione dell'elaborato tecnico della difesa redatto dal dott. Scimone, che dimostrava che i versamenti di 9.500 Euro effettuati sui conti correnti dalla Sa.Si.nel mese di giugno 2015 trovavano la loro legittima provvista in prelievi effettuati precedentemente e nell'incasso di un assegno di 5.000 Euro. 4.3. In riferimento alla condanna relativa al capo 10 (falsità materiale del decreto di liquidazione disposta nella procedura "Spadaro"), si deduce: violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla ritenuta prova della sussistenza della falsità materiale; violazione del principio dell' oltre ogni ragionevole dubbio", necessario per l'affermazione di penale responsabilità, nonché l'assenza di "motivazione rafforzata" per l'intervenuta condanna in sede di appello per tale capo a fronte dell'assoluzione pronunciata in primo grado. 4.4. In merito alla condanna pronunciata dalla Corte di appello per il capo 16 (concorso di Sa.Si.nel delitto di peculato ascritto a Ca.Se. e a Ca.Lo. per le somme di denaro versate a quest'ultimo quale coadiutore giudiziario nelle procedure "Bu.Gi." e "Ca.Gi.; fatto questo in ordine al quale Sa.Si., assolta in primo grado, è stata condannata in appello) si deducono tre motivi. Il primo è relativo a violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della fattispecie di peculato. Con il secondo motivo si eccepisce l'assenza di motivazione rafforzata per l'intervenuta condanna in sede di appello per tale capo a fronte dell'assoluzione in primo grado. Con il terzo motivo, infine, ci censura la decisione della Corte territoriale per la violazione dei requisiti minimi per ritenere configurabile il concorso della ricorrente (risultando insufficiente il mero dato che le somme di denaro presunto provento del peculato siano confluiti sul conto cointestato anche all'imputata). 4.5. In riferimento alla condanna per il delitto sub capo 30 (rapporto corruttivo Sa.Si.- Pr.Ca. - Sa.Ro.), si deducono i seguenti motivi. Violazione di legge in relazione all'art. 2, quarto comma, cod. pen., in ordine alla disciplina sanzionatoria applicabile in ragione del tempus commissi delieti (anche in questo caso rilevandosi l'erronea applicazione retroattiva della novella normativa del 2015 che ha elevato la pena per il delitto di corruzione, in relazione a delitto connotato dalla circostanza che il pactum sceleris si sarebbe formato nel 2013). Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta prova della sussistenza del rapporto corruttivo, qualificato sub art. 319 cod. pen.; al riguardo, si sostiene che difettano gli elementi per poter affermare che Sa.Si.abbia posto in essere atti contrari alla legge, atteso che l'art. 35 del codice antimafia prevede espressamente che il Giudice delegato possa autorizzare l'amministratore giudiziario a farsi coadiuvare sotto la propria responsabilità da tecnici e altri soggetti qualificati (atto, questo, non autonomamente impugnabile). Si contesta infine la sussistenza dei singoli "atti antidoverosi", oggetto di indicazione nel capo di imputazione. 4.6. In riferimento alla falsità materiale dei provvedimenti di liquidazione del 9 luglio 2015 in favore di Sa.Ro. (capo 35, fatto in ordine al quale Sa.Ro. e Pr.Ca. sono stati assolti in primo grado), si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta falsità materiale in ordine alla provenienza collegiale dei provvedimenti, atteso che in realtà la camera di consiglio, ancorché eventualmente in modo informale, si era effettivamente svolta. 4.7. In merito alla condanna relativa al capo 48 (falsità ideologica relativa al provvedimento di liquidazione del 24 marzo 2014 a favore del coadiutore Di.Ma.) si eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione (anche sub specie di travisamento della prova), evidenziandosi che la falsità viene contestata in riferimento ad attestazione (l'aver cioè il Di.Ma., svolto attività di "consulenza giuridica nei rapporti tra imprese sottoposte a amministrazione giudiziaria") che non è affatto rinvenibile nel suddetto provvedimento di liquidazione che, invece, fa riferimento alla sola attività di immissione in possesso per la quale non vi è contestazione alcuna. 4.8. In ordine all'affermazione di penale responsabilità per la falsità nella redazione della tesi di laurea del figlio Ca.Em. (capo 55), si deduce violazione di legge e vizio di motivazione atteso che - quand'anche si dovesse ipotizzare che la tesi non sia opera dello studente, ma del professor Pr.Ca. o di altri - non vi è prova di un concorso nella falsificazione da parte della ricorrente. 4.9. Per la condanna relativa al capo 58 (rapporto corruttivo Sa.Si./Na.Ro.) si deduce violazione di legge e vizio di motivazione sia per l'assenza di qualsiasi vantaggio per Na.Ro. (presunto corruttore), aspetto, questo, che la Corte territoriale ha illogicamente ritenuto "irrilevante", che per la qualificazione in termini di corruzione propria, errata atteso che la nomina del Gi.Ri. non è connotata da profili di illegittimità. 4.10. In merito all'affermazione di penale responsabilità per le rivelazioni di segreto di ufficio (capi 62-63-64) si eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione (anche sub specie di travisamento della prova), evidenziandosi la illogicità della motivazione della Corte di appello, dal momento che Fa.Li., magistrato della Sezione Misure di prevenzione di Palermo, che aveva riferito dette notizie a Sa.Si., è stato assolto in via definitiva (da altra sezione della Corte di appello) e la posizione di Da.Sc., altro magistrato che ha fornito a Fa.Li. le notizie da questi poi riferite a Sa.Si., è stata archiviata dal Gip di Milano per "mancanza di specificità e concretezza" di quanto riferito al Fa.Li. Tali conclusioni, avvalorate anche dalle prove emerse nel giudizio, vengono totalmente e irragionevolmente ribaltate dalla sentenza impugnata che non tiene neppure conto dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine all'insussistenza del reato quando le rivelazioni siano funzionali all'esercizio del diritto di difesa. 4.11. Per la condanna del reato sub capo 65 (concussione consumata a danno di Sc.Al. , nominato dalla ricorrente amministratore giudiziario nella procedura "Sgroi" nel cui ambito questi gestiva dei supermercati), si deduce violazione di legge e vizio di motivazione anche in ordine alla qualificazione giuridica del fatto. In particolare, si evidenzia l'assenza di prova in ordine ad una condotta "costrittiva" posta in essere da Sa.Si.(e neppure di una effettiva "minaccia" che, ancorché "implicita", deve essere percepita dalla persona offesa) non essendo sufficiente un mero "timore reverenziale", specie tenuto conto del pacifico rapporto di amicizia e di frequentazione tra i due e della particolare situazione di difficoltà economica nella quale si era venuta a trovare in quel periodo la famiglia Sa.Si.-Ca.Lo.; in subordine, si invoca la riqualificazione del fatto ex art. 319-quater cod. pen. 4.12. In merito all'affermazione di penale responsabilità per l'altra concussione - tentata e in concorso con Ca.Fr. - sempre a danno di Sc.Al. (capo 66), si deduce violazione di legge e vizio di motivazione anche in ordine alla qualificazione giuridica del fatto. Nella specie, reiterandosi le argomentazioni già illustrate sub capo 65, si eccepisce, sulla base delle dichiarazioni rese da Sc.Al. nel dibattimento, l'assenza di qualsiasi prova in ordine ad una condotta "costrittiva". In subordine, si invoca anche in riferimento a detta imputazione la riqualificazione del fatto ex art. 319-quater cod. pen. 4.13. In ordine alla condanna per il delitto di omessa denuncia aggravata sub capo 68 (avendo in tali termini la Corte di appello diversamente qualificato la originaria contestazione di favoreggiamento personale aggravato nell'ambito della procedura "Lo Piccolo"), si evidenzia la non configurabilità del reato, atteso che non è emersa prova alcuna circa la volontà della ricorrente di "non denunciare" i fatti, e si richiama al riguardo la giurisprudenza della Cassazione dalla quale si evince l'impossibilità di qualificare la condotta della ricorrente come omessa denunzia. 4.14. In riferimento al concorso materiale nei tre episodi di falso materiale in atto pubblico, aggravato dalla "fidefacienza" - relativi ai provvedimenti di liquidazione adottati nelle procedure di prevenzione "Italgas", "Rappa" ed "Evola" (capi 74-75-76), commessi dal magistrato Fa.Li., di cui la ricorrente risponde a titolo di concorso - si deduce, oltre all'assenza di prova in ordine alla falsità della firma, la carenza di elementi idonei a ritenere che, quand'anche le firme siano false e siano state apposte dal Fa.Li., possa individuarsi un contributo concorsuale a carico della Sa.Si., asseritamente indicato dalla Corte di appello in un non meglio precisato "rafforzamento" dell'altrui volontà criminosa. 4.15. Infine, in riferimento alle statuizioni di condanna, si censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata concessione all'imputata delle circostanze attenuanti generiche, apoditticamente negate nonostante lo stato di incensuratezza e i trascorsi professionali, e alla mancata indicazione dei criteri alla cui stregua sono stati operati gli aumenti ex art. 81 cod. pen. (in violazione del principio di diritto affermato da Sez. U, n. 47127/2021). 5. In favore di Ca.Se., sono stati proposti due ricorsi. 5.1. Nel primo, a firma dell'Avvocato Vi.Ma., vengono, in relazione al delitto rubricato al capo 9 (accordo corruttivo Sa.Si./Ca.Lo./Ca.Se.), dedotti i seguenti motivi. 5.1.1. Primo motivo: violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. per illegittima immutazione da parte dei giudici di merito del fatto contestato, atteso che la individuazione dell'accordo corruttivo in epoca precedente alla nomina della dottoressa Sa.Si. quale Presidente della Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo (funzione ricoperta solo a partire dal 2010) ha determinato una inammissibile modificazione dell'imputazione (che faceva riferimento alla "vendita" di funzioni connesse alla Presidenza di tale sezione). 5.1.2. Con il secondo motivo si eccepisce ulteriore inosservanza dell'art. 521 cod. proc. pen. in riferimento alla contestazione di peculato nella procedura "Bu.Gi." (sub capo 16): episodio, questo, non indicato al capo 8, ma illegittimamente considerato dalla Corte di appello quale elemento del pactum sceleris. 5.1.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in merito all'assenza di concreti elementi indiziari relativi alla sussistenza della contestata corruzione, con particolare riferimento alla prova dell'instaurazione del pactum sceleris, la cui motivazione è affetta da "radicale aporia argomentativa", in riferimento: alla individuazione "oltre ogni ragionevole dubbio" del tempo della stipula di detto patto (ciò in considerazione dei pregressi leciti rapporti professionali con Ca.Lo. che aveva svolto la funzione di coadiutore in procedure amministrate dal ricorrente sin dal 2006, dunque assai prima dunque dell'assunzione da parte della Sa.Si. della funzione di presidente della sezione misure di prevenzione); alla apoditticità della deduzione secondo cui gli incarichi di coadiutore attribuiti a Ca.Lo. nelle procedure di cui Ca.Se. era amministratore giudiziario troverebbero la propria causale nel pactum sceleris; alla mancanza assoluta di motivazione in ordine agli indici probatori circa l'effettivo contenuto dell'accordo corruttivo - come delineati da questa Corte, in particolare con la sentenza Sez. 6, n. 18125/2020, c.d. "mafia Capitale" - in riferimento altresì alla scelta della Corte di appello di ritenere configurabile la fattispecie di corruzione propria, nonostante non sia stato in alcun modo dimostrato che il presunto accordo avesse per oggetto il compimento di atti contrari ai doveri di ufficio. In particolare, si evidenzia che l'illogicità della motivazione circa la configurabilità della fattispecie di corruzione emerge: 1) dalla situazione concreta, atteso che quanto emergente dalle intercettazioni del 2015 doveva essere inquadrato alla luce della situazione di particolare difficoltà economica della famiglia della Sa.Si., solo allora, e non prima, intervenuta, ed è quindi erroneo far "retroagire" il significato attribuito a tali conversazioni ad un contesto di cinque anni precedente, del tutto diverso; 2) dal "movente" della condotta del presunto corruttore, evidenziandosi che già prima del supposto patto corruttivo Ca.Se. era stato nominato in moltissime procedure di prevenzione, a Palermo e in altri Tribunali, di tal che non si comprende, né la sentenza impugnata evidenzia, quale "illecito vantaggio" (che altrimenti non gli sarebbe pervenuto) egli si potesse attendere dalla stipulazione del pactum sceleris-, 3) dalla condotta in concreto compiuta dal pubblico agente, rilevandosi che Sa.Si. ha continuato ad avvalersi dell'opera di Ca.Se. nelle procedure di prevenzione, così come già avevano fatto i suoi predecessori; 4) dalla "modalità di corresponsione del prezzo" della dedotta corruzione, risultando irragionevole l'affermazione della Corte di appello, sfornita di qualsivoglia riscontro probatorio, secondo cui il rapporto professionale tra Ca.Se. e Ca.Lo., in corso da molto tempo prima la stipulazione del presunto pactum sceleris, si sia poi trasformato in "mera occasione di retribuzione della Sa.Si. quale prezzo della corruzione e per la generale protezione degli interessi del Ca.Se. che ella garantiva"; 5) dalla mancata motivazione in ordine alla prova dell'effettivo contenuto del pactum sceleris e ai riflessi in ordine all'individuazione della tipologia di incriminazione rilevante (corruzione per esercizio della funzione; corruzione propria; concussione), rilevandosi che, attesa la mancata conoscenza del contenuto del patto, non è possibile individuare la fattispecie in concreto configurabile, anche se in realtà da più elementi (una conversazione intercettata tra la Sa.Si.e il collega Fa.Li. intercorsa l'8 luglio 2015 nel tribunale) emerge un rapporto - non paritario - ma di "prevaricazione" della Sa.Si.nei confronti del Ca.Se.; 6) dall'intrinseca insufficienza/irrilevanza del mero dato della contestualità tra gli atti del pubblico ufficiale "corrotto" (conferimento di incarichi ad amministratore giudiziario da parte della Sa.Si.) e le utilità fornite dal privato "corruttore" (richieste di nomina del Ca.Lo. quale coadiutore) - contestualità, peraltro limitata agli anni 2011/2012 e che di per sé non può dimostrare l'illiceità del rapporto in assenza di finalizzazione delle utilità fornite dal privato all'impegno del pubblico ufficiale a futuri comportamenti contrari ai doveri di ufficio o alla illecita remunerazione di un già attuato comportamento contrario ai doveri di ufficio; ciò a fortiori nel caso in cui la "utilità" è asseritamente corrisposta a un terzo (nel qual caso è indispensabile la prova convincente dell'accordo corruttivo, nella specie inesistente); 7) dall'omessa valutazione del carattere innovativo del patto, derivante dalla, presunta, dazione nel 2015 di una somma di denaro da parte del Ca.Se., rilevandosi che, rispetto alle "utilità" precedente versate, secondo la sentenza impugnata, dal predetto e che troverebbero la propria fonte nel pactum del 2010, l'episodio relativo alla dazione del denaro in contanti assume un carattere del tutto diverso, in ragione del quale non è possibile includere tale fatto all'interno del complessivo rapporto corruttivo, quale "ultima utilità", considerato anche che il contesto dell'episodio avvalora l'ipotesi che tale dazione, ove mai avvenuta, sia stata la conseguenza di una condotta prevaricatrice da parte di Sa.Si. 5.1.4. Nel quarto motivo, declinato come violazione di legge e vizio di motivazione, si censura la sentenza della Corte territoriale in ordine alla asserita "antidoverosità" degli atti compiuti dal pubblico ufficiale e alla conseguente eventuale qualificazione dei fatti come corruzione per l'esercizio della funzione. Sul punto, si deduce che la sentenza impugnata ha fatto discendere la contrarietà ai doveri di ufficio degli atti posti in essere dalla Sa.Si. a vantaggio di Ca.Se. dal "depotenziamento delle funzioni presidenziali della medesime, inficiate ab origine dall'accordo corruttivo" (condizionamento e "torsione" del pubblico interesse alle esigenze privatistiche del pubblico ufficiale), ma non si è posta, alla luce dei principi dettati dalla sentenza della Sesta Sezione di questa Corte c.d. "mafia Capitale", il problema di individuare concretamente sotto quale profilo gli atti di nomina di Ca.Se., pacificamente aventi natura discrezionale, fossero contrari ai doveri di ufficio. 5.1.5. Il quinto motivo censura - per violazione di legge e vizio di motivazione - l'affermazione di condanna per tale imputazione in relazione alla corretta determinazione del paradigma criminoso di riferimento alla luce delle esigenze di determinatezza del tipo legale (Corte cost., sent. nn. 24 e 25 del 2019 e 98 del 2021); la mancata precisa individuazione del contenuto del pactum sceleris ha infatti determinato anche una violazione del principio di tipicità della fattispecie penale, atteso che la Corte di appello ha sul punto reso una motivazione apparente, rendendo impossibile il diverso confronto tra "tipo legale" e fatto concretamente posto in essere. 5.1.6. Con il sesto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla ritenuta erronea qualificazione da parte della Corte territoriale della corruzione quale "reato permanente", con conseguente illegittima applicazione della cornice edittale vigente nel 2015, anziché quella del 2010 (epoca della stipulazione del presunto pactum sceleris). Sul punto si evidenzia che - attesa la mancata ricostruzione del contenuto del pactum sceleris e l'evidente diversità ontologica dalla dazione di denaro del 2015, rispetto alle precedenti "utilità" (dazione non riconducibile all'originario patto illecito) - non può ritenersi, come ha fatto la sentenza impugnata, che si sia in presenza di fatto di corruzione la cui commissione ha avuto termine nel 2015. Invece, alla luce della distinzione tra reato commesso e reato consumato, si evidenzia che ai fini di individuare il tempus commissi delieti, in riferimento alla sanzione applicabile ex art. 2 cod. pen., è necessario basarsi sul momento di commissione del reato (ossia quando la fattispecie è completa nei suoi estremi oggettivi e soggettivi), che può non coincidere con quello di consumazione. Sul punto si richiama la sentenza delle Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, Pittala, deducendosi che, anche a voler ritenere che in riferimento alla corruzione essa decorra dalla percezione dell'utilità, nondimeno la commissione del reato, rilevante per individuare il discrimen tra successione di norme sanzionatone, va ancorata alla stipulazione del pactum sceleris, nel caso di specie avvenuta nel 2010. 5.1.7. Nel settimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla confisca per equivalente disposta nei confronti di Ca.Se. per un valore eccedente l'importo complessivo del profitto/prezzo dei reati di cui ai capi 9, 15 e 16 dell'imputazione, evidenziandosi che è illegittimo e irragionevole ritenere che l'intera somma costituita dagli onorari percepiti dall'imputato possa essere ritenuta oggetto di confisca per equivalente, atteso che inserendosi la vicenda in un rapporto a prestazioni corrispettive in sé non illegale, sarebbe stato necessario - alla luce dei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità - scomputare da tali somme i costi/oneri affrontato dal reo per la realizzazione dell'attività lecita; principi, questi, ai quali la pronuncia impugnata non si è in alcun modo attenuta. 5.2. Con il secondo ricorso presentato in favore di Ca.Se., a firma dell'Avvocato Va.Sp., vengono dedotti i seguenti motivi. 5.2.1. Con il primo motivo si eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla qualificazione in termini di corruzione dei rapporti intercorsi tra Ca.Se., da un lato, e Sa.Si. e Ca.Lo., dall'altro (capo 9). Sul punto, si rileva che: a) censurabile risulta la tecnica di redazione della sentenza di appello che, a fronte di ampia esposizione delle statuizioni del Tribunale e dei motivi di gravame, degli imputati e del PM, non opera poi un adeguato esame delle doglianze difensive e delle ricostruzioni alternative dei fatti proposte con l'appello; da ciò deriva, secondo il ricorrente, il vizio di motivazione, particolarmente riguardo all'esatta individuazione della tempistica e del contenuto del pactum sceleris, che viene determinato in "modo perplesso"; b) l'individuazione degli atti del pubblico ufficiale che sarebbero stati oggetto di mercimonio, qualificati come "scambio di nomine", non è supportata da convincenti argomentazioni, risultando insufficiente il criterio della "contestualità" tra le nomine di Ca.Se. ad amministratore giudiziario da parte della Sa.Si.e quelle, quale coadiutore, di Ca.Lo. (tre nel 2011 e tre nel 2012), e ciò sulla base del presunto patto corruttivo stipulato nel 2010. Ancora, apodittica è l'affermazione secondo cui le nomine di Ca.Se. sarebbero solo formalmente collegiali, ma in realtà decise unilateralmente dalla Sa.Si., così come non vi è alcun elemento da cui poter dedurre "pressioni" della predetta Sa.Si. sugli altri componenti del collegio; per altro verso, indiscutibile era l'esperienza e adeguatezza della struttura organizzativa dell'imputato nella gestione delle procedure relative alle misure di prevenzione patrimoniali. Da tutto ciò, si rileva, emerge una assolutamente plausibile "spiegazione alternativa lecita" per il conferimento degli incarichi conferiti dalla presidente Sa.Si.all'imputato. Indimostrato è anche il presunto "trattamento di favore" rispetto agli altri coadiutori e collaboratori che Ca.Lo. avrebbe ottenuto da Ca.Se. in relazione alle anticipazioni ricevute sui compensi maturati, nonché per il conferimento a suo favore di "incarichi non necessari o opportuni", con particolare riferimento alla procedura "Bu.Gi.", e ciò per l'intervento della Sa.Si.che avrebbe interloquito con l'imputato per favorire illecitamente il marito, "interlocuzioni" che comunque possono collocarsi solo nel 2015, quando si è verificata una grave crisi economica per la famiglia, e sono comunque spiegabili alla luce del rapporto fiduciario che si era venuto a creare nel tempo con l'imputato; così come è irrilevante la circostanza che i compensi a favore del Ca.Lo. confluissero su conti correnti cointestati a entrambi i coniugi né i giudici di merito spiegano come tale dato rileverebbe per dimostrare l'illiceità dei rapporti. Non è poi vero, come emerso da varie emergenze probatorie testimoniali (tra cui ben sette testimoni sentiti in primo grado, da cui il travisamento della prova del quale è affetta la sentenza impugnata), che gli incarichi di coadiuzione a Ca.Lo. fossero fittizi o "inutili", evidenziandosi che la sostituzione di Ca.Lo. nella procedura "Bu.Gi." è derivata dall'opportunità, espressa dal Presidente della Corte di appello dottor Na. a seguito del clamore mediatico prodottosi, che il marito della Sa.Si.non svolgesse attività nell'ambito di procedure nelle quali Ca.Se. era amministratore giudiziario. Si aggiungono ulteriori considerazioni relativamente alla mancanza di significato della c.d. "vicenda Gu.Mu." - relativa alla richiesta, formulata nel 2015, della Sa.Si.al collega dottor Gu.Mu., Presidente della Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Roma, di nominare in qualche procedura l'imputato quale amministratore giudiziario, affinchè questi a sua volta facesse sì che Ca.Lo. venisse nominato coadiutore - dalla quale la Corte d'appello pretende di trarre elementi per dare concretezza alla presunta stipula di un patto corruttivo che sarebbe stato concluso ben cinque anni prima. 5.2.1.1. Vengono inoltre presi in considerazione gli ulteriori "atti antidoverosi" asseritamente adottati dalla presidente Sa.Si.in adempimento del pactum sceleris in favore di Ca.Se.: liquidazione nella "procedura fratelli Sa.", in ordine alla quale si evidenzia la correttezza del provvedimento adottato dalla Sa.Si., attestato sui "valori medi" dei parametri e l'irrilevanza della vicenda relativa al presunto "tentativo di condizionamento" ad opera della Sa.Si., in concorso con la Ca.Fr., della decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia che doveva decidere il ricorso del Ministero della Giustizia avverso la sentenza del TAR di Palermo che aveva dato il "via libera" al pagamento a favore del ricorrente; liquidazione nella procedura "Aiello" di compensi professionali a favore dell'imputato e a carico delle società sanitarie del Gruppo per attività di assistenza legale prestata a favore delle stesse, per la quale si rileva come il provvedimento della Sa.Si.fosse assolutamente legittimo; provvedimento adottato dalla predetta il 23 aprile 2012 nell'ambito della procedura "Maranzano" di autorizzazione a Ca.Se. a servirsi per l'attività amministrativa di segreteria nella gestione del compendio sequestrato della società Legai Gest Consulting a lui riconducibile, del quale si evidenziano la legittimità della autorizzazione, l'assenza di oneri per la procedura, atteso che i costi dell'utilizzo della società nella gestione sono stati sopportati dall'imputato, nonché la mancanza di un qualsiasi vantaggio per Ca.Se., illogicamente individuato dalla Corte territoriale in un presunto "risparmio fiscale"; la asserita falsificazione -contestata al capo 10 - del provvedimento di liquidazione di 120.000 Euro, oltre IVA e CPA, fatto apparire come emesso dal Tribunale collegiale il 23 giugno 2015 nella procedura "Fr. Paolo Sbeglia", ma in realtà riferibile alla sola Sa.Si., che lo avrebbe formato "sotto dettatura del C.S.", per la quale l'assoluzione in primo grado, fondata su "un ragionevole dubbio circa l'effettivo svolgimento di una preventiva camera di consiglio, ancorché informale", è stata, in violazione delle regole dettate dalla giurisprudenza per Yoverturning, illegittimamente ribaltata in appello senza considerare che, a prescindere dall'organo che lo ha realmente emesso, l'atto non è illecito atteso che nessun elemento è emerso in ordine al fatto che il suo contenuto avrebbe dovuto essere diverso, come è dimostrato dalla circostanza che dopo la sospensione dalle funzioni della Sa.Si.il Tribunale collegiale ha convalidato la precedente liquidazione, difettando in ogni caso la motivazione in merito alla prova che l'atto della Sa.Si.abbia trovato causa nel patto corruttivo. Vengono esaminati una serie di ulteriori atti, adottati da Sa.Si., ritenuti dalla sentenza impugnata, non antidoverosi, ma comunque sintomatici "dell'asservimento della funzione" in favore dell'imputato, evidenziandosi le gravi carenze e la illogicità della motivazione su tali profili. 5.2.1.2. Un ulteriore profilo di criticità viene ravvisato nella parte della sentenza di appello che individua le utilità che Ca.Se., nell'ambito del pactum sceleris, avrebbe illecitamente conferito a Sa.Si. In particolare, in merito alle nomine di Ca.Lo., si rinvia a quanto ampiamente già riportato; per i pagamenti corrisposti dall'imputato a Ca.Lo. nell'ambito della "procedura Calcestruzzi", si rileva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, anche a seguito del travisamento di quanto riferito dal testimone Gi.Ba., in merito alla presunta "duplicazione" di pagamenti, in realtà inesistente, considerato anche l'ulteriore incarico attribuito al Ca.Lo., avente ad oggetto l'accesso e la visione dei siti dismessi della soc. Calcestruzzi; per i pagamenti a Ca.Lo. nell'ambito delle procedure "Ag.Ig.", "Ag.Di." e "Ta.", si eccepisce il travisamento della prova in merito all'asserita duplicazione di pagamenti in favore del marito della Sa.Si., quale "prezzo della corruzione"; per la procedura ("Omissis"), si eccepisce carenza e illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di appello ha validato l'argomentazione della sentenza di primo grado secondo cui in detta procedura l'utilità ricevuta da Sa.Si.sarebbe coincisa con la nomina del di lei marito quale coadiutore; per la procedura (Omissis) si deduce illogicità della motivazione nella parte in cui, perpetuando il "difetto iniziale", la Corte territoriale ha interpretato le emergenze istruttorie alla luce di una indimostrata riconducibilità dei rapporti tra l'imputato e Ca.Lo. all'esecuzione del pactum sceleris, non superando i rilievi difensivi in merito alla congruità delle somme pagate a Ca.Lo. per le attività effettivamente svolte da questi; in ordine ai presunti pagamenti in eccesso ricevuti da Ca.Lo. nell'ambito della procedura (Omissis), si evidenzia il vizio di motivazione della sentenza di appello nella parte in cui ha ritenuto la sproporzione tra quanto percepito da costui dal precedente coadiutore senza tener conto che quest'ultimo aveva svolto attività di minor rilievo e per un ridotto periodo di tempo; viene anche affrontato l'aspetto - su cui si e soffermata la Corte di appello - relativo alla "segregazione delle contabilità e alle anticipazioni ai collaboratori", rilevando come le asserite "duplicazioni" dei pagamenti a Ca.Lo. sono solo "apparenti" in quanto derivanti da annotazioni contabili e non da effettivi doppi esborsi di denaro. 5.2.1.3. Infine, in relazione alla ritenuta responsabilità penale per l'asserita dazione da parte di Ca.Se. della somma di Euro 9.500 alla Sa.Si.il 30 giugno 2015, si evidenzia, anzitutto, la circostanza che la contestazione faceva riferimento a 20.000 Euro; inoltre incongrua è la motivazione relativa alla ricostruzione dei fatti operata dalla sentenza impugnata (di cui si denuncia la illogicità e contraddittorietà). 5.2.2. Con il secondo motivo, sempre riferito alla condanna per il capo 9, in via subordinata si censura - con argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili rispetto a quelle, aventi il medesimo oggetto, contenute nel ricorso a firma dell'Avvocato Vi.Ma. - la sentenza impugnata in ordine alla ritenuta configurabilità della corruzione ex art. 319 cod. pen. (in contrasto con i principi elaborati sul punto dalla Cassazione). 5.2.3. Con il terzo motivo - relativo al capo 10 - si evidenzia che per tale reato Ca.Se. era stato assolto in primo grado, residuando un ragionevole dubbio in merito alla circostanza che, in realtà, il deposito del provvedimento era stato effettuato dopo la celebrazione di una camera di consiglio, ancorché informale, con gli altri componenti del collegio; tale conclusione è stata illogicamente ribaltata dalla Corte di appello sulla base della fallace interpretazione di una parte della conversazione intercettata svolta dal giudice Fa.Li.; in ogni caso non è stato chiarito quale sarebbe stato il contributo del ricorrente e nella commissione del falso, atteso che Ca.Se. neppure sapeva che non si era svolta la camera di consiglio e comunque la falsità si sarebbe perfezionata solo al momento del deposito del provvedimento (fase, questa, rispetto alla quale l'imputato è certamente estraneo). 5.2.4. Con il quarto motivo - che attinge il capo 13-ter (abuso di ufficio relativo alla vicenda dell'utilizzo della società Legai Gest) - si evidenzia che il reato è prescritto (pur non avendo la Corte di appello adottato la relativa declaratoria) ma che l'imputato ha interesse all'assoluzione nel merito, e si deduce l'assenza di qualsivoglia elemento che possa dimostrare, da un lato, un ingiusto vantaggio patrimoniale a favore dell'imputato, dall'altro lato, l'esistenza dell'elemento soggettivo del dolo intenzionale in capo al ricorrente. 5.2.5. Con il quinto motivo - relativo alla condanna per il reato di cui al capo 14 (falso in atto pubblico relativo alla procedura (Omissis), in riferimento all'istanza depositata dall'imputato il 29 marzo 2012 finalizzata a far ottenere al coadiutore Ca.Lo. un aumento del compenso) - si contesta che fossero affette da falsità le attestazioni presenti nell'istanza rivolta al Giudice delegato evidenziandosi la illogicità manifesta e la contraddittorietà della motivazione di condanna che non ha considerato che, al contrario, le emergenze istruttorie hanno dimostrato come il contenuto della richiesta fosse assolutamente aderente alla realtà dei fatti. 5.2.6. Il sesto motivo - afferente al reato di peculato di cui al capo 16 -deduce vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del delitto di cui all'art. 314 cod. pen.; in particolare, si contesta che l'attività svolta da Ca.Lo., per la quale è stata disposta dal ricorrente la liquidazione dei compensi, fosse già ricompresa nell'incarico evidenziando che questo faceva riferimento alla sola "immissione in possesso" mentre quella avente ad oggetto la "stima e valutazione" era ulteriore e non ricompresa nell'originario incarico. 5.2.7. Con il settimo motivo si eccepisce vizio di motivazione riguardo alla ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico in relazione alla contestazione di falso di cui al capo 22 (liquidazione di compensi a Ca.Lo., ritenuta basata su false attestazioni), deducendosi che le attestazioni in esame (a prescindere dall'assenza di ogni profilo di falsità) non sono riconducibili al ricorrente ma ad altro soggetto (il dottor Gi.Ba. che aveva raccolto le istanze dei diversi coadiutori, tra cui Ca.Lo.) e che l'imputato, che nella procedura era l'amministratore giudiziario, si è limitato a citare la richiesta di liquidazione del coadiutore nell'ambito del rendiconto annuale, di tal che difetta ogni elemento per poter inferire che egli potesse essere a conoscenza della falsità, quand'anche in effetti presente nell'atto. 5.2.8. Con l'ottavo motivo si censura la ritenuta sussistenza della circostanza aggravante della fede privilegiata, ex art. 476 comma 2, cod. pen. in relazione ai delitti di falso di cui ai capi 14 e 22. In particolare, si contesta che tale aggravante possa essere riferita agli atti in oggetto, aggravante che va pertanto esclusa, con la conseguenza che i relativi reati di falso risultano prescritti. 5.2.9. Il nono motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla riqualificazione da parte della sentenza impugnata delle contestazioni di cui ai capi 15 e 23 nella fattispecie di peculato. Sul punto, il ricorrente deduce che la "riqualificazione" contrasta con i principi individuati dalla Cassazione in ordine alla distinzione tra tale delitto e quello di truffa - in particolare riguardo alla "disponibilità" per ragioni di ufficio del denaro da parte del pubblico ufficiale - sostenendosi che nel caso di specie il ricorrente non aveva la "disponibilità" giuridica esclusiva del denaro, che invece era in capo ai solo Giudice delegato. 5.2.10. Il decimo motivo eccepisce: a) la mancata declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di cui al capo 13-ter; b) la conseguente erronea determinazione della pena inflitta, che non ha tenuto conto di detta estinzione; c) il vizio di motivazione in ordine alla pena complessivamente inflitta all'imputato; d) il vizio di motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. 5.2.11. Con l'undicesimo motivo si censura il capo della sentenza di appello relativo alla disposta confisca, deducendosi che la stessa, nonostante lo specifico motivo di appello, non ha considerato che la confisca è stata disposta per un valore sensibilmente eccedente l'entità del prezzo/profitto dei reato, come determinato dal Tribunale; inoltre, nonostante l'intervenuta assoluzione in appello per i reati di cui ai capì 19, 20 e 21, la sentenza impugnata non motiva in ordine alla mancata eliminazione, prò parte, della confisca che avrebbe dovuto seguire tale pronuncia assolutoria. 5.2.12. Il dodicesimo motivo, infine, attiene al capo della sentenza impugnata relativo al risarcimento del danno a favore delle parti civili; sul punto si eccepisce vizio di motivazione in ordine alla mancata risposta ai motivi di appello nei quali si indicava che le parti civili - Amministrazioni e Ente pubblici - non avevano fornito adeguata dimostrazione di avere subito un danno effettivo e che la liquidazione operata in via equitativa (disposta a carico di Ca.Se. per Euro 400.000) non è corredata da plausibile argomentazione in merito alla cifra. 5.3. Con memorie ritualmente depositate sono stati proposti motivi nuovi nell'interesse dell'imputata Sa.Si. 5.3.1. Con atto a firma dell'Avvocato Vi.Ma. si è dedotto: 1) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla riqualificazione, in peius, dei fatti contestati ai capi 15 e 23 quali peculato operata dalla sentenza impugnata che ha riformato l'assoluzione intervenuta in primo grado per le originarie contestazioni di truffa aggravata, eccependosi anche il mancato rispetto da parte della Corte di appello della "procedura (Omissis); 2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante della "fede privilegiata" in relazione alle contestazioni di falso sub capi 14 e 22; 3) violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla ritenuta sussistenza della fattispecie di peculato in riferimento al capo 16, anziché il reato di abuso di ufficio come invocato con ampia e approfondita argomentazione nell'atto di appello (con particolare riguardo alla impossibilità, dopo la riforma del 1990, di qualificare come peculato condotte "distrattive" a profitto altrui che al più possono rientrare nel perimetro di cui all'art. 323 cod. pen.). 5.3.2. Con atto a firma dell'Avvocato Va.Sp. si è dedotta la violazione di legge in relazione alla reformatio in peius effettuata dalla sentenza impugnata con l'estensione indebita della confisca per equivalente disposta in primo grado. 6. In favore di Ca.Lo. sono stati dedotti i seguenti motivi. 6.1. Con il primo motivo - relativo alla condanna per il capo 8 (corruzione in concorso con Sa.Si.e Ca.Se.) - si eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine: a) alla individuata esistenza di un "patto corruttivo" risalente al 2010 tra Sa.Si.e Ca.Se., nel cui ambito si collocherebbero, quali utilità illecite a favore della Sa.Si., gli incarichi di coadiuzione attribuiti al ricorrente; patto la cui esistenza, con evidente inversione logico giuridica, viene dedotta dai successivi rapporti tra le parti (in sé non certamente illeciti); b) alla errata qualificazione giuridica del fatto (eventualmente da ricondurre alla fattispecie di cui all'art. 318 cod. pen.); c) al tempus commissi delieti, in quanto l'ultimo incarico conferito al ricorrente da Ca.Se. risale al 2012 (nella procedura (Omissis)), di tal che è errato posticipare, almeno in riferimento a Ca.Lo., la commissione del reato al 30 giugno 2015 (quando si sarebbe verificata la presunta dazione di denaro contante da parte di Ca.Se.). Da ciò deriva la decorrenza al 2012 del termine di prescrizione e, comunque, la non applicabilità del quadro sanzionatorio, più gravoso, introdotto nel 2015 (con conseguente violazione da parte del giudice di merito del divieto di applicazione retroattiva della legge penale più sfavorevole). 6.2. Con il secondo motivo - relativo alla condanna per il capo 16 (peculato, in concorso con Ca.Se., oltre che con la moglie Sa.Si., per la asserita illecita "duplicazione" dei compensi erogati da quest'ultimo al ricorrente nella qualità di coadiutore nominato in diverse procedure di prevenzione) - si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alle conclusioni cui è pervenuta la Corte di appello (si tratta di considerazioni - sia in ordine alla mancata prova, oltre ogni ragionevole dubbio, dei fatti di reato, sia per la dedotta erronea qualificazione giuridica quale "peculato" - in buona parte sovrapponibili a quelle contenute nei ricorsi in favore di Ca.Se.). 6.3. Il terzo motivo censura l'affermazione di penale responsabilità per il capo 14 (falsità ideologica aggravata, in concorso con Ca.Se., nell'ambito della procedura (Omissis), contestandosi la motivazione della sentenza di appello che, in modo illogico, ha ritenuto la falsità delle attestazioni che, invece, riflettevano l'effettivo svolgimento delle attività da parte del Ca.Lo.; inoltre, si evidenzia che nella specie non si ravvisano gli estremi di "un falso ideologico in atto pubblico", atteso che le "valutazioni" per loro natura non possono essere qualificate in termini di verità/falsità 6.4. Con il quarto motivo - relativo alla condanna per il capo 22 (falsità ideologica aggravata, sempre in concorso con Ca.Se., nella procedura di prevenzione (Omissis)) - si censura la motivazione della sentenza di appello con argomenti sovrapponibili a quelli già esposti trattando del ricorso dell'Avvocato Va.Sp. nel simmetrico motivo di ricorso in favore di Ca.Se. 6.5. Con il quinto motivo si contesta la ritenuta sussistenza della circostanza aggravante della fede privilegiata in riferimento ai falsi di cui ai capi 14 e 22. 6.6. Il sesto motivo eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla riqualificazione dei capi 15 e 23 (originariamente contestati quale truffa aggravata) in peculato; sul punto, si deduce l'insussistenza della fattispecie di cui all'art. 314 cod. pen. (con argomentazioni, analoghe a quelle contenute nel ricorso dell'Avvocato Va.Sp. in favore di Ca.Se., che fanno leva sulla mancanza degli elementi costitutivi di detto delitto, censurando altresì la riqualificazione, in peius, intervenuta "a sorpresa" e con palese violazione dei diritti della difesa). 6.7. Con il settimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza di appello in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e all'aumento di pena per effetto della continuazione. 6.8. E' stata ritualmente depositata memoria recante motivi nuovi. In particolare, si deduce: 1) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del capo 8 quale corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (in assenza di elementi per ritenere che gli atti di nomina di Ca.Se. da parte di Sa.Si.fossero contrari alla legge), invocandosi, in subordine, la riqualificazione ex art. 318 cod. pen.; 2) sempre in riferimento al medesimo capo di imputazione, si censura la sentenza impugnata in ordine all'errata individuazione di un contributo ascrivibile a Ca.Lo. e riferibile al momento costitutivo del presunto pactum sceleris intervenuto tra Sa.Si.e Ca.Se., nonché della consapevolezza dello stesso da parte del ricorrente, presunta in modo apodittico dai giudici di merito che non hanno tenuto conto dei pregressi, e del tutto leciti, rapporti professionali intercorsi tra Ca.Se. e il ricorrente. 7. Nell'interesse di Pr.Ca. sono stati dedotti i seguenti motivi. 7.1. Con il primo motivo - declinato come violazione di legge e vizio di motivazione e riferito alla contestazione di corruzione ex art. 319 cod. pen. (capi 30 - per Sa.Si.- e 31 - per il ricorrente) - si censura l'affermazione di penale responsabilità in relazione ai seguenti profili: a) con particolare riferimento al momento costitutivo e al contenuto dell'accordo corruttivo, si evidenzia la non superata incertezza in ordine al momento in cui sarebbe intervenuto il pactum sceleris (sul punto rilevandosi l'inattendibilità di quanto riferito dal teste De. in merito a un supposto incontro avvenuto "prima del 24 maggio 2013" tra la Sa.Si., Pr.Ca. e Sa.Ro.); b) quanto al contenuto di tale supposto patto, si rileva l'inconsistenza della tesi, recepita dai giudici di merito, secondo cui l'utilità "versata" dal ricorrente, a fronte della nomina in procedure di prevenzione da parte della Sa.Si.di "persone a lui vicine" (in particolare Sa.Ro.), sarebbe consistita nel "seguire il di lei figlio nel suo percorso universitario presso l'Università Kore di Enna, garantendone il buon esito"; b) circa la "natura illecita" dei rapporti intercorsi tra Sa.Si.e Sa.Ro./Pr.Ca., si evidenzia che Sa.Ro., nominato amministratore giudiziario dalla presidente Sa.Si., aveva qualifica e preparazione per ricoprire detto ruolo, effettivamente svolto e la cui esecuzione non è mai stata messa in dubbio, evidenziandosi che, ove la Sa.Si.avesse voluto favorire il ricorrente, lo avrebbe direttamente nominato amministratore; c) la nomina di Pr.Ca., quale "coadiutore strategico e direzionale", viene riconosciuta dalla stessa sentenza impugnata come di per sé non vietata, anzi opportuna ove tale scelta sia giustificata dalla complessità della gestione dei beni aziendali. 7.2. Con il secondo motivo si eccepisce - sempre in riferimento al capo 31 - l'erronea qualificazione ai sensi dell'art. 319 cod. pen., attesa l'assenza di profili di antidoverosità nella nomina da parte della Sa.Si.del dottor Sa.Ro., dello stesso ricorrente Pr.Ca. e della dott.ssa In.Ma.; nomine, queste, legittime ed esercizio di potere discrezionale da parte del Giudice delegato, evidenziandosi che si tratta di validi e preparati professionisti. Pertanto, i giudici di merito sul punto non hanno seguito i principi dettati dalla Suprema Corte in merito alla necessità, per ritenere configurabile la fattispecie di cui all'art. 319 cod. pen., di individuare in modo specifico i singoli atti contrari ai doveri di ufficio che il pubblico ufficiale ha adottato nell'esercizio dei poteri discrezionali a lui attribuiti, non essendo comunque sufficiente a qualificare come "corruzione propria" la mera circostanza che a fronte dell'adozione dell'atto il predetto abbia ricevuto una qualche utilità. Anche l'attribuzione al ricorrente della funzione di coadiuzione avente ad oggetto la "consulenza direzionale e strategica" rappresenta lecito esercizio dei poteri discrezionali spettanti al Giudice delegato e trova giustificazione nella particolare caratura professionale di Pr.Ca. e nel perseguimento dell'interesse pubblico volto a far si che le aziende sequestrate alla mafia siano in grado di stare sul mercato e di realizzare profitti. Sotto altro profilo, si rileva che natura illecita, in quanto asserita esecuzione del pactum sceleris, non può essere ascritta ai provvedimenti di liquidazione adottati dalla Sa.Si.nel luglio 2015 nell'ambito della procedura "Ra.Fr.", per il solo fatto che essi sarebbero stati sottoscritti dalla Presidente senza lo svolgimento della camera di consiglio collegiale, in quanto, quand'anche la Sa.Si.possa avere violato la legge per la formalizzazione dell'atto, il suo contenuto non è intrinsecamente illecito. Ugualmente, non può considerarsi contraria ai doveri di ufficio la nomina da parte della Sa.Si., nella procedura "Vi.Wa.", del ricorrente quale "coadiutore con poteri disgiunti e congiunti", in quanto si tratta di atto rientrante nella discrezionalità del collegio della prevenzione ex art. 35 D.Lgs. n. 159/11 (codice antimafia). Peraltro quanto ritenuto dalla sentenza di appello in riferimento a tale capo di imputazione si pone in contrasto con altra parte della pronuncia nella quale è stata esaminata la nomina, in detta procedura, del Gi.Ri. quale amministratore giudiziario (fatti per i quali sono stati condannati esclusivamente Sa.Si .e Na.Ro.: capi 58 e 59); sul punto, la Corte di appello ha dato atto che l'intervento del Pr.Ca. era indispensabile, attesa la accertata inidoneità di Gi.Ri. a svolgere tale compito, per cui la nomina del coadiutore era indubbiamente conforme all'interesse pubblico. 7.3. Con il terzo motivo si censura la sentenza impugnata in merito alla dedotta erronea individuazione delle "utilità" elargite dal Pr.Ca. in esecuzione del presunto pactum sceleris. E ciò in riferimento: al "buon esito degli studi di Ca.Em.", illogicamente considerata "prestazione infungibile" che poteva essere assicurata solo dal ricorrente, al quale, comunque, non possono essere ascritte condotte illecite, essendosi limitato a seguire con modalità corrette il percorso universitario. 7.3.1. Si deduce altresì violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta falsa attribuzione della tesi di laurea a Ca.Em. (capo 55, per il quale il ricorrente ha riportato condanna, unitamente alla Sa.Si.). Sul punto si rileva che del tutto illogicamente, e in radicale contrasto con le emergenze probatorie, i giudici di merito hanno ritenuto che la tesi di laurea del figlio della Sa.Si. fosse stata redatta dal Pr.Ca., contestando che le intercettazioni delle conversazioni intercorse tra Pr.Ca. e il professor Di.Ma., relatore della tesi, e con La.Gr., segretaria del ricorrente, possano dimostrare tale assunto, dalle stesse risultando al contrario in modo evidente che la tesi era stata redatta dallo studente e che il contributo del ricorrente si è limitato a qualche correzione formale e alla integrazione dell'apparato bibliografico; in ogni caso, quand'anche si dovesse ritenere che la tesi non fosse stata redatta dal Ca.Lo., nessun convincente elemento probatorio conduce al Pr.Ca. quale estensore della medesima. 7.3.2. Anche la conclusione della sentenza impugnata secondo cui il paqamento del rinfresco di laurea da parte del Pr.Ca. integrerebbe una delle "utilità" della corruzione risulta manifestamente illogica, atteso che, come emerge anche da una conversazione - intercettata - svoltasi un paio di mesi dopo la laurea tra il ricorrente e il giornalista Sa.Pa. risulta che il rinfresco, avvenuto subito dopo la laurea del Ca.Lo., ebbe un costo assai modesto (circa 500 Euro) e che Pr.Ca. lo offrì solo come "manifestazione di affetto e stima verso il ragazzo" e che la famiglia del giovane regalò al ricorrente una penna (Montbianc) di valore decisamente superiore al costo del rinfresco. 7.3.3. Si contesta che possa ritenersi "utilità" della corruzione anche la fornitura da parte del ricorrente di beni di consumo alla famiglia Sa.Si.(si tratta di sette cassette di frutta e verdura acquistate al mercato ortofrutticolo e regalate alla Sa.Si.nell'arco di qualche mese); al riguardo si rileva che difetta la natura di "illecito corrispettivo" attribuibile a tale fatto, trattandosi di beni di modico valore, peraltro insistentemente richiesti dalla stessa Sa.Si.che versava in serie difficoltà economiche (evidenziandosi altresì che detta vicenda presenta significative similitudini con quella oggetto del capo 65, nel quale, invece, a Sa.Si.è stata contestata la concussione e il fornitore dei beni alimentari - Sc.Al. - è stato qualificato persona offesa). 7.3.4. Anche in riferimento alla presunta dazione di Euro 15.000 in contanti avvenuta in epoca prossima al 20 luglio 2015 si contesta la logicità della motivazione della sentenza di appello in relazione alla ricostruzione del fatto (che presenta profili incerti e non risolti dai giudici di merito), evidenziandosi le ragioni per le quali non è possibile ritenere che tale consegna sia avvenuta (svolgendosi sul punto un ampio ragionamento sulla posizione del padre di Sa.Si., che ha fornito il denaro alla figlia) e la irragionevolezza della considerazione secondo cui Pr.Ca. avrebbe dato il denaro quale "corrispettivo" della propria nomina a "coadiutore con poteri congiunti e disgiunti" nella procedura "Vi.Wa." (in quanto l'intervento del ricorrente, legittimo e conforme al pubblico interesse, è dipeso dalla inidoneità dell'amministratore giudiziario Gi.Ri., che Sa.Si. aveva nominato su input del colonnello Na.Ro., a gestire la procedura); sotto altro profilo, si rileva che la circostanza, dedotta dalla sentenza impugnata sulla base di intercettazioni telefoniche, secondo la quale "Ca.Lo. attendeva del denaro per potere fronteggiare le difficoltà economiche" non è riferibile alla presunta dazione del Pr.Ca. ma, piuttosto, alla liquidazione di incarichi svolte nelle procedure gestite da Ca.Se. (vero e proprio punto di riferimento" della famiglia Sa.Si.-Ca.Lo., e per il quale la sentenza ha ritenuto provata la dazione di somme di denaro). 7.3.5. Ulteriori rilievi critici sono dedicati alla motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui questa ha individuato ulteriori "utilità" della corruzione, prestate dal ricorrente in favore della Sa.Si., e che sarebbero consistite: nell'inserimento di Ro.Tr. (persona che la Sa.Si.neppure conosceva, che non era stato affatto "caldeggiato" dal di lei marito e che aveva tutti i titoli per rivestire quella funzione) e Fa.To. nell'amministrazione della procedura (Omissis) su indimostrata "richiesta della Sa.Si."; nella promessa di impiego nella amministrazione della procedura "Vi.Wa." di Ma.Fa., cugina di Ca.Se., e di Da.Am., amico di Ca.Lo., altro figlio di Sa.Si.(nomine che gli erano state "imposte" dalla medesima Sa.Si.alle cui "pressioni" era stato costretto a cedere); nel "lavoro offerto" a Ca.Em., per il quale non vi è nessuna prova che il ricorrente si fosse attivato in tal senso, risultando anzi che aveva consigliato al ragazzo di "intraprendere la carriera direttiva nella Polizia di Stato"; nell'offerta della "sedia regale" (proposta di tenore all'evidenza scherzoso e mai concretizzatasi); nel c.d. "triangolone" (ossia, la presunta prospettazione dell'esportazione del "metodo Sa.Ro.-Pr.Ca." anche presso tribunali siciliani diversi da Palermo dove sarebbe stato nominato quale amministratore giudiziario un soggetto disposto a seguire le "indicazioni di Pr.Ca." e che nelle procedure avrebbe coinvolto quali coadiutori il figlio della Sa.Si., Fr. Ca.Lo., e la di lui fidanzata, Ma.Pa.), in ordine al quale si denuncia illogicità della motivazione, che non spiega in che modo il ricorrente avrebbe potuto promettere o garantire le nomine dei congiunti della presidente Sa.Si., evidenziando che, peraltro, dalle conversazioni intercettate emerge che non è Pr.Ca. a fare riferimento al "triangolone" bensì la Sa.Si., che "pressava" l'imputato per trovare occasioni di lavoro per i predetti. 7.3.6. Si censura, infine, l'asserito nesso causale tra utilità erogate e benefici ricevuti, rilevando come la sentenza impugnata, in modo gravemente illogico, abbia inserito in un unico "calderone" tutte le utilità in ipotesi erogate dal Pr.Ca. (assai eterogenee ed estemporanee, collocate temporalmente nel 2015 e alcune delle quali successive alla laurea di Ca.Em.) quale esecuzione di un patto corruttivo che si sarebbe perfezionato due anni prima e che avrebbe avuto quale oggetto, da parte del ricorrente, l'impegno ad "agevolare il percorso universitario del figlio della Sa.Si." (impegno rispetto al quale numerose "utilità" risultano comunque completamente distoniche). 7.4. Con il quarto motivo si censura la sentenza di appello per la mancanza di idonea motivazione in merito all'elemento soggettivo della contestata corruzione, deducendosi in particolare che non è stato indicato in base a quali elementi Pr.Ca. si sarebbe potuto rendere conto della antidoverosità dei diversi provvedimenti adottati dalla Sa.Si.in esecuzione del presunto pactum sceleris, rilevandosi che le nomine di Sa.Ro. e Pr.Ca., adottate da un magistrato esperto e autorevole, erano legittime, venendo in sostanza affermata detta consapevolezza sulla sola base della presunta esistenza del "patto corruttivo". 7.5. Con il quinto motivo - relativo alla condanna per capo 53 (contestazione di falso ideologico, per il quale il ricorrente è stato condannato in concorso con Sa.Ro., e relativo al trasferimento del dipendente Re.An. nell'ambito della procedura "(Omissis)") - si deduce violazione di legge, in merito all'efficacia dichiarativa delle fonti testimoniali e documentali, e vizio di motivazione, sia in ordine alla ritenuta sussistenza della fattispecie di falsità ideologica in atto pubblico che per l'affermazione di penale responsabilità del ricorrente a titolo di concorso; su detto specifico profilo si contesta la parte della pronuncia di secondo grado che ha ritenuto il concorso di Pr.Ca. per avere egli preso contatto con un giudice per individuare le persone, da questi "sponsorizzate", che dovevano sostituire il Re.An. e per avere convocato queste per conoscerle, nonché per avere convocato lo stesso Re.An., preannunciandogli un imminente contestazione disciplinare, evidenziando che difetta qualsiasi legame concorsuale tra questi fatti e le attestazioni formate dal Sa.Ro. 7.6. Con il sesto motivo si deduce: a) violazione di legge in ordine all'applicazione - in merito alla contestazione di corruzione commessa nel 2013 con la stipulazione del pactum sceleris - della disciplina normativa più sfavorevole introdotta con la legge n. 69 del 2015, con violazione del divieto di cui all'art. 2 cod. pen.; b) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche che sono state negate non considerando la personalità dell'imputato ed accomunando la sua posizione con quella della Sa.Si., che ha svolto un ruolo certamente assai più rilevante. 7.7. Con il settimo motivo si eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in merito all'aumento della pena ex art. 81, secondo comma, cod. pen., deducendosi in particolare che, in ordine ai reati "satelliti" di cui ai capi 53 e 55, l'aumento di pena - rispetto alla pena base per il più grave delitto di corruzione fissato in anni sei e mesi sei di reclusione - è stato determinato, senza una adeguata e specifica motivazione (in violazione quindi dell'art. 132 cod.pen.) in mesi uno per ciascuno di essi, mentre per i coimputati di tali capi (Sa.Ro. per il capo 53 e Sa.Si.per il capo 55) l'aumento ex art. 81 cod. pen. è stato determinato, rispettivamente, in giorni cinque e in giorni quindici, e ciò nonostante il ruolo obiettivamente preminente svolto dai predetti nei rispettivi fatti delittuosi; inoltre, anche in riferimento all'imputazione di cui al capo 31, si deduce un'irragionevole dosimetria sanzionatoria a carico dell'imputato, al quale è stato computato per due volte - nella misura di un mese di reclusione per ogni episodio - l'aumento di pena correlato alla contestata circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 9 cod. pen. 7.8. Con l'ottavo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle statuizioni relative al risarcimento dei danni non patrimoniali determinati in via equitativa, evidenziandosi che tale determinazione non è conforme alla previsione di cui all'art. 1 comma 62 della legge n. 190 del 2012, che ha stabilito che il danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente, e che per tale danno è comunque competente la Corte dei conti e non il Giudice penale. 7.9. Con il nono motivo, infine, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle statuizioni relative al risarcimento dei danni in favore del Ministero della Giustizia e dell'Agenzia Nazionale per i beni confiscati, della società Elgas, delle ditte individuali Pe.An., Fr. Ra.Fr., delle Srl Rebuc e Motor Oil; in merito, si evidenzia che dette condanne civili sono errate in quanto, rispetto all'imputazione di corruzione, non si ravvisa alcuna condotta appropriativa del Pr.Ca. che possa aver cagionato un effettivo danno risarcibile, né risulta che il predetto abbia percepito compensi a fronte di attività non svolta o che nello svolgimento delle sue funzioni abbia compiuto atti di mala gestio causativi di danno, di tal che l'argomentazione dei giudici di merito secondo cui Tantidoverosità degli atti (di nomina) ha sicuramente comportato un danno patrimoniale di difficile quantificazione" è assertiva e gravemente illogica. 8. In favore di Sa.Ro.sono stati dedotti i seguenti motivi. 8.1. In riferimento al capo 31 (si tratta della contestazione di corruzione a carico, oltre che del ricorrente, di Pr.Ca., dal lato attivo, e di Sa.Si., quale pubblico ufficiale corrotto, alla medesima ascritta al capo 30) si deduce con il primo motivo violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta configurabilità della fattispecie di corruzione e al ruolo svolto nella stessa dal Sa.Ro. Il ricorrente, in particolare, evidenzia che: a) difetta in radice la prova della stipulazione del "pactum sceleris" (per il quale i giudici di merito hanno utilizzato ragionamenti apodittici che contrastano con la giurisprudenza della Suprema Corte, e in particolare con i principi affermati nella sentenza c.d. "mafia Capitale") e della partecipazione del ricorrente all'incontro tra Pr.Ca. e la Sa.Si."avvenuto prima del 24 maggio 2013"; b) non si comprende comunque quale sarebbe stato il ruolo del Sa.Ro. (del tutto ignaro di eventuali "accordi illeciti intercorsi tra Pr.Ca. e la presidente della sezione di prevenzione") che è stato semplicemente nominato dalla Sa.Si. quale amministratore giudiziario; nomina (esercizio di legittimo potere discrezionale da parte del collegio della prevenzione) in merito alla quale egli possedeva tutti i requisiti formali e sostanziali, avendo peraltro svolto in modo del tutto corretto e adeguato i suoi compiti; c) la nomina, su richiesta del ricorrente, di Pr.Ca. quale "consulente strategico" non contrasta con alcuna previsione di legge ed è stata sicuramente opportuna; d) non è neppure ipotizzabile una partecipazione dell'imputato a titolo di concorso nell'accordo corruttivo; al riguardo si rileva: 1) il Tribunale ha violato il principio di correlazione tra contestazione e sentenza di cui all'art. 521 cod. proc. pen. avendo trasformato l'originaria imputazione di "concorso eventuale" ascritta nella partecipazione (definita "trilaterale") dell'imputato al momento genetico della corruzione (stipulazione del pactum sceleris), realizzando una illegittima trasformazione strutturale del fatto contestato; 2) comunque viene ribadito che non vi è alcun elemento idoneo a dimostrare che il ricorrente abbia preso parte consapevolmente a detto accordo illecito; 3) le supposte "utilità illecite" - che peraltro sarebbero state fornite dal solo Pr.Ca. - hanno avuto ad oggetto, dapprima, la "carriera universitaria" del figlio della Sa.Si. (in epoca successiva alla nomina del Sa.Ro. nella prima procedura) e poi elargizioni di diversa natura e altri atti che si collocano nel secondo semestre del 2015 (ben due anni dopo la presunta stipulazione del pactum); fatti relativi alla carriera universitaria, elargizioni e ulteriori atti al Sa.Ro., comunque, del tutto ignoti, di tal che l'affermazione di penale responsabilità si fonda su inammissibili presunzioni e su imputazioni a titolo di "responsabilità oggettiva"-, 4) non vi sono elementi - né le sentenze di merito si pronunciano su tale aspetto - per sostenere che Sa.Ro. abbia influito su Pr.Ca. per la conclusione del patto corruttivo o che abbia svolto una funzione di intermediazione tra questi e la Sa.Si.; 5) l'eventuale accettazione da parte dell'imputato della "consulenza strategica" da attribuire a Pr.Ca. e le nomine di coadiutrice a favore di Ma.Ca. e In.Ma. non valgono a renderlo partecipe di un accordo corruttivo al quale è rimasto del tutto estraneo; 6) le significative analogie tra l'imputazione oggetto del capo 31 e quella sub capi 58 e 59 (corruzione a carico di Sa.Si. e Na.Ro.) dimostrano l'erroneità della contestazione mossa al Sa.Ro. atteso che, in un contesto del tutto sovrapponibile, Gi.Ri., nominato dalla Sa.Si. amministratore giudiziario nella procedura di prevenzione "Vi.Wa." per le "pressioni" di Na.Ro., non è stato considerato in alcun modo partecipe dell'accordo corruttivo o concorrente nello stesso; 7) l'accordo corruttivo, se mai c'è stato, ha riguardato esclusivamente Sa.Si.e Pr.Ca. e ad esso Sa.Ro. non ha preso parte, né nella fase di conclusione del pactum né successivamente; e) in subordine, non essendo evincibile l'adozione da parte della Sa.Si.di alcun atto anti doveroso, si chiede la derubricazione del fatto di reato in corruzione per esercizio delle funzioni, ex art. 318 cod. pen. 8.2. Con il secondo motivo - relativo alle condanne per i capi 37 e 41 (le due ipotesi di peculato per le quali l'imputato risponde in concorso con In.Ma. e Ma.Ca., e dalle quali in primo grado sono stati assolti Sa.Si.e Pr.Ca., ai quali pure le stesse erano ascritte) - si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'acquisizione al fascicolo del dibattimento ai sensi dell'art. 500 comma 4 cod. proc. pen. delle dichiarazioni rese nelle indagini dinanzi al Pubblico ministero il 16/12/2016 e il 20/01/2017 dal testimone Ro.Pa.; il ricorrente, reiterando eccezione già formulata in primo grado e poi rinnovata quale motivo di appello, deduce che nella specie sono state eseguite intercettazioni, aventi "natura preventiva" in quanto funzionali all'acquisizione della notitia criminis del reato di falsa testimonianza (e già per questo aspetto le dichiarazioni acquisite ex art. 500 non sono utilizzabili); che comunque Ro.Pa. avrebbe dovuto essere sentito in dibattimento non come testimone, ma come soggetto indagato di reato probatoriamente collegato, con tutte le conseguenze di legge, e con la inutilizzabilità delle dichiarazioni ex art. 63 comma 2 cod. proc. pen.; che non sussistevano in ogni caso le condizioni per l'acquisizione delle precedenti dichiarazioni del teste ex art. 500, comma 4, cod. proc. pen.; che dalle dichiarazioni di Ro.Pa. e di Bo. (il verbale delle dichiarazioni rese da quest'ultimo nelle indagini preliminari è stato acquisito su consenso delle parti) non emerge che In.Ma. e Ma.Ca. non avessero svolto attività nell'ambito delle amministrazioni nelle quali erano state nominate coadiutrici; che poiché la teste La.Gr. era risultata coinvolta nella vicenda relativa alla redazione della tesi di laurea di Ca.Em., sarebbe stato necessario sentirla con le garanzie di cui all'art. 63 comma 2 cod. proc. pen. e non come testimone (e comunque le dichiarazioni della predetta non dimostrano affatto che la In.Ma. e la Ma.Ca. non abbiano effettivamente svolto l'attività per la quale erano state nominate coadiutrici). 8.3. Il terzo motivo - declinato come violazione di legge e vizio di motivazione - censura, ex art. 521 cod. proc. pen., la riqualificazione in peculato dei fatti di cui ai capi 37 e 41 (originariamente rubricati come truffa aggravata), rilevando profili critici analoghi a quelli contemplati nel simmetrico motivo del ricorso in favore di Pr.Ca. 8.4. Con il quarto motivo, relativo ai capi 37, 41 e 45, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla qualificazione dei fatti come peculato, evidenziando che trattandosi, al più, di "condotte distrattive" non è possibile ritenerle integranti peculato ma, se del caso, le stesse dovevano essere qualificate ai sensi dell'art. 323 cod. pen. con conseguente declaratoria di prescrizione. 8.5. Il quinto motivo - riferito ai capi 38 e 42 (falsi ideologici ex art. 479 cod. pen. di cui risponde anche Pr.Ca.) - censura l'affermazione di penale responsabilità deducendo, oltre alla insussistenza del fatto, l'intervenuta prescrizione dei due reati, per effetto della esclusione operata dal Tribunale della circostanza aggravante della pubblica fede privilegiata, precedentemente alla pronuncia della sentenza di appello che le aveva invece riconosciute. 8.6. Con il sesto motivo - relativo ai capi 42 e 45 (ipotesi di falso ideologico e di peculato, quest'ultimo in concorso con Di.Ma.) - si eccepisce travisamento della prova e omessa valutazione di prova a discarico, avendo i giudici di merito fondato la prova della colpevolezza su ragionamenti aprioristici circa la "inutilità della nomina del Di.Ma.," e sulla presunzione, con illegittima inversione dell'onere della prova, in base alla quale l'incarico sarebbe stato "falso". 8.7. Il settimo motivo - declinato come violazione di legge e vizio di motivazione - censura la sentenza di appello in relazione alla condanna per il capo di imputazione 50 (falso ideologico in concorso con Pr.Ca. relativo alla procedura "(Omissis)"), evidenziando che la motivazione sul punto è gravemente carente. 8.8. Con l'ottavo motivo - riferito al capo 53 (falso ideologico in concorso con Pr.Ca., relativamente alla vicenda del trasferimento del dipendente Re.An. nel contesto della procedura "(Omissis)" finalizzata al subentro di persone più gradite in quanto "vicine" a un giudice) - si deduce (con indicazione delle relative dichiarazioni testimoniali e di documentazione pertinente) che la relazione resa dal ricorrente, nella qualità di amministratore giudiziario, non è falsa atteso che le ragioni del trasferimento del Re.An. risiedono proprio nelle accertate situazioni di non regolarità del predetto nella gestione del distributore di carburante. 8.9. Il nono motivo censura - sotto il profilo della violazione di legge - il trattamento sanzionatorio applicato al ricorrente, in ordine: a) alla individuazione quale cornice edittale applicabile per il reato più grave (corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio) di quella introdotta con la legge n. 69 del 2015, successiva alla commissione del reato, tenuto conto che "le utilità riferibili al Sa.Ro. sono tutte antecedenti alla data di entrata in vigore della legge cit." e, comunque, il presunto accordo corruttivo si sarebbe perfezionato nell'aprile del 2013 e a questo si dovrebbe far riferimento per la determinazione del tempo di commissione del reato; b) alla determinazione della pena finale, considerato che la Corte di appello, pur avendo riconosciuto le circostanze attenuanti generiche giudicate prevalenti rispetto alle aggravanti, avrebbe dovuto non tenere conto degli aumenti di pena alle stesse collegati e determinare la pena finale in anni quattro, mesi uno e giorni dieci di reclusione. 8.10. Infine, conseguentemente all'accoglimento dei motivi di ricorso si chiede la revoca delle statuizioni civili. 9. In favore di Ca.Fr. - che ha riportato condanna per il capo capo 66, avente ad oggetto il tentativo di concussione, in concorso con Sa.Si., nei confronti dell'amministratore giudiziario Sc.Al. - sono stati dedotti i seguenti motivi. 9.1. Il primo motivo eccepisce violazione di legge processuale (artt. 521 e 522 cod. proc. pen.) avendo la Corte territoriale, nel fondare in modo particolare la propria decisione, in relazione al tentativo di condizionamento del giudice amministrativo, sull'elemento rappresentato dalla cena svoltasi al Palazzo Brunaccini di Palermo alla quale parteciparono le due imputate, il magistrato amministrativo dottor Gi.Ba. e l'ex prefetto di Palermo (episodio completamente estraneo al capo di imputazione), ha operato una inammissibile modificazione del fatto contestato, con conseguente violazione dei diritti di difesa, atteso che su tale fatto non si è esplicato il necessario contraddittorio. 9.2. Con il secondo motivo si deduce mancanza e illogicità della motivazione in relazione alla prova del delitto di tentata concussione, evidenziando l'assenza di qualsiasi elemento indicativo di una condotta connotata da "abuso costrittivo" che sarebbe stata posta in essere da parte di Sa.Si., connotazione espressamente esclusa in dibattimento dallo stesso Sc.Al. 9.3. Il terzo motivo eccepisce che mancante, contraddittoria e comunque gravemente illogica è la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha ravvisato un "concorso morale" dell'imputata nella ipotizzata condotta posta in essere da Sa.Si.. Invero, da un lato, l'imputata non ha mai parlato con Sc.Al., che neppure conosceva, e non era neppure al corrente del tenore delle conversazioni tenute con il predetto da Sa.Si.; dall'altro lato, ella era all'oscuro delle vicende relative al ricorso in sede di giustizia amministrativa che coinvolgeva Ca.Se., e dell'eventuale interesse di Sa.Si.per il suo rigetto da parte del Consiglio di Giustizia Amministrativa e, comunque, ella non aveva alcun interesse alla "sistemazione" dello Ri.Sc. per ingraziarsi lo zio (che conosceva da tempo e con il quale aveva già un ottimo rapporto). 9.4. Con il quarto motivo si chiede, in via subordinata, di diversamente qualificare il fatto come tentativo di "induzione indebita" ex art. 319 quatercod. pen. nel testo precedente alla modifica normativa di cui alla l.n. 69 del 2015. 9.5. Il quinto motivo deduce vizio di motivazione in ordine alla misura della pena inflitta e alla mancata applicazione a suo favore delle circostanze attenuanti ex art. 62 bis cod. pen. e di quella di cui all'art. 114 cod. pen. 9.6. Il sesto motivo, infine, è relativo alle statuizioni civili, in ordine alle quali si contesta la condanna alla rifusione, in solido con gli altri imputati, anche per danni non derivanti dall'unica condotta a lei ascritta (il capo 66 in concorso con la Sa.Si.), nonché la determinazione "in via equitativa" del danno non patrimoniale in favore della Presidenza del Consiglio. 10. In favore di Na.Ro., condannato quale corruttore per il capo 59 (che vede Sa.Si. come pubblico ufficiale corrotto: capo 58), sono stati dedotti i seguenti motivi. 10.1. Con il primo motivo si eccepisce violazione di legge processuale per aver la sentenza impugnata ritenuto utilizzabili a carico dell'imputato le intercettazioni di conversazioni eseguite in diverso procedimento, ontologicamente diverso da quello a carico del ricorrente e relativo a fatti di reato del tutto scollegati a quello ascritto al predetto, difettando connessione ai sensi dell'art. 12 cod. proc. pen. 10.2. Con il secondo motivo - declinato come violazione di legge, vizio di motivazione e travisamento della prova in ordine all'affermazione di penale responsabilità dell'imputato - si deduce che la motivazione della sentenza impugnata presenta, in relazione alla configurazione del reato e alla posizione del Na.Ro., delle fratture logico-giuridiche evidenti; invero, sulla base delle emergenze probatorie emerse nel giudizio (già invocate nei motivi di gravame e ora analiticamente illustrate nel ricorso), si ricava un contegno dei due imputati oggettivamente incompatibile con la presunta stipula di un pactum sceleris che si sarebbe imperniato sulla nomina del dottor Gi.Ri. quale amministratore nella procedura "Vi.Wa.". Inoltre, non si comprende quale vantaggio l'imputato avrebbe ricavato dalla nomina di Gi.Ri., atteso che l'indicazione contenuta nel capo di imputazione ("potere attraverso Gi.Ri., persona nelle sue mani, influire sulla gestione e coinvolgere nell'amministrazione persone a lui vicine") risulta apodittica e priva di concretezza, mentre la presunta utilità per la presidente Sa.Si.- che sarebbe consistita in mere ipotesi di coinvolgimento in eventuali e non specificate procedure dei propri congiunti e di altre persone a lei legate - oltre che del tutto ipotetica non è in alcun modo collegata con la nomina di Gi.Ri. 10.3. Con memoria ritualmente depositata è stato proposto un motivo nuovo nell'interesse di Na.Ro., nel quale si approfondisce il profilo critico relativo all'interesse perseguito dal Na.Ro. con la nomina del Gi.Ri. nella "procedura Vi.Wa.", evidenziandosi che la sentenza di appello non riesce a specificare in che consista detto "interesse", riferito a presunte relazioni tra l'imputato e non meglio identificato "soggetto terzo" (tramite il quale si sarebbero prodotte le "utilità" a favore dei familiari della Sa.Si.). 11. In favore di Di.Ma. - condannato per il capo 45 (peculato in concorso con Pr.Ca. e Sa.Ro., per i compensi ricevuti, per attività in realtà mai effettivamente svolte, in ordine all'incarico di coadiutore giudiziario nell'ambito della procedura "Ingrassia" quale "consulente giuridico per i rapporti tra PA e mercato") - sono stati dedotti i seguenti motivi. 11.1. Con il primo e il secondo motivo - tra loro correlati - si sono eccepiti violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per il delitto di peculato, rilevandosi: a) che detto reato non è in radice configurabile atteso che è pacifico che il Di.Ma., non aveva alcuna disponibilità delle somme di denaro; b) che è errato affermare che - poiché l'elaborato indicato dal ricorrente come frutto del lavoro di coadiutore era rimasto nel PC di Di.Ma., - l'incarico conferito nella procedura "Ingrassia" "fosse privo di contenuto effettivo", non escludendo tale circostanza che l'elaborato, magari in copia cartacea, fosse stato consegnato o comunque il suo contenuto comunicato ai soggetti interessati. In ogni caso, nessuna previsione normativa impone al consulente di trasfondere la sua attività in un elaborato scritto, attività che ben può svolgersi in forma orale attraverso interlocuzioni con gli organi dell'amministrazione. Non è comunque possibile, per affermare la responsabilità per il delitto ex art. 314 cod. pen., richiamare, come hanno fatto i giudici di merito, "le regole proprie della disciplina della responsabilità contabile, in riferimento sia alla imposizione dell'onere probatorio a carico dell'imputato, sia valutando profili di "inerenza" della spesa, in particolare congruità e ragionevolezza". 11.2. Con il terzo motivo - declinato come violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'affermazione di penale responsabilità in difetto del necessario coefficiente psicologico - si deduce che il ragionamento della Corte di appello, secondo cui la prova del dolo si trarrebbe dalla circostanza che il ricorrente, perfettamente consapevole di non aver svolto l'incarico, ha rilasciato due ricevute per ottenere l'indebito compenso, è gravemente fallace perché dà per presupposto ciò che non è stato provato (le circostanze che l'incarico fosse "fasullo", che le ricevute siano state formate dal Di.Ma., e che il predetto si sia attivato direttamente per ottenere dapprima l'incarico e quindi il compenso); inoltre, è pacifico che il compenso è stato liquidato in misura assai contenuta (3.000 Euro) ed effettivamente erogato in misura ancora inferiore (1.800 Euro). Elementi tutti dai quali emerge la palmare insussistenza del dolo di fattispecie. 11.3. Il quarto motivo - con il quale si deduce violazione di legge processuale (artt. 521 e 522 cod. proc. pen.) - si evidenzia che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto ininfluente l'intervenuta assoluzione per l'ipotesi di falso (contestata al Di.Ma., sub capo 47) che nell'imputazione era indicata come funzionale alla realizzazione del peculato; infatti, la citata assoluzione, ha comportato che la Corte di appello ha fondato la responsabilità per la residua contestazione ex art. 314 cod. pen. su elementi diversi da quelli indicati nella imputazione (la falsità nelle attestazioni relative all'attività svolta, appunto). 11.4. Con il quinto motivo si chiede, in via subordinata, la riqualificazione del fatto ai sensi dell'art. 323 cod. pen. o, in ulteriore subordine, dell'art. 640 cod. pen. con conseguente declaratoria di intervenuta prescrizione; sulla base delle considerazioni precedentemente svolte in merito alla non configurabilità del peculato, si evidenzia che i fatti - laddove esistenti - dovrebbero, anche alla luce della pertinente giurisprudenza di legittimità, qualificarsi quale abuso di ufficio (non essendo più contemplato il "peculato per distrazione") o, al più, truffa. 11.5. Il sesto motivo censura, per violazione di legge e vizio di motivazione, il capo della sentenza relativo alle statuizioni civili, deducendosi che, come già evidenziato nei motivi di appello, la domanda risarcitoria avanzata dalle parti civili Presidenza del Consiglio, Ministero della Giustizia, ANBC e Amministrazione giudiziaria "Ingrassia", non contempla in alcun modo la ragione della richiesta, con specifico riferimento alla posizione del Di.Ma.; peraltro, non si comprende quale danno la condotta dell'imputato avrebbe prodotto e la determinazione, "in via equitativa" della somma dovuta a titolo di danno non patrimoniale non indica alcun criterio valutativo e ha determinato una indebita "moltiplicazione" dei risarcimenti a favore dei diversi soggetti a fronte di un unico episodio. 11.6. Con il settimo motivo si censura, per violazione di legge e vizio di motivazione, la sentenza impugnata in merito alla riduzione di pena conseguente al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e alla pena complessiva determinata per la continuazione. 12. In favore di Vi.Wa., che ha riportato condanna per il capo 6 (induzione indebita nella quale assume la qualifica di soggetto "indotto" da parte del pubblico ufficiale Sa.Si. a cui tale fatto è ascritto al capo 5) vengono dedotti i seguenti motivi. 12.1. Con il primo motivo si eccepisce vizio di motivazione in ordine agli elementi di prova valutati. In particolare, si deduce che la sentenza di appello, ritenendo provato un presunto "sistema illecito" nel quale sarebbe stato coinvolto a pieno titolo l'avvocato Vi.Wa., ne ha affermato la penale responsabilità, senza considerare le pregnanti doglianze formulate con i motivi di appello, relative alla configurabilità di detta fattispecie. 12.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione in ordine alla dosimetria della pena inflitta e alla negata concessione di circostanze attenuanti. 13. In favore di In.Ma. e Ma.Ca. - le cui posizioni possono essere trattate congiuntamente, rispondendo delle medesime imputazioni di peculato di cui ai capi 37 e 41, per le quali è stato condannato anche Sa.Ro. - sono stati dedotti i seguenti motivi, contenuti in ricorsi che presentano analogo contenuto. 13.1. Nei motivi dal primo al quarto si censura l'affermazione di penale responsabilità delle imputate e l'erronea qualificazione giuridica dei fatti, con argomentazioni sovrapponibili a quelle contemplate nei simmetrici motivi del ricorso in favore del Sa.Ro., alle quali in questa sede si rinvia. 13.2. Con il quinto e sesto motivo dei rispettivi ricorsi si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio inflitto alle imputate, evidenziandosi che gli aumenti per la continuazione sono stati determinati in modo immotivato, non specificato e in misura più grave di quanto effettuato rispetto ad altri imputati. 13.3. Il settimo motivo - riferito al capo della sentenza relativo al risarcimento del danno non patrimoniale in favore della Presidenza del Consiglio - formula le medesime censure medesime censure già indicate nell'ottavo motivo di ricorso in favore di Pr.Ca. 14. In favore di Ca.Em. - condannato in relazione al capo 54 (violazione dell'art. 1, commi 1 e 2, l.n. 475 del 1925 per la falsa attribuzione e l'utilizzo di tesi di laurea redatta in realtà da Pr.Ca., su istigazione di Sa.Si.) - è stato dedotto un unico motivo di ricorso, nel quale si censura la sentenza impugnata che non ha riconosciuto che gli elementi probatori acquisiti nel giudizio dimostrano che la tesi è stata redatta proprio dal laureando e dunque l'insussistenza dei reati. 15. Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso anche le parti civili Vi.Vi., Vi.Ga. (nato il (Omissis)), Vi.Sa. (nato il Omissis), Vi.Do., Vi.Ca., Vi.Ga. (nato il Omissis), Vi.Sa. (nato il Omissis) e Vi.Si., nel quale si deduce l'illegittimità del rigetto da parte della Corte di appello del motivo di gravame relativo alla mancata condanna degli imputati Sa.Si.e Na.Ro. al risarcimento del danno a loro favore in riferimento al reato di corruzione ai predetti ascritto (capi 58 e 59). 16. All'udienza del 10 ottobre 2023 il Collegio, esaurita la discussione delle parti, ha, ai sensi dell'art. 615 comma 1 cod. proc. pen., differito la deliberazione all'odierna udienza pubblica nella quale, svolta la camera di consiglio, il Presidente ha dato lettura del dispositivo. 17. Con ordinanza emessa all'udienza del 25 ottobre 2023 ai sensi dell'art. 625-bis, comma 3, cod. proc. pen. si è proceduto alla correzione dell'errore materiale presente nel dispositivo della presente pronuncia nella parte in cui, nel capo con il quale si è annullata senza rinvio la sentenza della Corte di appello di Caltanissetta per intervenuta prescrizione, era stato omesso il riferimento al reato di cui al capo 46, relativo alla contestazione di falso nei confronti di Sa.Ro., di cui si è disposto l'inserimento nel dispositivo della sentenza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Va preliminarmente evidenziato che nel caso di specie si è - ad eccezione dei profili in cui la pronuncia di primo grado e quella impugnata presentano divergenze, che saranno nel corso della successiva trattazione evidenziate - di fronte alla c.d. "doppia conforme". Situazione, questa, che ricorre quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella dì primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest'ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218). 1.1. Ancora, è opportuno ribadire che in tema di giudizio di cassazione, esula dai poteri della Corte quello di operare una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Sez. U, n. 6402 del 2/07/1997, Dessimone, Rv. 207944; conforme, ex pluribus, Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023; Rezzuto, Rv. 285504 - 01, che ha precisato come in tema di giudizio di legittimità, la cognizione della Corte di cassazione è funzionale a verificare la compatibilità della motivazione della decisione con il senso comune e con i limiti di un apprezzamento plausibile, non rientrando tra le sue competenze lo stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione dei fatti, né condividerne la giustificazione). 1.2. Per diversi capi di imputazione questa Corte ha rilevato l'intervenuta prescrizione. Tale dichiarazione, come si vedrà, è in alcuni casi relativa ai reati per come originariamente contestati; in altri casi dipende dalla ritenuta non configurabilità della circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 476, secondo comma, cod. pen., contestata in riferimento ad ipotesi di falso in atto pubblico, nonché dalla operata riqualificazione di ipotesi, configurate dalla sentenza impugnata ai sensi dell'art. 314 cod. pen., nella fattispecie di truffa aggravata. Per tutte tali imputazioni vale il principio secondo cui in presenza di una causa di estinzione del reato, non può il giudice dell'impugnazione, al fine di pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., compiere attività ulteriori rispetto alla mera constatazione di circostanze - emergenti "ictu oculi" dagli atti - idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la sua commissione da parte dell'imputato ovvero la sua rilevanza penale, neppure quando una tal causa di estinzione sia maturata con riferimento ad un reato oggetto di riqualificazione nel precedente grado del giudizio ed il giudice dell'impugnazione sia investito contemporaneamente della questione relativa alla legittimità di siffatta riqualificazione e di quella relativa alla fondatezza nel merito dell'accusa (così, in riferimento al giudizio di appello, Sez. 6, n. 27725 del 22/03/2018, Princi, Rv. 273679 - 01). 1.3. Pur in presenza dell'estinzione di tali reati, deve comunque valutarsi per essi la sussistenza degli estremi della responsabilità degli imputati, ai fini dell'art. 578 cod. proc. pen., in riferimento alla conferma delle statuizioni civili. Peraltro anche in tale valutazione sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020 - dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 3, n. 37113 del 14/06/2023, Foti). 2. Ciò premesso, ritiene il Collegio opportuno esaminare in primo luogo il nucleo centrale delle contestazioni per le quali è stata pronunciata condanna in primo e secondo grado, relativamente alle due corruzioni che vedono imputati, rispettivamente, Sa.Si., il marito Ca.Em. e Ca.Se. (capi 8 e 9), oltre a Sa.Si. nonché Pr.Ca. e Sa.Ro. (capi 30 e 31). 2.1. In particolare, ai capi 8 e 9 è descritto il primo "meccanismo corruttivo", per atti contrari ai doveri di ufficio. Si contesta a Sa.Si., quale presidente della Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, di avere attribuito a Ca.Se. numerosi incarichi in lucrose procedure di prevenzione a fronte dell'impegno, preso dal predetto ed effettivamente concretizzato, di coinvolgere quali coadiutori il di lei marito (l'ingegnere Ca.Lo.), in modo sistematico, nonché altre persone a lei vicine, in procedure (diverse da quelle gestite dalla stessa Sa.Si.), sempre amministrate da Ca.Se. Questi avrebbe altresì fornito alla coppia Sa.Si.- Ca.Lo. ulteriori utilità e, da ultimo, una somma di denaro. 2.2. In riferimento ai capi 30 e 31 (che descrivono il secondo canale di procacciamento di utilità illecite da parte di Sa.Si., attraverso fatti di corruzione, anch'essi qualificati ai sensi dell'art. 319 cod. pen.) è stata affermata la penale responsabilità dell'imputata per avere stretto un accordo "trilaterale" con Pr.Ca., professore presso l'Università Kore di Enna, e Ro.Ni. Sa.Ro., persona "vicina" a Pr.Ca.; accordo avente ad oggetto l'attribuzione a Sa.Ro. di incarichi nell'ambito di amministrazioni giudiziarie di prevenzione gestite da Sa.Si., con il sistematico coinvolgimento nelle stesse di Pr.Ca., quale "coadiutore strategico". Questi, a propria volta, si è impegnato ad "agevolare" la carriera universitaria di Ca.Em.; incarico portato a compimento anche attraverso la redazione, da parte di Pr.Ca. e su istigazione di Sa.Si., della tesi di laurea dello studente, dal predetto utilizzata come lavoro proprio (fatto oggetto delle imputazioni di cui ai capi 54 e 55). Anche in questo caso si contesta agli imputati che, da ultimo, Sa.Si., in difficoltà economiche, chiese e ottenne l'elargizione di una somma di denaro. 3. I fatti contestati sono stati ritenuti provati dai giudici di merito sulla base di un ponderoso compendio probatorio, rappresentato da testimonianze e dalle intercettazioni delle conversazioni intercorse tra i protagonisti. 3.1. In particolare, in riferimento ai capi 8 e 9 ("corruzione Sa.Si.-Ca.Lo. - Ca.Se.") la Corte territoriale, dopo avere ampiamento riportato le argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado (che vengono dai giudici di appello condivise) e gli ampi motivi di gravame, evidenzia le ragioni per le quali sussiste la penale responsabilità dei tre imputati in relazione agli indicati capi di imputazione. Con motivazione certamente non illogica viene precisato che "le complessive emergenze processuali dimostrano che effettivamente tra Sa.Si.... e Ca.Se. si sia formata - e fosse persistentemente operativa nel giugno del 2015 - una convenzione i cui termini, da costoro sistematicamente manifestati in maniera concludente, postulavano l'esercizio pregiudizialmente favorevole al Ca.Se. dei poteri istituzionali attribuiti al pubblico ufficiale stabilmente beneficiato id est ricompensato, a sua volta, tramite gli incarichi di coadiuzione o collaborazione professionale che il corruttore procurava al marito in altre procedure, i quali -a mente delle non controverse risultanze delle indagini patrimoniali -costituivano, negli anni dal 2006 al 2015, la principale fonte di reddito di Ca.Lo., coniuge del magistrato". A sostegno di tale ricostruzione dei rapporti tra i tre imputati, la Corte di appello richiama, tra l'altro, la vicenda "Vi.Wa. - Ma.Pa." (capi 5 e 6) rilevando, anche qui non illogicamente, che la presidente Sa.Si. interpretava l'esercizio del potere giurisdizionale di nomina degli amministratori giudiziari e dei coadiutori nelle procedure di prevenzione nell'ottica di un "do ut des", di tal che la nomina dell'avvocato Vi.Wa. quale amministratore giudiziario era stato determinato da "fini utilitaristici" (il coinvolgimento nel suo studio legale di Ma.Pa., fidanzata del figlio di Sa.Si. e la "tutela" che il padre dell'avvocato Vi.Wa., magistrato e all'epoca Consigliere del C.S.M. le avrebbe potuto fornire); specularmente, allorquando Ma.Pa. era stata "cacciata" dallo studio professionale di Vi.Wa., Sa.Si.aveva manifestato che ciò avrebbe significato la perpetua estromissione del predetto dal conferimento di tali incarichi. 3.2. Più complesso, secondo i giudici di merito, il rapporto intercorso tra l'imputata Sa.Si. e Ca.Se.. Rapporto instauratosi da tempo e che vedeva, da un lato, la nomina da parte di Sa.Si. di costui quale amministratore giudiziario nelle procedure di prevenzione più lucrose e, in cambio, il conferimento nell'ambito di altre procedure di prevenzione, a seguito di richiesta da parte di Ca.Se. che anche in quelle era amministratore giudiziario, di incarichi di coadiuzione attribuiti al marito dell'imputata, l'ingegnere Ca.Lo. Rapporto "trilaterale" che - come evidenziato dai ricorrenti - non basta, di per sé, a qualificare, come si preciserà, i fatti in termini di "corruzione propria" ma che, alla luce del cospicuo compendio probatorio riportato dalla sentenza impugnata, nella parte in cui sintetizza le articolate argomentazioni a sostegno della sentenza di primo grado, rileva l'evidente "presa in carico" da parte del pubblico ufficiale degli interessi di Ca.Se. e ciò nell'ottica di un illecito sinallagma finalizzato a consentire al marito di continuare a lucrare degli incarichi che, a sua volta, questi gli faceva ottenere. Presa in carico degli interessi di Ca.Se. che emerge, in modo manifesto, tra l'altro, dalla vicenda oggetto della contestazione sub capo 66 nel cui ambito Sa.Si.si "attiva" - commettendo, come si vedrà, un tentativo di induzione indebita, in concorso con la sua amica Ca.Fr., all'epoca Prefetto di Palermo - per far sì che Ca.Se. potesse risolvere a proprio vantaggio il contenzioso amministrativo avente ad oggetto il pagamento - da lei disposto - di compensi per la somma, decisamente ingente, di cinque milioni e centomila Euro. Inoltre, i giudici di merito hanno evidenziato una serie di ulteriori episodi che - ferma rimanendo la necessità di valutare la corretta qualificazione giuridica delle diverse contestazioni - dimostrano come Sa.Si. indiscutibilmente "tutelasse" gli interessi di Ca.Se.. Il riferimento, tra l'altro, è all'imputazione sub capo 10, relativa alla falsità nel provvedimento di liquidazione di 100.000 euro, oltre IVA e Cpa, più il 15% di spese forfettarie, adottato da Sa.Si. a favore di Ca.Se. nella procedura "(Omissis)". Peraltro, l'esistenza di detti rapporti tra i tre imputati non è sostanzialmente contestata (anche perché fondata su una serie imponente di intercettazioni il cui contenuto risulta obiettivamente indiscutibile) dal momento che i ricorsi si sono impegnati, da un lato, a porre in discussione la rilevanza penale di detti fatti e, dall'altro lato, a invocare in subordine la qualificazione giuridica degli stessi sub specie di corruzione "impropria". Profilo che verrà affrontato in seguito, unitamente alla valutazione giuridica dei fatti relativi all'altro "sistema corruttivo". 3.3. Va altresì evidenziato che i giudici di merito hanno ritenuto provata una ulteriore illecita utilità percepita da Sa.Si. da parte di Ca.Se., rappresentata dalla dazione della somma di euro 9.500 Euro in contanti, consegnata la sera del 30 giugno 2015. Sul punto, i ricorrenti hanno in primo luogo eccepito la "violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa, che fa riferimento alla dazione di "almeno 20.000 Euro" consegnati il 29 giugno dall'architetto Ca. al Ca.Se. e il giorno successivo dati da questi alla Sa.Si. e quanto invece ritenuto in sentenza". Ciò in quanto in primo grado si era ritenuta la falsità delle dichiarazioni dibattimentali di Ca., per il quale il Tribunale aveva disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero, condannando gli imputati in riferimento alla somma di 9.500 Euro, versata da Sa.Si.sui conti correnti intestati a lei e al marito nei giorni 1, 2 e 7 luglio 2015. Invece, si sostiene, la Corte di appello ha "recuperato" in parte le dichiarazioni di Ca., ritornando all'originaria impostazione accusatoria e ritenendo dimostrata l'avvenuta consegna da parte di Ca. di 20.000 Euro a Ca.Se., il quale però ne avrebbe dati solo 9.500 a Sa.Si.. Sul punto si deduce altresì la mancata rinnovazione dell'esame del teste Ca. e comunque la mancanza di motivazione rafforzata. 3.4. I motivi di ricorso sono infondati. In primo luogo, rileva la Corte che non si è verificata alcuna immutazione del fatto contestato, che si riferisce all'illecita dazione, nell'ambito del patto corruttivo, da parte di Ca.Se. di una somma di denaro alla Sa.Si.. La circostanza che, a fronte della contestazione relativa ad "almeno 20.000 Euro", i giudici di merito abbiano ritenuto provato che l'imputata ne abbia ricevuto effettivamente una parte (9.500, appunto) non comporta alcuna violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. Invero, non sussiste violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza quando vi è corrispondenza tra l'individuazione degli elementi tipici della fattispecie contestata e l'accertamento contenuto nella sentenza di condanna, a nulla rilevando eventuali difformità quantitative e qualitative degli elementi di definizione della condotta, dell'evento e del nesso causale in considerazione della relatività delle tecniche descrittive utilizzate nella redazione della imputazione (così, Sez. 2, n. 12328 del 24/10/2018 - dep. 2019, Calabrese, Rv. 276955 - 01; in senso conforme, Sez. 3, n. 7146 del 04/02/2021, Ogbeifun Hope, Rv. 281477 - 01, che ha precisato come il mutamento, ritenuto in sentenza, del dato qualitativo e quantitativo della sostanza stupefacente oggetto di contestazione, a fronte dell'identità del nucleo essenziale della condotta - nella specie, trasporto di ovuli di sostanza stupefacente occultati nell'intestino dall'imputato - non viola il principio di cui all'art. 521 cod. proc. pen., non incidendo tale diversità in modo significativo sul fatto e non pregiudicando le possibilità di difesa dell'imputato, ove lo stesso ne sia stato a conoscenza sulla base degli atti di indagine). Pertanto, la mera riperimetrazione, in senso riduttivo, del denaro ricevuto da Sa.Si.non determina alcuna violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. o lesione dei diritti della difesa. 3.4.1. Neppure si è verificata violazione dell'art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen. Nella specie, già in primo grado è stata affermata la penale responsabilità degli imputati, anche in riferimento a tale episodio. Ed è pacifico che il divieto di "reformatio in peius" riguarda esclusivamente il dispositivo della sentenza e il suo concreto contenuto afflittivo, ma non la motivazione, che può contenere una valutazione più grave della violazione commessa sia in termini fattuali che giuridici (da ultimo, Sez. 3, n. 25585 del 10/02/2023, Guerrisi, Rv. 284694 - 01). Peraltro, nel caso in esame, rispetto alla decisione di primo grado, è rimasto immutato l'ammontare della somma (inferiore a quella oggetto dell'imputazione) che la sentenza impugnata ha ritenuto essere stata consegnata a Sa.Si. 3.4.2. Infine, niente affatto illogica risulta la motivazione della Corte territoriale che ha ritenuta provata, sulla base plurimi elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, la dazione del danaro (pag. 576 ss.). In particolare, si tratta: a) di un serie imponente di conversazioni telefoniche nelle quali, a partire dall'8 giugno 2015, Sa.Si., da un lato, condivide con i propri familiari lo stato di grave preoccupazione per lo "scoperto" bancario e l'assenza di entrate adeguate; dall'altro lato, con modalità sempre più agitate, rappresenta a Ca.Se. l'impellente necessità di un suo "aiuto" per far fronte alla grave situazione economica familiare; situazione che - come riferito dal teste De., addetto alla tutela della magistrata - si era fatta molto difficile dopo lo "scandalo mediatico" che nel maggio del 2015 la aveva travolta, atteso anche l'elevato livello delle spese familiari; b) del fatto che dal 1° luglio le conversazioni dell'imputata con Ca.Se. assumono un tono "rilassato" che evidenzia che il problema era stato risolto; c) delle dichiarazioni del teste Ca. - architetto che si era occupato dei lavori sul "Palazzo Brunaccini" (hotel gestito da Ca.Se.) e che da questi era stato coinvolto in alcune amministrazioni di prevenzione - il quale, al netto di reticenze e imprecisioni, ammette di avere, su richiesta di Ca.Se., consegnato al predetto il 30 giugno 2015 la somma di 20.000 euro in contanti (e dal servizio di O.C.P. risulta che intorno alle ore 19,00 Ca. si è recato nello studio di Ca.Se.); d) della telefonata, sempre in data 30 giugno, poco dopo le 18,00, nella quale Ca.Se. si accorda con Sa.Si.per portarle la sera stessa i "documenti" (espressione già utilizzata in precedenti conversazioni tra i due nonché tra Sa.Si.e il marito e il figlio El.); e) dell'accertamento compiuto dalla polizia giudiziaria, che alle ore 22,35 del 30 giugno vede l'imputato entrare nell'abitazione della Sa.Si.portando con sé un trolley di colore scuro, rimanendovi fino alle 23,10 per poi uscirne con il trolley, salire in macchina e andare via; f) della circostanza che sul conto corrente presso Banca Nuova intestato a Sa.Si.-Ca.Lo. venivano effettuati, tramite sportello automatico ATM, tre versamenti in contanti, il 1°, il 2 e il 7 luglio, rispettivamente di Euro 3.000, 2.000 e 3.000, e che su altro conto corrente, intestato alla coppia e acceso su Unicredit, il 7 luglio venivano versati 1.500 Euro sempre a mezzo ATM. 3.4.3. Elementi, questi, dai quali in modo non illogico la sentenza impugnata deduce che la sera del 30 giugno Ca.Se. ha consegnato alla coppia Sa.Si.-Ca.Lo. la somma complessiva di - almeno -9.500 euro in contanti, nei giorni successivi dai predetti versati tramite ATM sui conti correnti "in sofferenza". In particolare, priva di fondamento è la censura dei ricorrenti, secondo cui sarebbe contraddittoria la motivazione della Corte territoriale, che ha riconosciuto che l'espressione "documenti", cui si riferiscono Sa.Si.e Ca.Se. in relazione all'incontro che deve avvenire tra i due, può riferirsi anche alla documentazione relativa al piano industriale della procedura di prevenzione "F. Ponte", di cui Ca.Se. era amministratore giudiziario, e nondimeno ha ritenuto dimostrata la consegna del denaro. Invero, anche qui con argomentazione non sindacabile in sede di legittimità, la sentenza impugnata ha giudicato "tra loro non alternative - e, invece, logicamente compatibili l'una con l'altra - le ipotesi della contestuale consegna, nell'occasione, del piano industriale ... e della somma di danaro" (pag. 666). 4. La sentenza impugnata a partire da pag. 860 esamina quindi le contestazioni di cui ai capi 30 e 31. Anche in questo caso, con motivazione non illogica, i giudici di merito hanno ritenuto provato che l'imputata, nella sua qualità di presidente della Sezione Misure di prevenzione e di giudice delegato in una serie di procedure di prevenzione ("Vetrano", "Dolce", "Ingrassia", "Ra.Fr.", "(Omissis)" e "Vi.Wa."), avesse stipulato con Pr.Ca. un patto di natura corruttiva, avente ad oggetto la nomina di Sa.Ro. quale amministratore giudiziario nelle procedure sopra indicate, affinchè quest'ultimo - coinvolto sin dall'inizio nel pactum sceleris - chiedesse ed ottenesse, sempre da Sa.Si., la nomina di Pr.Ca. quale coadiutore nelle medesime procedure, con funzione di "consulenza strategica e direzionale" (per le intere procedure Omissis e altri, mentre nella procedura "(Omissis)", la nomina era avvenuta solo per l'immissione in possesso dei beni). Viene evidenziata la "singolarità" delle nomine di Pr.Ca., sia per la figura - "assolutamente inedita nell'intero panorama degli ausiliari del giudice, non solo nella materia delle misure di prevenzione" - del consulente strategico e direzionale (una sorta di "doppione" dell'amministratore giudiziario), sia perché a ciò Sa.Si.aveva provveduto lo stesso giorno del deposito dell'istanza (solo per la "Acanto" il giorno successivo), sia infine perché le nomine erano adottate "con provvedimenti privi di motivazione scritti a penna in calce alle stesse istanze" (pag. 861). 4.1. La genesi del patto corruttivo viene individuata, nella sentenza di prime cure, in un incontro - riferito dal testimone De., operatore di Polizia per anni addetto alla tutela di Sa.Si.- avvenuto presso lo studio del Pr.Ca. e al quale aveva partecipato, oltre alla magistrata, il dottor Sa.Ro. (persona che il teste non conosceva e che successivamente apprese essere stato nominato da Sa.Si.amministratore giudiziario, in primo luogo nella procedura "(Omissis)"). Tale incontro - precisa la sentenza - è stato collocato dal testimone qualche mese prima della visita fatta da Sa.Si.e dal figlio Ca.Em. presso l'Università Kore di Enna e, dunque, prima dell'iscrizione di quest'ultimo presso tale ateneo, avvenuta il 24 maggio 2013 come documentato dal pubblico ministero. Viene altresì evidenziato che Sa.Ro. non era in precedenza noto alla Sezione Misure di prevenzione di Palermo e che la nomina del predetto nella procedura suindicata "era frutto della conoscenza del commercialista avvenuta nello studio di Pr.Ca. che lo aveva presentato alla Sa.Si.in occasione dell'incontro richiDa.Am.". Vengono poi indicati una serie di elementi (tra i quali le conversazioni intercettate dell'avvocato Vi.Wa. e della Ma.Pa., nelle quali si fa riferimento proprio al ruolo di Pr.Ca., e le dichiarazioni di alcuni testimoni che riferivano che chi gestiva in modo prioritario i rapporti con Sa.Si., in relazione alle procedure nelle quali Sa.Ro. era stato nominato amministratore giudiziario, non era questi ma il Pr.Ca.) dai quali emerge con evidenza che l'effettivo dominus della gestione delle procedure in questione era proprio Pr.Ca., persona con la quale la Sa.Si.aveva intrecciato assidui rapporti. La "interposizione" di Sa.Ro. viene spiegata dal Tribunale con l'esigenza di "mascherare" l'attribuzione diretta degli incarichi a Pr.Ca., che dal 2013 stava aiutando il figlio di Sa.Si. a completare gli studi in giurisprudenza e a laurearsi presso l'Università Kore di Enna, e ciò onde evitare che si potessero ipotizzare "condotte corruttive" nella gestione dei patrimoni in sequestro. "(omissis)" -aggiungono i giudici di primo grado - funzionale anche a consentire un'ulteriore utilità a favore di Pr.Ca., consistita nella nomina in dette procedure di suoi familiari (la moglie In.Ma. e la cognata Ma.Ca.) e di diversi amici. Tale meccanismo, secondo il Tribunale, aveva in sé integrato un atto del pubblico ufficiale "contrario ai doveri di ufficio", idoneo a integrare la fattispecie di corruzione propria. 4.2. La ricostruzione dei fatti è condivisa dalla sentenza impugnata (pag. 877 s.) che, con motivazione che questa Corte reputa non illogica, ha ricondotto proprio all'incontro, di cui ha riferito il testimone De., l'instaurazione di un rapporto tra i tre imputati, nell'ambito del quale Sa.Si., a fronte dell'impegno assunto da Pr.Ca. di favorire la carriera universitaria del figlio Ca.Em. (anche con modalità che si sono dimostrate illecite: capì 54 e 55), ha nominato Sa.Ro. (persona a lei precedentemente ignota) in numerose e lucrose procedure di prevenzione, nell'ambito delle quali, a sua volta interveniva il medesimo Pr.Ca., nominato coadiutore, con la inedita funzione di "consulenza strategica e direzionale", nonché la moglie e la cognata del predetto e altri soggetti allo stesso vicini. 4.3. In relazione all'inquadramento, effettuato già dal Tribunale e confermato dalla Corte territoriale, dell'accordo tra i tre imputati come un "patto trilatelare", i ricorrenti hanno eccepito che, in tal modo, si è realizzata, rispetto alla originaria imputazione - nell'ambito della quale al Sa.Ro. veniva contestato l'intervento nella sola fase esecutiva del pactum sceleris - una immutazione del fatto contestato con violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. La questione è stata affrontata, a seguito dei motivi di gravame formulati sul punto, dalla sentenza impugnata ove si è esclusa la violazione del principio di corrispondenza tra contestazione e fatto ritenuto in sentenza, "poiché il nucleo essenziale del fatto contestato non ha subito un significativo mutamento, consistendo in una mera specificazione del momento nel quale Sa.Ro. ha preso parte all'accordo criminoso tra Sa.Si.e Pr.Ca., e tale interpretazione, non trattandosi di una nuova qualificazione giuridica, comunque prevedibile per l'imputato, non ha determinato in concreto alcuna lesione dei diritti della difesa, derivante dai profili di novità che da tale precisazione sono scaturiti", avendo in ogni caso l'imputato Sa.Ro. potuto concretamente difendersi sul punto, con la proposizione del ricorso in appello. 4.4. L'eccezione dei ricorrenti sul punto è infondata. Invero, in via preliminare, va osservato che dalla ricostruzione dei fatti recepita dai giudici di merito risulta che l'intervento di Sa.Ro. nell'ambito del "sistema corruttivo" oggetto dei capi 30 e 31 si colloca sia nella fase genetica dell'accordo (ossia al momento dell'incontro tra Sa.Si., Pr.Ca. e Sa.Ro. nel quale è stato programmato il "sistema") che in quella esecutiva del pactum, che ha trovato attuazione tramite la nomina di Sa.Ro. stesso quale amministratore giudiziario nelle indicate procedure di prevenzione, elemento indispensabile affinchè Pr.Ca. potesse a propria volta essere nominato "coadiutore strategico" nelle stesse. Peraltro, come affermato nella giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, v. Sez. 3, n. 24932 del 10/02/2023, Gargano, Rv. 284846 - 04), in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, sicché l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione. Per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non può consistere nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (v. Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Fr., Rv. 205619). Pertanto, la diversità del fatto che impone la modifica del capo di imputazione e preclude al giudice di pronunciarsi, imponendogli di restituire gli atti al pubblico ministero, è solo quella che determina una effettiva lesione del diritto al contraddittorio e del conseguente diritto di difesa. Per "fatto" (rilevante ai fini di verificarne l'eventuale immutazione) deve intendersi quello storico costituito dalla condotta, dall'evento e dal nesso causale, dalla riferibilità soggettiva della prima e dalla sua realizzazione nelle circostanze di tempo e di luogo date (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799; Sez. 3, n. 21994 del 01/02/2018, Pigozzi, Rv. 273220). Alla luce di detti principi, è evidente che non si è verificata alcuna illegittima immutazione del fatto contestato e correlativa lesione dei diritti di difesa dell'imputato Sa.Ro. 4.5. La sentenza impugnata ha anche adeguatamente spiegato le ragioni a fondamento dell'instaurazione del patto tra Sa.Si., Pr.Ca. e Sa.Ro. evidenziando, in particolare, come, per la stessa Sa.Si., la "prestazione" che Pr.Ca. le poteva assicurare fosse infungibile. Sulla base delle dichiarazioni rese dal teste De., come detto all'epoca addetto alla tutela della presidente Sa.Si.e che quindi la accompagnava ovunque, risulta che poco tempo dopo l'incontro prima ricordato Pr.Ca. ha condotto Sa.Si. e il figlio Em. dal professore Di.Ma., preside della facoltà di giurisprudenza dell'Università Kore di Enna, presso la quale il ragazzo in effetti si trasferirà dalla Università telematica "Marconi" di Roma, ove il percorso di studi si era "arenato". Pr.Ca., che insegnava presso la Kore (seppure nella Facoltà di economia) aveva stretti rapporti anzitutto con Di.Ma., e con altri professori di giurisprudenza e, quindi, risultava la persona perfetta per garantire il "buon esito degli studi universitari del figlio". 4.5.1. E, in effetti, da Pr.Ca. Sa.Si. ebbe a ottenere l'utilità concordata. Invero, la Corte territoriale dà atto che in primo luogo Pr.Ca. si è attivato per l'attribuzione del punteggio più favorevole per il riconoscimento dei crediti relativi agli esami sostenuti a Roma, e ciò tramite la "sensibilizzazione" del preside Di.Ma., che nel 2015 è stato da Sa.Si. nominato, su richiesta del Pr.Ca., coadiutore nell'ambito di una procedura di prevenzione. La sentenza di secondo grado evidenzia al riguardo il contenuto delle email tra i due docenti, precedente alla richiesta di trasferimento di sede, rilevando come si è indubbiamente trattato di intervento eccedente il mero tramite tra studente interessato al trasferimento e la struttura universitaria, atteso che Di.Ma., si compiace per avere "trovato una soluzione idonea a garantire allo studente il riconoscimento del maggior numero possibile di crediti formativi, anche, a suo dire, allargando i confini delle materie" e prima di procedere chiede a Pr.Ca. di "sentire la Sa.Si.", per accertarsi che tale risultato le andasse bene (pag. 905). Successivamente, Pr.Ca. è intervenuto per "raccomandare" - il 21 e il 24 giugno del 2015 - il ragazzo al professore titolare dell'insegnamento di Diritto Romano, il cui esame Ca.Em. doveva sostenere il successivo 25 giugno. Non solo, il 23 giugno lo "segnala" a Di.Ma.,chiedendo anche a lui di "attivarsi" presso i docente della materia e, in effetti, l'esame viene superato, seppur con la votazione, certamente non brillante, di 20/30. Al riguardo, la Corte territoriale disattende le censure difensive - ora riproposte nel ricorso - precisando, in modo logico, come ciò che contava per Sa.Si.non era il voto, ma l'esito positivo della prova di esame (ultima prima della imminente laurea). L'attività di agevolazione della carriera universitaria di Ca.Em. culmina nella redazione, da parte di Pr.Ca., della tesi di laurea del Ca.Lo. (oggetto delle contestazioni di cui ai capi 54 e 55). Va dunque rilevato sul punto che, in definitiva, Pr.Ca. ha assicurato a Sa.Si.una "prestazione di risultato", a prescindere dai mezzi, leciti o illeciti, attraverso i quali questo obiettivo (far conseguire la laurea al figlio) poteva essere raggiunto. E ciò, si ripete, quale corrispettivo della decisione della presidente Sa.Si.- presa "a prescindere", ossia senza una effettiva valutazione delle capacità professionali del prescelto e che trova la causa nella "infungibilità" di Pr.Ca. che lo indica - di nominare Sa.Ro., a lei in precedenza ignoto, quale amministratore giudiziario e, su input di questi, lo stesso Pr.Ca. come "coadiutore strategico". 4.6. Piuttosto, dalla sentenza impugnata emerge che nel corso del tempo le utilità versate da Pr.Ca. e Sa.Ro. a Sa.Si.non si sono limitate ad assicurare il "buon esito della carriera universitaria". Infatti, quando, dopo lo "scandalo mediatico", la situazione economica della famiglia Sa.Si.- Ca.Lo. peggiora, Pr.Ca. provvede a far consegnare a Sa.Si. beni di consumo (sette cassette di frutta e verdura provenienti dalla cooperativa "La Rinascente", facente parte dell'amministrazione "Ingrassia", amministrata da Sa.Ro. e di cui egli era coadiutore). Infine, quando la situazione precipita, a seguito di pressanti richieste di "aiuto" di Sa.Si., Pr.Ca. provvede a consegnarle 15.000 euro in contanti il 20 luglio 2015. 4.6.1. La dazione di detta somma è contestata dai ricorrenti ma la motivazione sul punto della sentenza impugnata resiste alle censure formulate. Viene infatti evidenziata la chiara natura "artificiosa" del bonifico effettuato dal padre di Sa.Si.per la somma di 15.000 Euro sul conto della predetta (e del marito Ca.Lo.) con la causale "regalo di compleanno", atteso che dalle intercettazioni di conversazioni tra l'imputata e Pr.Ca. emerge che la provvista era stata fornita dalla stessa Sa.Si.al di lei padre, con il denaro contante consegnatole proprio da Pr.Ca. ("Ti volevo rassicurare per quel discorso: siamo stati perfetti con mio padre ... Perfetti con mio padre. Lui si è tenuto tutti i contanti, siamo andati qua in banca, ha fatto il bonifico mettendo come causale "regalo di compleanno"). Conversazione che, in modo logico, la Corte territoriale interpreta come indicativa dell'avvenuta ricezione da parte del genitore del denaro a lei consegnato da Pr.Ca. e del meccanismo utilizzato, grazie all'interposizione del padre, per poterne "mascherare la provenienza". Ulteriore elemento, a conforto di tale conclusione, viene individuato in una precedente conversazione di Sa.Si.con il figlio, che aveva bisogno di danaro, nella quale l'imputata assicura che "lunedì ti posso dare i soldi in contante, forse ...". Va aggiunto che, secondo la sentenza impugnata, tale dazione è da porre in relazione all'avvenuta nomina il 17 luglio del Pr.Ca. quale "coadiutore con poteri congiunti e disgiunti dall'amministratore giudiziario", nella procedura "Vi.Wa.", nell'ambito della quale Sa.Si. aveva nominato, su "input" di Na.Ro., amministratore giudiziario Gi.Ri., dimostratosi però non idoneo al compito (vicenda oggetto dei capi 58 e 59). Peraltro, tale dazione si correla, altresì, con la liquidazione, con atto affetto da falsità ideologica, effettuata in data 9 luglio, su richiesta e alla presenza del Sa.Ro. (oggetto del capo 35). 4.6.2. Ulteriori episodi - che vengono contestati come altre "utilità illecite" a favore di Sa.Si., a fronte della sua condotta, qualificata come contraria ai doveri di ufficio - sono individuati dai giudici di merito: nella assunzione di persone "a lei vicine" nell'amministrazione Acanto (ossia Fa.To. -"segnalato" dal figlio Fr. e dalla di lui fidanzata Ma.Pa. - e Ro.Tr. -sponsorizzato dal marito Ca.Lo.); nella "proposta di lavoro per Ca.Em.", peraltro mai concretizzatasi, anche perché il possibile trattamento economico, pari a 1.300 Euro al mese, era considerato da questi "irrisorio"; nella offerta - non si sa quanto concreta - da parte di Pr.Ca. di acquistare per Sa.Si., che soffriva di problemi di schiena, di una "sedia regale"; infine, nella prospettazione del c.d. "triangolone", con il quale si sarebbe potuto replicare presso il Tribunale di Caltanissetta il "sistema Sa.Ro."; e ciò attraverso la nomina da parte di altri giudici (vicini a Sa.Si.) ad amministratore giudiziario nelle procedure di prevenzione di un avvocato, a propria volta in stretti rapporti con Pr.Ca. (che lo avrebbe "coadiuvato dall'esterno"); avvocato che avrebbe poi provveduto a coinvolgere nelle amministrazioni il figlio di Sa.Si., Ca.Lo. Fr., e Ma.Pa., fidanzata del predetto; progetto che aveva "suscitato l'interesse" della Sa.Si. (pag. 927 s.). 4.7. Alla luce di tali fatti, la Corte di appello conclude che si è in presenza di una unitaria vicenda corruttiva sviluppatasi nel tempo e da inquadrarsi nella fattispecie di corruzione propria. E ciò in quanto la nomina di Sa.Ro., espressamente richiesta da Pr.Ca., è stata sostanzialmente effettuata dalla sola Sa.Si.che decideva in proprio e "che aveva l'ultima parola", in quanto gli altri componenti del collegio recepivano acriticamente le decisioni della presidente, e la predetta ha fatto un "uso distorto della discrezionalità amministrativa" nella scelta dell'amministratore giudiziario, scelta determinata dalla tutela non già dell'interesse pubblico, ma del soddisfacimento del proprio illecito interesse, come sopra indicato. Viene al riguardo evidenziato che, prima dell'incontro del 2013 con Pr.Ca. e Sa.Ro., quest'ultimo era alla Sa.Si. completamente sconosciuto. Inoltre, Sa.Ro. non aveva dato buona prova di sé in alcune amministrazioni di prevenzione presso il Tribunale di Trapani (come dichiarato dal teste dottor Grillo, presidente della relativa Sezione Misure di prevenzione che per tale ragione dopo due incarichi non lo aveva più ulteriormente nominato). Si è trattato, dunque, di una "nomina antidoverosa", compiuta solo per dare esecuzione al "sistema corruttivo", e quindi integrante in sé un atto contrario ai doveri di ufficio. Inoltre, atto contrario ai doveri di ufficio deve, secondo la Corte territoriale, essere considerata anche la nomina di In.Ma., moglie di Pr.Ca., laureata in psicologia, quale coadiutore nelle procedure sopra indicate, oltre alle ulteriori nomine di svariati parenti di Pr.Ca. e Sa.Ro. (pag. 885 s.), nonché, infine, contraria ai doveri di ufficio va qualificata anche la "singolare" nomina di Pr.Ca. a "coaudiutore strategico" (con sostanziale e illecita duplicazione della figura dell'amministrazione giudiziario). 5. Va dunque rilevato che i giudici di merito, in riferimento ad entrambi i "sistemi corruttivi" oggetto rispettivamente dei capi 8 - 9 e 30 - 31, al fine di ravvisare la fattispecie di corruzione propria hanno seguito l'orientamento giurisprudenziale che, a tale fine, valorizza il particolare profilo del "distorto uso del potere discrezionale", quale esercizio della pubblica funzione contra legem. 5.1. Prima della modifica normativa del 2012 si era infatti ritenuto che la distinzione tra le fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen. risiedesse nel fatto che, nel primo caso, attraverso l'accordo corruttivo si realizza una violazione del principio di correttezza e del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale, senza che però la parzialità si trasferisca sull'atto, mentre nel secondo caso la parzialità si rivela nell'atto segnandolo di connotazioni privatistiche, perché formato nell'interesse (esclusivo o prevalente) del privato corruttore e rendendolo pertanto illecito e contrario ai doveri d'ufficio. Secondo questa tesi ermeneutica, ciò che caratterizzava la c.d. "corruzione propria" era l'asservimento della funzione per denaro agli interessi dei privati; ne consegue che la corrispondenza dell'atto ai requisiti di legge non esclude il predetto asservimento, con l'avvertenza che la violazione del dovere di imparzialità deve essere intesa come "inottemperanza non generica ma specifica", inerente al contenuto e alle modalità dell'atto da compiere; circostanza che ricorre in ogni modo quando, per l'indebita retribuzione, il pubblico ufficiale scelga tra una pluralità di determinazioni volitive quella che assicura il maggior beneficio al privato al solo fine di favorirlo, divenendo l'interesse privato il motivo dell'atto oltreché del comportamento" (ex multis, Sez. 6, n. 3529 del 12/11/1998 -dep. 1999 - Sabatini, Rv. 212566 - 01). In sostanza - veniva precisato - in tema di corruzione propria, costituiscono atti contrari ai doveri d'ufficio non soltanto quelli illeciti (perché vietati da norme imperative) o illegittimi (perché in contrasto con norme giuridiche riguardanti la loro validità ed efficacia), ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico agente, dall'osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità" (Sez. 6, n. 30762 del 14/05/2009, Ottochian, Rv. 244530 - 01). 5.2. Tale orientamento è stato riaffermato anche successivamente alla riforma del 2012 (che, mantenendo inalterata la fattispecie di corruzione propria ex art. 319, ha però sostituito il testo dell'art. 318 cod. pen. ora rubricato "corruzione per l'esercizio della funzione"). Si è infatti ritenuto che integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione dì un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, "ex post", con l'interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l'elemento decisivo è costituito dalla "vendita" della discrezionalità accordata dalla legge (principio, tra le altre, affermato da Sez. 6, n. 4459 del 24/11/2016, Fiorani, Rv. 269613 - 01, e ribadito, di recente, da Sez. 6, n. 16672 del 02/02/2023, Rinzivillo, Rv. 284611 - 01, secondo cui costituiscono atti contrari ai doveri d'ufficio non soltanto quelli illeciti, perché vietati da norme imperative, o illegittimi, perché in contrasto con norme giuridiche riguardanti la loro validità ed efficacia, ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico agente, dall'osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità). 5.3. Le difese dei diversi imputati coinvolti nei due "sistemi corruttivi" (Sa.Si., Ca.Lo., Ca.Se., Pr.Ca., Sa.Ro.) nei loro ricorsi e poi in sede di discussione orale hanno contestato tale interpretazione, richiamando il diverso indiGi.Ri. giurisprudenziale, in particolare recepito dalla sentenza c.d. "mafia Capitale". Il rilievo è fondato. Ritiene infatti il Collegio di dovere ribadire il principio stabilito nella pronuncia invocata dai ricorrenti, secondo cui in tema di corruzione la mera accettazione da parte del pubblico agente di un'indebita utilità a fronte del compimento di un atto discrezionale non integra necessariamente il reato di corruzione propria, dovendosi verificare, in concreto, se l'esercizio dell'attività sia stato condizionato dalla "presa in carico" dell'interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare, ovvero se l'interesse perseguito sia ugualmente sussumibile nell'interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, nel qual caso la condotta integra il meno grave reato di corruzione per l'esercizio della funzione (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 - dep. 2020, Bolla Rv. 279555 - 05). 5.4. Tale conclusione deriva dalla circostanza che la fattispecie di corruzione propria richiede, per espressa previsione del legislatore, la presenza di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio e ciò vale a distinguerla dalla meno grave figura della "corruzione per l'esercizio della funzione", nella quale detto elemento non è contemplato. La opposta tesi giurisprudenziale accolta dalla sentenza impugnata ha, invece, l'effetto di praticamente azzerare in relazione all'esercizio di potere discrezionale lo spazio applicativo della fattispecie di cui all'art. 318 cod. pen. (come modificata dal legislatore del 2012), atteso che considerare atto contrario ai doveri di ufficio la mera "strumentalizzazione" o "distorsione" dell'esercizio del potere discrezionale stesso, derivante dalla circostanza che il pubblico ufficiale è stato remunerato dal corruttore e ne "ha preso in carica l'interesse", senza operare una adeguata ponderazione degli interessi coinvolti nella decisione di sua spettanza, significa che sussiste sempre la corruzione propria, anche se l'atto in cui si sostanzia tale esercizio non è in sé contra legem. In tal modo si verifica una, non consentita, espansione dell'ambito applicativo del reato ex art. 319 cod. pen. che non risulta in sintonia con il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penale. Con la sentenza n. 98 del 28 aprile - 14 maggio 2021, la Corte costituzionale ha infatti ribadito che sono le norme incriminatrici - non già la loro successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza - a dover "fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore". Il Giudice delle leggi ha aggiunto che "il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale". E deve riconoscersi che nel caso di specie le nomine di Ca.Se. - nel primo "filone corruttivo" - e di Sa.Ro. e Pr.Ca. - nel secondo - non possono di per sé essere ritenuti "atti contrari ai doveri di ufficio". Si tratta infatti di professionisti che avevano in astratto i titoli per ricoprire gli incarichi loro affidati e difetta la violazione di una norma che, in ipotesi, vietava dette nomine (e ciò vale anche per le nomine di In.Ma. e Ma.Ca. - non vigendo al tempo divieti in ragione dei rapporti di parentela con gli amministratori - e per le, pur "singolari", qualificazioni delle coadiuzioni di Pr.Ca. come "consulente strategico" e di Di.Ma., come "consulente per rapporti tra Pubblica amministrazione e mercato"). Anche il ragionamento sulla sostanziale "monocraticità" della scelta, effettuata "in solitudine" e per le già indicate illecite motivazioni soggettive, dalla presidente Sa.Si., non risulta convincente, dal momento che per dette nomine non è stata contestata (a differenza di altri atti, quali le liquidazioni oggetto dei capì 10 e 35) la falsità nella adozione dei decreti di nomina, in quanto apparentemente collegiale, ma in realtà opera della sola imputata con decisione monocratica. Pertanto, la circostanza - incontrovertibile - che fosse la Sa.Si. a decidere, in modo insindacabile, e per le ragioni sopra evidenziate, chi nominare amministratore giudiziario limitandosi gli altri componenti del collegio di prevenzione, per la percepita autorevolezza ed esperienza della presidente, a "ratificare" detta scelta, non può valere a conferire illiceità alle nomine in oggetto. 6. Ciò premesso, rileva questa Corte che, sulla base della motivazione della sentenza impugnata, emerge con evidenza che la decisione di Sa.Si.di nominare i soggetti sopra indicati rispondeva ad un chiarissimo doppio fine "utilitaristico": ottenere da Ca.Se. la nomina del marito quale coadiutore (il che, con i relativi compensi a carico della procedura, avrebbe incrementato le entrate familiari necessarie per far fronte al tenore di vita, assai elevato come riferito dal teste De.); ottenere da Pr.Ca. - su input del quale ella nominava Sa.Ro. amministratore giudiziario nelle procedure suindicate - l'impegno a far conseguire al figlio Em. la tanto agognata laurea in giurisprudenza. 6.1. Così come non è contestabile che la Sa.Si.si sia, a sua volta, "fatta carico" degli interessi dei corruttori (Ca.Se.; Pr.Ca. e Sa.Ro.), agevolandoli nella fase di liquidazione dei compensi. Ciò emerge con evidenza da una serie di episodi nella quale ella è stata coinvolta. In relazione al rapporto con Ca.Se., emblematica è la vicenda - di cui risponde al capo 66 in concorso con l'imputata Ca.Fr., all'epoca Prefetto di Palermo - relativa al tentativo di far assumere da Sc.Al., da lei nominato amministratore giudiziario, il nipote dell'ex prefetto di Palermo, e alla cena organizzata a Palazzo Brunaccini. Manovra finalizzata a far sì che l'alto funzionario in pensione "sensibilizzasse" l'amico dottor Gi.Ba., magistrato del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia che componeva il collegio che doveva decidere, in grado di appello, una controversia nella quale era coinvolto Ca.Se. che si era visto negare dal Ministero della Giustizia la liquidazione - disposta da Sa.Si.- dell'ingentissima somma di oltre cinque milioni di euro a titolo di onorari professionali nell'ambito delle procedure di prevenzione. A prescindere dalla circostanza che i giudici di merito non hanno accertato alcuna "pressione" su Gi.Ba. (e le difese degli imputati hanno sostenuto che, al momento della cena, il Consiglio di Giustizia siciliano aveva già preso la sua decisione, anche se dalle sentenze di merito risulta che a quella data la motivazione non era stata depositata e, dunque, l'esito era ancora ignoto agli interessati) nonché dalla qualificazione giuridica di tali fatti, nondimeno tale episodio, che gli imputati non negano, dimostra in modo plastico la oggettiva "deviazione" della condotta funzionale di Sa.Si.volta ad assecondare, comunque, gli interessi di Ca.Se. che, a sua volta, la avvantaggiava attraverso il coinvolgimento del marito in altre procedure da lui gestite. Vi sono ulteriori episodi che dimostrano la "sollecitudine" dell'imputata a venire incontro alle richieste di Ca.Se. (e tra questi, la liquidazione, oggetto del capo 10) Anche in riferimento al secondo "sistema corruttivo" che coinvolgeva Pr.Ca. e Sa.Ro., è evidente la deviazione funzionale posta in essere da Sa.Si. Ancorché in sé non illecita - in difetto di specifica norma che la vietasse - la nomina di Pr.Ca. a coadiutore "strategico" rappresenta una inutile duplicazione della figura dell'amministratore giudiziario, avente lo scopo di beneficiare il professore che "garantiva" il buon esito del percorso di studio del figlio. Cosi come, nella stessa ottica, va letta la nomina a coadiutore "per i rapporti tra PA e mercato" del professor Di.Ma., che aveva "agevolato" Ca.Em. A ciò si aggiungono i diversi provvedimenti di liquidazione, tra i quali spicca quello - affetto da falsità - oggetto del capo 35. 7. Alla luce dei principi sopra indicati deve quindi ritenersi che entrambi i rapporti corruttivi - la cui esistenza, come si è più volte indicato, è motivata in modo non illogico dalla sentenza impugnata e dunque non è sindacabile in sede di legittimità - si collocano nell'ambito di un pactum sceleris di natura generica e avente sin all'inizio ad oggetto: per la Sa.Si., un "risultato" (il coinvolgimento del marito quale coadiutore in diverse procedere amministrate da Ca.Se. e le conseguenti ricadute economiche per il bilancio familiare; il conseguimento della laurea del figlio Em., garantito da Pr.Ca.) a fronte della abdicazione da parte sua della corretta valutazione delle modalità concrete di esercizio del potere discrezionale relativo alla scelta di amministratori giudiziari e coadiutori; per i privati corruttori (rispettivamente, Ca.Se., Pr.Ca. e Sa.Ro.), il conferimento, a prescindere da un'effettiva valutazione, da parte della presidente Sa.Si.di numerosi e lucrosi incarichi nelle amministrazioni di prevenzione da lei gestite, e la "tutela" dei loro interessi in sede di nomine di coadiutori e di liquidazione dei compensi. 8. E se è vero che le scelte del pubblico ufficiale Sa.Si.non possono - per le ragioni sopra indicate - integrare l'adozione di atti in sé contrari ai doveri di ufficio, nondimeno risulta corretta la ritenuta configurabilità dei fatti contestati nei suindicati capi di imputazione in termini di corruzione propria, dovendosi dunque rigettare i motivi dei diversi ricorsi degli imputati relativi a detto profilo. 8.1. Infatti, i giudici di merito hanno accertato la commissione, da parte di Sa.Si. nell'esecuzione dei due pacta sceleris, di specifici atti anti doverosi, peraltro temporalmente correlati alle già indicate dazioni di somme di denaro in contanti da parte dì Ca.Se. e Pr.Ca. 8.2. In particolare, per la corruzione sub capi 8 e 9, rileva il falso di cui al capo 10 (per il quale la Sa.Si., assolta in primo grado, è stata condannata in appello). Dalla sentenza impugnata (pag. 719/733) emerge che la predetta ha adottato, a favore di Ca.Se. e nell'ambito della procedura di prevenzione "(omissis)", un atto di liquidazione "su istigazione di Ca.Se. che le ha dettato il provvedimento". Si tratta del decreto di liquidazione, relativamente alle attività svolte dall'amministratore nel periodo ottobre 2015-aprile 2015, depositato il 23 giugno 2015 ed avente ad oggetto la somma di euro 100.000 oltre IVA e Cpa, nonché il rimborso del 15% per spese forfettarie, e recante l'indicazione che in caso di incapienza in capo alle società in sequestro le somme da liquidare erano a carico dell'erario. La falsità è consistita nel far apparire, contrariamente al vero, tale provvedimento come collegiale, mentre in realtà esso è stato adottato dalla sola Sa.Si., come presidente del collegio, senza che gli altri due magistrati che lo componevano - i dottori Fa.Li. e Ch. - ne sapessero nulla. I ricorrenti Sa.Si., Ca.Se. e Ca.Lo. hanno contestato tale parte della sentenza di secondo grado, che a seguito di appello del pubblico ministero, ha riformato l'assoluzione pronunciata dal Tribunale nei confronti di Sa.Si. I motivi non risultano fondati. Invero, la Corte di appello evidenzia in modo congruo come, sulla base delle conversazioni intercettate nello studio della Sa.Si., risulta chiaro che la predetta, su richiesta di Ca.Se. e dopo che il cancelliere le aveva chiarito che il decreto non poteva essere monocratico, abbia direttamente adottato il provvedimento di liquidazione che, intervenendo su un precedente provvedimento adottato dal collegio, doveva essere anch'esso collegiale, firmandolo come presidente senza che vi fosse stata una camera di consiglio o, comunque, un confronto con gli altri due magistrati che componevano il collegio dal quale apparentemente promanava (fatto che, come si vedrà, integra oggettivamente un falso in atto pubblico, aggravato dalla fidefacienza). 8.3. La sentenza di primo grado aveva assolto Sa.Si. da tale imputazione perché aveva ritenuto di non poter escludere che comunque vi fosse stata una, seppur informale, preventiva camera di consiglio o, comunque, una interlocuzione della presidente con i colleghi. Sul punto, la Corte di appello, con motivazione congrua, evidenzia che il tenore delle conversazioni e la "tempistica" dell'adozione del provvedimento e del suo deposito in cancelleria dimostrano con chiarezza che gli altri due magistrati nulla sapevano dell'emissione di detto decreto. In particolare, si rileva che, a seguito della conversazione tra Ca.Se. e Sa.Si., quest'ultima ha redatto, su "istigazione" del primo, il decreto - apparentemente collegiale - che Ca.Se., su indicazione della magistrata, ha inserito in una cartellina dove erano contenuti gli altri provvedimenti da depositare e tutto ciò senza che si fosse mai verificata una interlocuzione "seppur informale" con i colleghi. Conclusione, questa, corroborata dal fatto che subito dopo aveva fatto ingresso nello studio della Sa.Si.il dottor Fa.Li. (che figurava componente del collegio) che si era intrattenuto a parlare con i due presenti, senza che la presidente avesse fatto alcun cenno al provvedimento (formalmente collegiale) appena predisposto per il deposito, limitandosi a salutare il collega aggiornandosi per il giorno successivo (pag. 733). 8.4. E che la decisione sul punto rispetti i requisiti per operare Voverturning per la condanna in appello - in quanto adeguatamente motivata e fondata su elementi obiettivi che erano stati sottovalutati dai primi giudici - è dimostrata anche dal fatto che, al contrario, la Corte territoriale ha rigettato l'appello del pubblico ministero in relazione all'assoluzione della Sa.Si.per il capo 11 (nel quale si contestavano condotte analoghe in relazione ad altri decreti di liquidazione), rilevando come in quei casi non poteva escludersi la alternativa versione, secondo cui i provvedimenti in contestazione erano realmente collegiali. E ciò in considerazione della circostanza che - diversamente dal fatto oggetto del capo 10 - qui vi era stato un ampio lasso temporale tra il 24 giugno 2015 (giorno in cui Sa.Si. prendeva atto della necessità di rettificare i provvedimenti - che dovevano essere necessariamente collegiali - da lei emessi nella qualità di giudice delegato) e il 29 giugno (allorquando, a mente di quanto risulta dai provvedimenti depositati il giorno successivo, il collegio avrebbe tenuto la camera di consiglio). 8.5. Nell'ambito dell'altro "sistema corruttivo" (capi 30 e 31 che vedono imputati, oltre alla Sa.Si., anche Pr.Ca. e Sa.Ro.), rilevano, quali atti contrari ai doveri di ufficio, i falsi di cui al capo 35 (sui quali la sentenza di appello motiva a pag. 934/937, in questo caso confermando la condanna di Sa.Si. adottata in primo grado). Anche per essi viene contestata la medesima falsità: provvedimenti di liquidazione nelle procedure "(Omissis)", "(Omissis)" e "(Omissis)", fatti risultare come adottati dal collegio formato oltre che da Sa.Si., quale presidente, dai magistrati Fa.Li. e Ch., ma in realtà materialmente predisposti su files da Pr.Ca. e Sa.Ro. e dalla Sa.Si. stampati, firmati e depositati il 9 luglio 2015 su input e alla presenza di quest'ultimo senza alcuna deliberazione collegiale o consapevolezza della decisione da parte dei colleghi. La sentenza impugnata ha confermato la condanna nei confronti di Sa.Si. (Pr.Ca. e Sa.Ro. sono stati assolti in primo grado) sulla base del contenuto di una conversazione intercettata, avvenuta il 9 luglio tra Sa.Si. e Sa.Ro., dalla quale emerge con evidenza che questi, dopo averli predisposti con Pr.Ca., aveva portato su pendrive i decreti di liquidazione alla magistrata - che lo attendeva - e che dopo averli stampati "li sottoscriveva monocraticamente senza neanche esaminarli e valutarli". Quindi - aggiunge la Corte territoriale sulla base del contenuto del prosieguo della conversazione tra i due - detti provvedimenti venivano affidati a Sa.Ro. "all'evidente fine che fosse quest'ultimo a consegnarli materialmente in cancelleria, per il deposito" mentre Sa.Si.si recava in udienza. E, in modo non illogico, si deduce che in effetti subito dopo la conclusione di detta conversazione fu proprio Sa.Ro. a consegnare i decreti in cancelleria, circostanza avvalorata dal fatto che dall'acquisizione nella cancelleria della sezione di tali provvedimenti risulta che questi "nella stessa data vi aveva apposto in calce la dicitura ritirata copia, rinuncio alla notifica e ai termini per l'opposizione, sottoscrivendola, alla quale seguivano la dichiarazione di esecutività da parte del cancelliere, anch'essa datata 9 luglio e la successiva presa visione del Sa.Ro." (pag. 936 s.). E tutto ciò senza una camera di consiglio e neppure una preventiva interlocuzione con gli altri membri del collegio che appariva l'organo da cui detti decreti promanavano. 8.6. Non rileva che le somme liquidate in entrambi i casi oggetto delle descritte falsificazioni siano state ritenute "congrue" dai collegi successivamente chiamati a "correggere" i provvedimenti affetti da falsità, dal momento che nella specie ciò che conta è la chiara illiceità della condotta dell'imputata che, per "agevolare" i corruttori, ha violato in modo plateale i doveri di ufficio, commettendo il reato di falso aggravato in atto pubblico. E che i "corruttori" fossero pienamente consapevoli della commissione dell'atto contrario ai doveri di ufficio è dimostrato dal fatto che i provvedimenti falsi vengono predisposti e firmati da Sa.Si.su richiesta e alla presenza, rispettivamente, di Ca.Se. e di Sa.Ro. (che le aveva portato la bozza di provvedimento, predisposto insieme a Pr.Ca.). 9. In ordine alla inclusione (anche) di atti antidoverosi nell'ambito dei diversi patti corruttivi, va ribadito che la "generalità" dei predetti accordi legittima la ragionevole inclusione operata dai giudici di merito secondo cui nell'originaria pattuizione era contemplato il compimento da parte della Sa.Si.- anche - di atti contrari ai doveri di ufficio (peraltro, come detto, i falsi vengono, in entrambi i casi, commessi "su istigazione" e "input" dei corruttori). 9.1. Adeguata appare quindi la motivazione in ordine agli specifici atti antidoverosi adottati al termine del rapporto corruttivo da Sa.Si.(e alla loro inclusione, sia pur in termini generali, nei pacta sceleris). Su detto profilo, si è pronunciata la sentenza di questa Sezione che ha rilevato che "È possibile che il patto corruttivo sia solo apparentemente muto, ma in realtà il suo oggetto sia in concreto ricostruibile, nel senso che l'impegno da parte del pubblico ufficiale sia quello di compiere uno o più specifici atti contrari ai doveri d'ufficio; non importa che l'atto specifico sia successivamente compiuto, quanto, piuttosto, la esatta determinazione del contenuto del programma obbligatorio che il pubblico ufficiale assume. Si tratta di un accertamento che, sotto il profilo probatorio, deve essere compiuto caso per caso; potranno assumere rilievo la situazione concreta, le aspettative specifiche del corruttore, cioè il movente della condotta del corruttore - il senso ed il tempo della pretesa di questi-, la condotta in concreto compiuta dal pubblico agente, le modalità della corresponsione del prezzo. Deve essere accertato il "colore" del patto corruttivo, il suo oggetto specifico, la sua riferibilità o meno al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio; se il contenuto del patto non "attiene" al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio, la condotta è riconducibile all'art. 318 cod. pen. Il patto può essere probatoriamente muto, nel senso che non sia individuabile nessuno specifico atto che il pubblico ufficiale si sia impegnato a compiere; è possibile che, a fronte della dazione di denaro da parte del privato corruttore - anche con scadenze temporali fisse (es. una determinata somma al mese) -, il pubblico ufficiale assuma solo l'impegno "di sorvegliare", "di vigilare" che gli interessi del privato, presi indebitamente "in carico", non siano danneggiati nel corso del procedimento amministrativo" (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 - dep. 2020, Bolla, pag. 128). In sostanza, nell'ambito di una duplice "corruzione generica e di risultato" al cui interno nella prima fase esecutiva gli atti posti in essere dal pubblico ufficiale corrotto (le nomine di Ca.Se. e di Sa.Ro. e Pr.Ca.) non erano in sé contrari ai doveri di ufficio (e dunque in tale momento la corruzione era qualificabile come "per l'esercizio della funzione"), successivamente si è, in entrambi i casi, "passati" alla fattispecie di "corruzione propria". E ciò è avvenuto allorquando Sa.Si. ha adottato - su input e nell'interesse, rispettivamente, di Ca.Se., e di Pr.Ca. e Sa.Ro. - i suindicati atti contrari ai doveri d'ufficio. Essi, peraltro, si collocano in rapporto di stretta concomitanza temporale con le illecite dazioni di denaro da parte dei corruttori a favore della Sa.Si., avvenute, rispettivamente, a fine giugno e a fine luglio del 2015. 10. Questa Sezione ha già affermato il principio - che qui si intende ribadire - secondo cui in tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d'ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri, configura un unico reato permanente, previsto dall'art. 319 cod. pen., in cui è assorbita la meno grave fattispecie di cui all'art. 318 stesso codice, nell'ambito del quale le singole dazioni eventualmente effettuate, sinallagmaticamente connesse all'esercizio della pubblica funzione, si atteggiano a momenti consumativi di un unico reato di corruzione propria (Sez. 6, n. 16781 del 21/10/2020 - dep. 2021, Crialese, Rv. 281089 - 05). 10.1. Peraltro, da tale qualificazione giuridica dei fatti contestati non consegue - contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti - né la prescrizione, né l'invocata applicazione del regime sanzionatorio ante l.n. 69 del 2015. Infatti, come indicato, entrambe le corruzioni risultano consumate - con le riportate dazioni di denaro - a fine giugno 2015 e a fine luglio 2015: dunque, successivamente all'entrata in vigore della legge suindicata (14 giugno 2015). Non possono accogliersi le deduzioni difensive dei diversi imputati condannati per detti capi, secondo cui la "commissione del reato" dovrebbe essere anticipata al momento della pattuizione (precedente, e di molto, alla modifica normativa: 2010 per Ca.Se. e 2013 per Pr.Ca. e Sa.Ro.). E' vero che il delitto di corruzione si perfeziona alternativamente con l'accettazione della promessa ovvero con la dazione-ricezione dell'utilità (Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246583) e può, dunque, ritenersi consumato quando tra le parti sia stato raggiunto anche solo un accordo di massima sulla ricompensa da versare in cambio dell'atto o del comportamento del pubblico agente, anche se restino da definire ancora dettagli sulla concreta fattibilità dell'accordo e sulla precisa determinazione del prezzo da pagarsi (Sez. 6, n. 13048 del 25/02/2013, Ferrieri Caputi, Rv. 255605). Tuttavia, quando alla promessa segue l'effettiva dazione del denaro, il termine di prescrizione decorre da tale momento (Sez. 6, n. 4105 del 01/12/2016 - dep. 2017, Ferroni, Rv. 269501). 10.2. Né, indicazioni contrarie a tale conclusione possono trarsi dalla già citata sentenza di questa Sezione, alla quale si sono riferiti diversi ricorrenti. Il passo invocato a sostegno di detta tesi difensiva è contemplato a pag. 122, ove si precisa che "Entrambe le fattispecie criminose previste dagli artt. 318 - 319 cod. pen. descrivono il perfezionamento di una pattuizione tra un privato e un soggetto qualificato, il cui oggetto tuttavia deve essere accertato. Concluso l'accordo, il reato è perfezionato e non assume rilievo decisivo la sua esecuzione; è l'accordo che si punisce, anche se intervenuto successivamente all'adozione dell'atto- legittimo o illegittimo che sia - ovvero all'esercizio della funzione" (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 - dep. 2020, Bolla, cit.). Da esso, però, non si evince affatto che - fermo il perfezionamento del delitto con la stipulazione del pactum sceleris - la successiva esecuzione sia priva di effetti in ordine ai - diversi - profili di cui agli artt. 158 e 2 cod. pen. Il su riportato principio rileva anche in riferimento al fenomeno della successione di leggi penali nel tempo: in questo caso, infatti, l'ulteriore evento (ossia la dazione dell'utilità) è correlato a un atto di volontà del soggetto corruttore posto in essere consapevolmente quando è in vigore la nuova disciplina di maggior rigore, di tal che non vi è alcuna ragione per ritenere detto profilo privo di effetti ai fini suindicati. In merito, non risulta rilevante neppure la circostanza, su cui si è insistito in particolare in uno dei ricorsi in favore di Ca.Se., che per il delitto di usura il legislatore è intervenuto nel 1996 con specifica norma, art. 644-tercod. pen., che ha disposto che per tale reato la prescrizione decorre dal giorno dell'ultima riscossione sia degli interessi che del capitale. Invero, detto intervento legislativo - esplicitamente adottato per risolvere un problema interpretativo in ordine alla natura, istantanea o a duplice schema, uno dei quali a "condotta frazionata o a consumazione prolungata", della fattispecie di cui all'art. 644 cod. pen. - non implica che, al contrario, per il delitto di corruzione la prescrizione decorra dal pactum laddove ad esso segua la dazione illecita. Così come non perspicuo appare il richiamo a Sez. U, n. 40986 del 2018, Pittalà, Rv. 273934 - 01, che ha ad oggetto il differente fenomeno di reati di evento naturalistico (nella specie, omicidio) nei quali la condotta del soggetto agente si sia interamente espFa.Li. sotto il vigore della norma più favorevole e l'evento morte (il cui verificarsi è del tutto indipendente da un ulteriore atto di volontà dell'agente) si produca quando è intervenuta una disciplina sfavorevole: situazione nella quale i principi di colpevolezza e di irretroattività della legge penale aggravatrice impongono di dare applicazione alla più favorevole "legge della condotta" rispetto a quella, più severa, vigente alla data dell'evento. 11. E' opportuno ancora precisare che "in tema di corruzione, nella nozione di "altra utilità" rientrano anche le prestazioni di natura non patrimoniale, assumendo rilievo, quale oggetto della dazione o promessa, qualsiasi vantaggio materiale o morale, che costituisca la controprestazione posta a base dell'accordo corruttivo e si trovi in un rapporto di proporzionale corrispettività rispetto all'esercizio dei poteri o della funzione, ovvero al compimento dell'atto contrario ai doveri d'ufficio". (Sez. 6, n. 10084 del 08/01/2021, Lacchini, Rv. 281502 - 01). Pertanto, anche l'impegno di Pr.Ca. a "seguire la carriera universitaria del figlio" di Sa.Si., impegno effettivamente svolto con le modalità sopra indicate e culminato con la redazione da parte del medesimo Pr.Ca. della tesi di laurea falsamente attribuita al laureando, integra pienamente una "utilità" rilevante nell'ambito della fattispecie di corruzione. 11.1. Così come sussiste la rilevanza penale del coinvolgimento nel rapporto corruttivo di cui al capo 8 di Ca.Lo. (percettore delle somme di denaro relative ai compensi da lui ricevuti quale coadiutore nelle procedure di prevenzione amministrate da Ca.Se., e poi riversate nei conti correnti cointestati con la moglie). E tale coinvolgimento è rinvenibile tanto nella fase genetica dell'accordo, essendo egli indiscutibilmente partecipe essenziale del pactum sceleris, che lo vedeva come il beneficiario diretto dell'accordo tra la moglie e Ca.Se., quanto nella fase esecutiva, atteso che è comunque configurabile il concorso nel reato di corruzione da parte del terzo che partecipi alla fase esecutiva di dazione/ricezione dell'utilità con piena consapevolezza delle finalità illecite perseguite da corruttore e corrotto, così ponendo in essere una condotta che integra essa stessa la fattispecie tipica (Sez. 6, n. 29673 del 31/05/2022, Foglia, Rv. 283716 - 01). 11.2. Infine, non può condividersi l'affermazione, sostenuta dal ricorrente Ca.Se. secondo la quale in realtà egli sarebbe stato "vittima" delle sempre più pressanti pretese di Sa.Si. (tra cui, da ultimo, la richiesta di somme di denaro) pretese alle quali aveva in qualche modo dovuto soggiacere, dovendo quindi essere qualificato persona offesa di una condotta concussiva. Invero, come è stato chiarito dalla giurisprudenza, la condotta di sollecitazione di cui al reato di istigazione alla corruzione, si distingue sia da quella di costrizione, cui fa riferimento il novellato art. 317 cod. pen., che da quella di induzione, caratterizzante la nuova ipotesi delittuosa di cui all'art. 319-quater cod. pen., in quanto si qualifica come una richiesta formulata dal pubblico agente al privato senza esercitare pressioni, risolvendosi nella prospettazione di un mero scambio di "favori", connotato dall'assenza di ogni tipo di minaccia diretta o indiretta (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 -dep. 2020, Bolla, Rv. 279555 - 12). Nel caso di specie - a differenza dall'episodio oggetto del capo 65 - non è evincibile nessuna minaccia nei confronti del ricorrente da parte della Sa.Si., rientrando la dazione del denaro (peraltro "simmetrica" rispetto a quanto fatto nel medesimo torno di tempo nell'altro "sistema corruttivo" da Pr.Ca.) perfettamente nell'illecito rapporto sinallagmatico dal quale il ricorrente ha tratto utilità di notevolissimo importo. 12. Pertanto, vanno confermate le affermazioni di penale responsabilità degli imputati Sa.Si., Ca.Em. e Ca.Se. con riferimento ai capi 8 e 9, nonché della stessa Sa.Si.con Pr.Ca. e Sa.Ro. per i capi 30 e 31 in relazione alle due fattispecie di corruzione, correttamente qualificate ai sensi dell'art. 319 cod. pen. 13. Invece, risultano parzialmente fondati i motivi di ricorso, formulati nell'interesse di Sa.Si.e di Na.Ro., in relazione alla terza ipotesi di corruzione, anch'essa qualificata ai sensi dell'art. 319 cod. pen. (capi 58 e 59). Dalle sentenze di merito emerge che l'imputata - in una importante procedura di prevenzione patrimoniale ("Vi.Wa."), nel cui ambito erano in sequestro trenta società e novecento cinquanta immobili - ha nominato come amministratore giudiziario Gi.Ri., soggetto che le era stato "sponsorizzato" da Na.Ro., colonnello della Guardia di Finanza in forza presso la DIA di Palermo che aveva coordinato le indagini poi sfociate nella proposta di sequestro di prevenzione. Gi.Ri., indicato nelle sentenze di merito come persona "prona ai voleri del Na.Ro.", si era però dimostrato inadeguato al compito affidato di tal che è stato messo "sotto tutela" dall'intervento di Pr.Ca., nominato dal collegio presieduto da Sa.Si."coadiutore dell'amministratore con l'incarico di provvedere alla consulenza direzionale e strategica, conferendogli poteri congiunti e disgiunti da quelli dell'amministratore" (e dunque reale dominus della gestione dei beni sequestrati). Secondo l'imputazione, recepita nelle sentenze di primo e secondo grado, a fronte della nomina di Gi.Ri., Na.Ro. aveva prospettato varie "sistemazioni" per il marito di Sa.Si., per il figlio Fr. e per la di lui fidanzata, da attuarsi, però, non tramite Gi.Ri., ma ad opera "di una terza persona, connivente con il Na.Ro., che avrebbe operato, è evidente, nell'ambito di quella medesima amministrazione giudiziaria" (pag. 1030) e con modalità tali da non poter risalire al "collegamento" con la nomina del predetto Gi.Ri. effettuata dalla presidente Sa.Si.che pure in una telefonata intercorsa con Ca.Se. ella definiva "un cretino". 13.1. Infondato è il motivo del ricorso formulato nell'interesse di Na.Ro., nel quale si eccepisce - per la prima volta in sede di legittimità - la inutilizzabilità delle intercettazioni di conversazioni che sarebbero state disposte per reato diverso da quello in oggetto, reato che non sarebbe connesso ai sensi dell'art. 12 cod. proc. pen. e quindi utilizzate processualmente in violazione del principio affermato da Sez. U, n. 51 del 28/11/2019 - dep. 2020, Cavallo, Rv. 277395 -01. Questa Corte ha affermato il principio secondo cui l'eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche o ambientali può essere sollevata per la prima volta innanzi a questa Corte di cassazione ai sensi dell'art. 609, comma 2, cod. proc. pen., trattandosi dì una ipotesi di inutilizzabilità assoluta rilevabile anche di ufficio (Sez. 5, n. 23015 del 19/04/2023, Bernardi, Rv. 284519 - 01). Il ricorrente ha altresì assolto all'onere di indicare specificamente le intercettazioni delle quali deduce l'inutilizzabilità (onere richiesto a pena di inammissibilità: Sez. 6, n. 18187 del 14/12/2017, dep. 2018, Nunziata, Rv. 273007). Invece, va osservato che la dedotta questione, relativa alla sussistenza o meno della connessione ex art. 12 cod. proc. pen., involge accertamenti e valutazioni di fatto soggetti dunque al previo e naturale vaglio del giudice di merito e che, pertanto, non possono essere dedotte per la prima volta nel giudizio di legittimità (Sez. 6, n. 37767 del 21/09/2010, Rallo, Rv. 248589 -01). Inoltre, e il profilo risulta dirimente, il ricorrente non ha assolto al necessario onere di evidenziare perché, in caso di espunzione di dette intercettazioni, la motivazione della sentenza impugnata risulterebbe di per sè insufficiente (e ciò atteso che, come indicato dalle Corte territoriale, la sentenza di primo grado ha motivato l'affermazione di penale responsabilità anche su elementi probatori diversi: intercettazioni di conversazioni di Sa.Si.con altri componenti del collegio - i dottori Fa.Li. e Ch. - e con Pr.Ca.: pag. 1032 ss.; intercettazioni di conversazioni tra Sa.Si. e Ca.Se. e di Pr.Ca. con il giudice Tona: pag. 990; nonché deposizioni rese dai testimoni nell'istruttoria di primo grado, tra i quali lo stesso Gi.Ri.: pag. 991). In tal modo non è stato rispettato il principio secondo il quale nell'ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (ex multis, Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 - dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218 - 01). 13.2. Ciò premesso, rileva il Collegio che la sentenza impugnata individua, nella nomina da parte della Sa.Si. di Gi.Ri., sponsorizzato dal Na.Ro., un "atto contrario ai doveri di ufficio". Infatti, si evidenzia che detta nomina è solo "formalmente collegiale", ma in realtà risulta - in palese violazione dell'art. 35 del Codice antimafia - disposta dalla Sa.Si., questa volta all'insaputa degli altri membri della sezione (i dottori Fa.Li. e Ch.), che neppure erano a conoscenza di chi fosse Gi.Ri. e che ella informò "solo a cose fatte" cioè dopo aver depositato il decreto di nomina (pag. 1032 e 1034 ss.); quindi, la procedura di nomina potrebbe avere integrato, secondo quanto ritenuto dai giudici di merito, un falso in atto pubblico (che però non risulta contestato). La Corte di appello rileva altresì che è corretta la qualificazione della fattispecie in termini di "corruzione propria". E ciò perché "l'interesse perseguito in concreto tramite la nomina del Gi.Ri., quantunque sussumibile nell'interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, è stato in concreto limitato, condizionato ed inquinato dall'esigenza di soddisfare gli interessi privati posti a carico con l'accordo corruttivo e che il pubblico ufficiale, pertanto, in conseguenza proprio del patto corruttivo intercorso con il Na.Ro., non ha fatto buon governo del potere assegnatogli, preferendo pregiudizialmente realizzare l'interesse del privato corruttore (oltre che quello proprio), a fronte, ragionevolmente, di possibili esiti diversi" (pag. 1037). 13.3. La motivazione a fondamento della condanna non risulta adeguata a dare conto della sussistenza della fattispecie corruttiva, per la cui integrazione è indispensabile "che sussista un rapporto sinallagmatico tra il compimento dell'atto d'ufficio e la promessa o ricezione di un'utilità, la cui dazione deve rappresentare l'adempimento del patto corruttivo" (Sez. 6, n. 3765 del 09/12/2020 - dep. 2021, Rv. 281144 - 01). A tale riguardo, si è precisato che nella nozione di "altra utilità" rientrano anche le prestazioni di natura non patrimoniale, assumendo rilievo, quale oggetto della dazione o promessa, qualsiasi vantaggio materiale o morale, che costituisca la controprestazione posta a base dell'accordo corruttivo e si trovi in un rapporto di proporzionale corrispettività rispetto all'esercizio dei poteri o della funzione, ovvero al compimento dell'atto contrario ai doveri d'ufficio (Sez. 6, n. 10084 del 08/01/2021, Lacchini, cit.); profilo, questo, valorizzato dalla sentenza impugnata in relazione al beneficio ottenuto da Na.Ro. tramite la nomina di Gi.Ri. Nella specie, tuttavia, la Corte territoriale, da un lato, non chiarisce adeguatamente se la "promessa" di futuri e eventuali incarichi ai familiari di Sa.Si. avesse i necessari caratteri di concretezza, tenuto conto che non viene neppure esplicitato chi, per conto del Na.Ro., avrebbe dovuto "beneficiare" i predetti (di tal che non può neppure escludersi che si sia trattato di "millanterie" dello stesso Na.Ro., funzionali ad ottenere dalla presidente Sa.Si.la nomina di Gi.Ri. a cui evidentemente molto teneva); dall'altro lato, la sentenza non indica in modo convincente quale sarebbe stato il fine effettivamente perseguito da Na.Ro. attraverso tale nomina. Fine che, indubbiamente, rileva per potere "colorare" in termini di illiceità l'accordo tra i soggetti ai quali l'imputazione è stata ascritta. Pertanto, si impone, per entrambi gli imputati, l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata in relazione a detti capi. Il Giudice del rinvio accerterà, alla luce dei principi sopra indicati, la sussistenza degli elementi strutturali della corruzione, verificando, in caso di esito positivo di tale esame, e alla luce di quanto precedentemente rilevato in tema di differenza tra le fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen., la correttezza della sua qualificazione in termini di corruzione propria. 14. La sentenza deve invece essere confermata in riferimento alla condanna di Sa.Si.per la contestazione di cui al capo 65. Si tratta della già menzionata concussione a danno di Sc.Al., nominato dall'imputata amministratore giudiziario nella procedura "Sgroi", nel cui ambito egli gestiva numerosi supermercati. Alla ricorrente viene contestato di avere, con abuso della sua qualità di pubblico ufficiale, costretto Sc.Al. a darle gratuitamente merci e generi alimentari per un valore complessivo di euro 13.936, debito poi "ripianato" dallo stesso Sc.Al. 14.1. La ricorrente ha censurato detta decisione in ragione della impossibilità di qualificare il fatto come concussione, atteso che la "condotta costrittiva" non risulta dimostrata. A tal fine ha richiDa.Am. l'orientamento di legittimità - espresso, tra le altre da Sez. 6, n. 22526 del 10/03/2015, Pg in proc. B, Rv. 263769 - 01 - secondo cui "ai fini della configurabilità del reato di concussione non è sufficiente lo stato di timore riverenziale o autoindotto del destinatario di una richiesta illegittima proveniente da un pubblico ufficiale, neppure quando quest'ultimo riveste una posizione sovraordinata e di supremazia rispetto al primo, poiché il delitto di cui all'art. 317 cod. pen. richiede che l'agente provvisto di qualifica pubblicistica, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, esteriorizzi concretamente un atteggiamento idoneo ad intimidire la vittima". Ciò, si aggiunge, specie in ragione dei rapporti, di frequentazione e amicizia, che intercorrevano tra Sc.Al. e Sa.Si. e dell'assenza da parte di costei di esplicite "minacce costrittive". 14.2. Il motivo è infondato. La contestazione è, come detto, relativa all' abuso della qualità da parte della Sa.Si. (che agiva "strumentalizzando la posizione di preminenza rispetto a Sc.Al."). Secondo quanto precisato da Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, - dep. 2014, Maldera, Rv. 258774, l'abuso di qualità rientra, in ordine alla distinzione tra art. 317 e art. 319 quater cod. pen., tra i "casi border line". Su tale profilo il supremo Collegio nomofilattico ha evidenziato che l'abuso di qualità, in cui il pubblico funzionario fa pesare, per conseguire la dazione o la promessa dell'indebito, tutto il peso della sua posizione soggettiva, senza alcun riferimento al compimento di uno specifico atto del proprio ufficio o servizio, si presta ad una duplice plausibile lettura. Infatti, può porre il privato in una condizione di pressoché totale soggezione, determinata dal timore di possibili ritorsioni antigiuridiche, per evitare le quali finisce con l'assecondare la richiesta; ovvero può indurre il privato a dare o promettere l'indebito, per acquisire la benevolenza del pubblico agente, foriera potenzialmente di futuri favori, posto che il vantaggio indebito, sotto il profilo contenutistico, può consistere, oltre che in un beneficio determinato e specificamente individuato, anche in una generica "disponibilità clientelare" del pubblico agente". Tra gli esempi di tale ambivalenza, le Sezioni unite indicano il caso, emblematico, "di un appartenente a una forza di polizia che, dopo avere consumato un pranzo con amici in un ristorante, facendo valere il suo status, pretenda di non pagare il conto o di saldarlo in maniera quasi simbolica". In questo caso - si precisa - è necessario contestualizzare la complessiva vicenda, apprezzando e valutando ogni particolare delle modalità comportamentali dei due soggetti, per stabilire se il pubblico ufficiale "abbia veicolato un univoco messaggio di sopraffazione verso il secondo, sì da porre quest'ultimo in una condizione di vera e propria coercizione (concussione), ovvero se tra i due interlocutori, nonostante la posizione di preminenza dell'uno sull'altro, si sia comunque instaurata una dialettica utilitaristica, eziologicamente rilevante sotto il profilo motivazionale (induzione indebita)". 14.3. Rileva il Collegio che nel caso in esame, i giudici di merito hanno evidenziato molteplici, significativi e convergenti elementi che rendono non illogica la motivazione con la quale si è affermata la sussistenza dell'art. 317 cod. pen. e che possono essere così sintetizzati: a) tra i due soggetti, benché entrambi pubblici ufficiali, sussiste un'indubbia sproporzione di posizione, rivestendo Sa.Si. - presidente della Sezione misure di prevenzione - una evidente posizione di supremazia rispetto a Sc.Al., nominato dalla predetta amministratore giudiziario in alcune di dette procedure ; b) Sa.Si., accumulato il debito, molto rilevante, si rifiuta di estinguerlo nonostante le ripetute (sempre più accorate e "preoccupate") richieste di Sc.Al., continuando peraltro a "servirsi" presso l'esercizio commerciale e facendo così ancora crescere la sua esposizione debitoria; c) l'imputata dice apertamente che lei in quel supermercato "non paga" (come emerge dalla deposizione del teste De.); d) Sc.Al. afferma di essersi sentito minacciato dalle dichiarazioni, rilasciate alla stampa dalla Sa.Si.proprio dopo che lui aveva insistito affinchè "ripianasse il debito", dichiarazioni che, contrariamente al vero, lo indicavano come "il re degli incarichi" (e che Sc.Al. ha, certo non implausibilmente, ricondotto anche all'intento perseguito dalla Sa.Si., di "distogliere l'attenzione da Ca.Se."); e) l'imputata insiste affinchè Sc.Al. per estinguere il debito "le faccia un prestito"; f) quest'ultimo, che - come ha riferito in dibattimento - sentiva di "essere con le spalle al muro", di "rischiare di rimanere stritolato" cioè "sparato quotidianamente sui giornali", ha provveduto "di tasca propria" - pur consapevole che non riavrà mai indietro il denaro - al pagamento rateale delle somme dovute alla amministrazione da Sa.Si.(che, nel frattempo, ha continuato senza alcun problema a servirsi nel supermercato senza mai pagare i beni prelevati); g) Sc.Al. non perseguiva alcun fine utilitaristico, ma ha dovuto soggiacere alle pretese costrittive della Sa.Si. 14.4. Si è quindi chiaramente al di fuori di un mero "timore reverenziale" o della fattispecie di "induzione indebita". In ordine alla distinzione tra le due figure criminose, questa Sezione ha precisato che "in tema di concussione di cui all'art. 317 cod. pen., così come modificato dall'art. 1, comma 75 della legge n. 190 del 2012, la costrizione consiste nel comportamento del pubblico ufficiale che, abusando delle sue funzioni o dei suoi poteri, agisce con modalità o con forme di pressione tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciatogli; ne consegue che non è sufficiente ad integrare il delitto in esame qualsiasi forma di condizionamento, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare una coercizione psicologica cogente in capo al soggetto passivo" (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264278 - 01). 14.5. Alla luce degli elementi sopra indicati, come correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata (pag. 1064 s.), ricorrono i presupposti della fattispecie ex art. 317 cod. pen. Infatti, Sc.Al., a seguito della condotta posta in essere da Sa.Si., reiterata e connotata da evidente abuso della sua qualità pubblica, è stato costretto, non potendo giustificare un deficit contabile che cresceva sempre più e del quale egli quale amministratore era responsabile, a "ripianare" il cospicuo debito accumulato dall'imputata e ciò al fine di evitare la realizzazione delle minacce (implicite e allusive, ma non per questo non concrete) di ritorsioni nei suoi confronti. 15. Diversa è, invece, la conclusione che il Collegio ritiene di dovere adottare in riferimento alla concussione tentata, contestata al capo 66 e per la quale è stata condannata, oltre a Sa.Si., anche Ca.Fr., all'epoca prefetto di Palermo. La vicenda è relativa al tentativo posto in essere da parte delle imputate di "imporre" - sempre ad Alessandro Sc.Al. che, quale amministratore giudiziario nel procedimento di prevenzione "(Omissis)", gestiva un relais e cantina di vini ("Abbazia Santa Anastasia") - l'assunzione di Ri.Sc., nipote dell'ex prefetto di Palermo. Dalle intercettazioni delle conversazioni intercorse tra le due imputate e tra Sa.Si. e Ca.Se. emerge che il dottor Ri.Sc. era in ottimi rapporti con Gi.Ba., magistrato componente del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia che doveva decidere il ricorso proposto dal Ministro della Giustizia avverso la decisione del TAR di Palermo che aveva accolto il ricorso di Ca.Se. avverso il diniego di disporre il pagamento degli emolumenti, pari a cinque milioni e centomila euro, a lui liquidati da Sa.Si. nell'ambito della procedura a carico dei "fratelli Sa.". Sulla base di quanto accertato dai giudici di merito, il coinvolgimento dell'ex prefetto aveva l'obiettivo di "sensibilizzare sulla deFa.Li. questione" il magistrato amministrativo; ragione per la quale veniva organizzata una cena presso il ristorante di Palazzo Brunaccini (gestito da Ca.Se.) alla quale partecipavano, oltre alle due imputate, anche l'ex prefetto e il magistrato amministrativo e nel corso della quale interveniva, sia pur brevemente, lo stesso Ca.Se. 15.1. Il Collegio non ritiene che il fatto possa essere qualificato come tentata concussione. Sc.Al. nel dibattimento di primo grado descrive l'intervento di Sa.Si. come "sempre più insistente ... dovevamo prenderlo ... i toni erano sempre molto decisi ... non ti lasciava molto spazio per dire di no. Quindi questa era una richiesta che, siccome interessava al prefetto, doveva essere fatta" (sentenza di appello, pag. 1069). Peraltro, a differenza dell'episodio precedente, qui Sa.Si. certamente insiste per ottenere l'assunzione, ma non si ravvisano minacce (ancorché implicite) o un abuso costrittivo. Risulta infatti che Sc.Al., dopo avere preso tempo dimostrandosi "possibilista" circa l'assunzione dello Sc., a un certo punto dice chiaramente a Sa.Si.(anche in ragione delle pretese economiche del tutto "fuori mercato" richieste dalla predetta in favore dello Ri.Sc.) che "non si può assumere questo tizio!" (pag. 1070), senza che tale risposta abbia generato nella Sa.Si. reazioni particolari nei confronti di Sc.Al.. E' vero che l'imputata nel corso di una successiva conversazione riferisce a Ca.Se. che Sc.Al. "non avrà chance" (pag. 1081) ma, secondo quanto riferito dallo stesso Sc.Al. nel dibattimento, al suo diniego di assumere il nipote dell'ex prefetto la Sa.Si.si è acquietata non insistendo ulteriormente. Ancora, la sentenza impugnata dà atto che Sa.Si. sostiene (con Ca.Se. e la Ca.Fr.) che Sc.Al. avrebbe fatto quello che gli si era chiesto; ma, in realtà, Sc.Al. nulla le aveva garantito ed anzi aveva detto in modo chiaro che l'assunzione non era possibile. Deve allora ritenersi che dette espressioni fossero una sorta di "millanteria" di Sa.Si.per rassicurare i suoi interlocutori, in vista della cena, alla quale attribuiva grande importanza, nell'ottica della "tutela degli interessi di Ca.Se.", al Palazzo Brunaccini con l'ex prefetto e il giudice amministrativo Gi.Ba.. 15.2. Alla luce dei principi, sopra riportati in tema di rapporti tra concussione e induzione indebita, deve ritenersi che questo episodio vada qualificato ai sensi degli artt. 110,56 e 319 quater cod. pen. Di tale contestazione debbono rispondere sia Sa.Si.che la coimputata Ca.Fr. la quale indubbiamente ha fornito un contributo causale attraverso il tentato coinvolgimento dell'ex prefetto con cui aveva rapporti di colleganza e amicizia e le continue interlocuzioni con la Sa.Si., di indiscutibile valenza rafforzatrice - quantomeno - dell'intento delittuoso. Peraltro, in considerazione del tempus commissi delieti (12 giugno 2015), della disciplina sanzionatoria applicabile ratione temporis (il fatto è precedente all'aggravamento sanzionatorio di cui alla legge n. 69 del 2015, entrata in vigore il successivo 14 giugno) e della natura tentata del reato, esso risulta estinto per intervenuta prescrizione in data successiva alla sentenza di primo grado. Non emergono i presupposti per un proscioglimento nel merito delle imputate, atteso che dalle sentenze di merito risulta chiaramente il tentativo di indebita induzione, posto in essere da Sa.Si.con il contributo di Ca.Fr., nei confronti di Sc.Al., affinchè questi assumesse, peraltro con compenso "fuori mercato", il nipote dell'ex prefetto. Ai sensi dell'art. 578 cod. proc. pen. debbono essere confermate le statuizioni civili. 16. Altra questione che è stata oggetto di censure nei ricorsi concerne la condanna per i "falsi fidefacienti". In particolare, in primo grado il Tribunale in relazione alle falsità contestate aveva escluso la sussistenza della circostanza aggravante di cui al secondo comma dell'art. 476 cod. pen. Decisione che è stata ribaltata dalla sentenza impugnata che, su appello del pubblico ministero, ha invece affermato l'esistenza dell'aggravante. Gli imputati condannati all'esito del giudizio di gravame nei loro ricorsi hanno contestato la giuridica configurabilità della circostanza aggravante. 16.1. Al riguardo, rileva questa Corte che è pacifica la sussistenza dell'aggravante per i falsi operati da magistrati su provvedimenti giurisdizionali (si tratta dei fatti contestati a Sa.Si.nei capi 10 e 35 nonché di quelli sub capi 74, 75 e 76 - anche se per queste ultime due contestazioni, come si chiarirà in seguito, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio). Invero, tale principio, che il Collegio condivide, è stato affermato in riferimento al magistrato autore materiale dei falsi, coimputato di Sa.Si.nei reati di cui ai capi 73, 74 e 75 e giudicato separatamente. Al riguardo, si è infatti statuito che in tema di falso documentale l'apposizione su un provvedimento giurisdizionale, da parte del giudice estensore, della firma apocrifa del presidente del collegio, quand'anche quest'ultimo sia consenziente, integra la condotta aggravata prevista, per i documenti dotati di fede privilegiata, dall'art. 476, comma secondo, cod. pen., in quanto tale sottoscrizione è destinata, nei termini indicati dall'art. 2700 cod. civ., sia a documentare un fatto compiuto dal pubblico ufficiale, attestando lo svolgimento delle funzioni pubblicistiche di verifica che l'ordinamento assegna al presidente del collegio, sia a comprovare la provenienza del provvedimento dai pubblici ufficiali che hanno concorso alla sua formazione (così, Sez. 5, n. 10671 del 23/11/2021 - dep. 2022, Fa.Li., Rv. 282862). Principio analogo va affermato anche in riferimento alla falsità rappresentata dall'indicazione che il provvedimento proviene dall'organo collegiale laddove, invece, esso sia stato redatto e firmato solo dal presidente del collegio, in assenza di una preventiva camera di consiglio o, comunque, di una interlocuzione con gli altri magistrati che formano il collegio. 16.2. Diversa è, invece, la conclusione che si ritiene di dover adottare per quanto concerne i falsi ideologici contestati agli amministratori giudiziari e ai coadiutori (si tratta delle imputazioni di cui ai capi 14 e 22, a carico di Ca.Se. e Ca.Lo.; ai capi 42, 46, 50 e 53, nei confronti del Sa.Ro.). Sul punto, si è ritenuto che in tema di reato di falso ideologico in atto pubblico, affinchè sia configurabile la circostanza aggravante prevista dall'art. 476, comma 2, cod. pen., sono documenti dotati di fede privilegiata solo quelli emessi dal pubblico ufficiale investito di una speciale potestà documentatrice, attribuita da una legge o da norme regolamentari, anche interne, ovvero desumibili dal sistema, in forza della quale l'atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l'accoglimento della querela di falso o con sentenza penale (Sez. 6, n. 35219 del 28/04/2017, Re, Rv. 270855 - 01). In particolare, ciò che caratterizza l'atto pubblico fidefaciente è, oltre all'attestazione di fatti appartenenti all'attività del pubblico ufficiale o caduti sotto la sua percezione, la circostanza che esso sia destinato ab initio alla prova, ossia precostituito a garanzia della pubblica fede e redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell'esercizio di una speciale funzione certificatrice, diretta, cioè, per legge, alla prova di fatti che lo stesso funzionario redigente riferisce come visti, uditi o compiuti direttamente da lui (Sez. 6, n. 10414 del 12/12/1989, dep. 1990, Bettinelli, Rv. 184934; conf. Sez. 5, n. 2837 del 09/02/1983, Andronaco, Rv. 158265). Nella medesima linea ermeneutica, si è precisato che in tema di falso documentale, sono documenti dotati di fede privilegiata, ex art. 476, comma secondo, cod. pen., quelli emessi dal pubblico ufficiale investito di una speciale potestà documentatrice, attribuita da una legge o da norme regolamentari, anche interne, ovvero desumibili dal sistema, in forza della quale l'atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l'accoglimento della querela di falso o con sentenza penale (Sez. 5, n. 28047 del 11/04/2019, Magnelli, Rv. 277246). 16.3. Nel caso di specie detta "pubblica fede privilegiata" non è rinvenibile nelle attestazioni contenute negli atti e nelle richieste degli amministratori e coadiutori, trattandosi di atti endoprocedimentali funzionali all'adozione da parte del giudice delegato del provvedimento finale di liquidazione dei compensi, quest'ultimo certamente munito di pubblica fede fino a querela di falso. Seguendo tale impostazione, gli atti in questione - certamente pubblici, avendo questa Corte affermato il principio, applicabile anche al caso di specie, secondo cui i mandati di pagamento e le richieste di emissione di assegni di organi fallimentari sono atti pubblici in quanto estrinsecazione di potestà del curatore e del giudice delegato (Sez. 6, n. 7227 del 09/04/1992, Ecora, Rv. 190707) - non possano ritenersi anche "fidefacienti" fino a querela di falso (ad eccezione di quello adottato dalla Sa.Si., oggetto di contestazione al capo 48). Una volta esclusa - come correttamente aveva fatto il Tribunale - la circostanza aggravante, i reati di falso, il cui termine massimo di prescrizione è pari a sette anni e sei mesi, risultano estinti ai sensi dell'art. 157 cod. pen. Vanno confermate le statuizioni civili, atteso, da un lato, che per tali capi la prescrizione è maturata successivamente alla sentenza di primo grado e, dall'altro lato, che le conformi pronunce dei giudici di merito motivano in modo non illogico in ordine alla sussistenza dei fatti e alla loro rilevanza penale (prescindendo dall'aggravante) e che i ricorsi sollecitano una non consentita rivalutazione dei fatti da parte di questa Corte. 17. La sentenza impugnata ha inoltre riqualificato in peculato una serie di condotte appropriative che in primo grado erano state ritenute integrare la fattispecie di truffa. Si tratta dei fatti contestati: al capo 15, a carico di Ca.Se. e Ca.Lo.; al capo 23 - vicenda relativa alla gestione nell'ambito della "procedura Padovani" - in merito al quale la Corte di appello ha condannato Ca.Se. e Ca.Lo.; ai capi 37 e 41, relativi alle attività svolte da In.Ma. e Ma.Ca., nominate coadiutrici da Sa.Ro. nell'ambito delle procedure "Ingrassia" e "Vetrano" - nel cui ambito è stato falsamente dichiarato lo svolgimento da parte delle predette di attività mai effettuate - per i quali sono stati condannati oltre a Sa.Ro. anche In.Ma. e Ma.Ca. (mentre Sa.Si.e Pr.Ca. sono stati assolti in primo grado); al capo 45, ove si è contestato a Sa.Ro. e a Di.Ma., la violazione dell'art. 314 cod. pen. in merito al compenso di euro 2.000 oltre IVA e Cpa, liquidato al Di.Ma., per la sua attività di coadiutore consulente giuridico per i rapporti tra PA e mercato; attività ritenuta inesistente e falsamente attestata. 17.1. Con riferimento a queste contestazioni, rileva la Corte che - ferma rimanendo la sussistenza dei fatti, adeguatamente argomentata dalla sentenza impugnata che sul punto si salda con la motivazione del Tribunale -conformemente a quanto dedotto dai ricorrenti, non può ritenersi corretta la qualificazione giuridica delle condotte degli imputati (ad esclusione dell'addebito relativo al capo 16, avente ad oggetto le "fatture gestione del "Gruppo Bu.Gi.", per il quale sono stati condannati Ca.Se. e Ca.Lo. nonché Sa.Si., che era stata assolta in primo grado) ai sensi dell'art. 314 cod. pen. Ciò alla luce dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità in merito ai presupposti della fattispecie di peculato, con riferimento alla possibilità per gli imputati di "disporre" del denaro. Sul punto, va in primo luogo richiamato il principio, dettato di recente in riferimento al fenomeno del "peculato dei consiglieri regionali", secondo cui ai fini della configurabilità di tale delitto è necessario che il pubblico agente abbia disponibilità diretta del danaro, con piena capacità di prelievo dal fondo svincolata da controlli preventivi, ponendosi invece il meccanismo di anticipo della spesa, con successiva richiesta di rimborso, in antitesi con tale nozione, pur mediata, di disponibilità (cos', Sez. 6, n. 11341 del 17/11/2022 - dep. 2023, Buscemi, Rv. 284577 - 03, alla quale si sono richiamati diversi ricorrenti). In tale sentenza si è precisato che ai fini dell'art. 314 cod. pen. non è necessario che il pubblico ufficiale abbia la materiale detenzione o la diretta disponibilità del denaro, essendo sufficiente la disponibilità giuridica, ossia la possibilità di disporne, mediante un atto di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell'ufficio, e di conseguire quanto poi costituisca oggetto di appropriazione e che nella nozione di possesso qualificato dalla ragione dell'ufficio o del servizio è ricompreso non solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. 6, n. 19424 del 3/5/2022, Grasso, Rv. 283161). Pertanto, l'inversione del titolo del possesso e la conseguente appropriazione del denaro, rilevante ai fini della consumazione del delitto di peculato, può realizzarsi anche attraverso l'atto dispositivo di competenza del pubblico agente che consenta di conseguire materialmente il bene e ciò anche, con riferimento alle procedure complesse, allorché l'atto finale del procedimento è emesso da un organo che non concorre nel reato in quanto indotto in errore da coloro che si sono occupati della fase istruttoria, configurandosi, in tal caso, il delitto di peculato mediante induzione in errore ai sensi degli artt. 48 e 341 c.p. (Sez. 6, n. 30637 del 22/10/2020, De Luca, Rv. 279884; Sez. 6, n. 39039 del 15/04/2013, Malvaso, Rv. 257096). Peraltro, ai fini della configurabilità del delitto di peculato mediante indebito utilizzo di denaro è necessario che il rapporto tra il soggetto agente e il denaro sia connotato da una disponibilità, materiale o giuridica, ma, in ogni caso, diretta del bene. A tal fine, dunque, ciò che rileva è il conferimento - per legge, in virtù di specifica delega o anche di una prassi interna all'ufficio - di un autonomo potere di "firma" che consenta al pubblico agente di disporre liberamente e autonomamente del denaro nel rispetto del vincolo legale di destinazione dello stesso. Va, invece, esclusa la configurabilità della disponibilità del denaro qualora il pubblico agente sia privo di tale autonomo potere di spesa e possa accedere al contributo stanziato solo previa presentazione di un'istanza di rimborso, corredata da documentazione giustificativa e soggetta a forme più o meno incisive di controllo. L'interpretazione costituzionalmente orientata della fattispecie impone, infatti, di restringere l'area della disponibilità giuridica del denaro, necessaria precondizione ai fini della configurabilità del reato di peculato, alle sole ipotesi in cui il pubblico agente abbia, per ragioni di ufficio o di servizio, la disponibilità diretta del denaro e, dunque, la capacità giuridica, svincolata da controlli preventivi, di utilizzarlo "uti dominus". Sotto altro profilo si è poi rilevato che integra il reato di truffa ai danni dello Stato, aggravato dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, e non quello di peculato, la condotta del pubblico agente che, non avendo la disponibilità materiale o giuridica del denaro, ne ottenga l'indebita erogazione esclusivamente per effetto degli artifici o raggiri posti in essere ai danni del soggetto cui compete l'adozione dell'atto dispositivo (Sez. 6, n. 13559 del 11/07/2019 - dep. 2020, Guercio, Rv. 278888 - 01). 17.2. Nella specie, la falsità della documentazione a sostegno della richiesta di liquidazione era chiaramente funzionale a far sì che venissero adottati da parte della competente autorità giudiziaria i decreti di liquidazione, difettando invece in capo agli imputati la "disponibilità", ancorché soltanto giuridica, del denaro oggetto delle diverse contestazioni. La non configurabilità, nei casi in esame, della fattispecie di peculato a carico di soggetti nei confronti dei quali non può ravvisarsi il presupposto del possesso o della "disponibilità" (nel senso sopra chiarito) del denaro, esime la Corte da affrontare l'altro tema sollevato dai ricorrenti che, rispetto alle "riqualificazioni" (da art. 640 ad art. 314 cod. pen.), hanno dedotto il pregiudizio subito dagli imputati per avere la nuova configurazione giuridica delineato reato più grave, con aumento considerevole del termine di prescrizione, peraltro senza che nella specie fosse stata rispettata la "procedura (Omissis)". 17.3. Alla luce dei suindicati principi, tali fatti vanno dunque qualificati -così come contestato in taluni dei capi di imputazione originari - ai sensi dell'art. 640 con l'aggravante di cui all'art. 61 n. 9 cod. pen. in ragione dell'abuso delle funzioni connesse alla pubblica funzione di amministratore giudiziario e coadiutore: a ciò consegue la declaratoria di prescrizione. Anche in questo caso, emergendo dalla non illogica motivazione della sentenza impugnata la sussistenza dei fatti contestati e la responsabilità degli imputati - e rispetto alla quale i ricorrenti invocano una diversa ricostruzione dei fatti, non consentita in questa sede di legittimità - vanno confermate le statuizioni civili. 17.4. In riferimento a detta ultima statuizione, è necessario esaminare gli specifici motivi di ricorso presentati nell'interesse di Sa.Ro., In.Ma. e Ma.Ca. che, per le condanne loro riportate in relazione ai capi 37 e 41, hanno eccepito non solo una ricostruzione alternativa dei fatti, ma anche specifici profili di legittimità (ossia la violazione dell'art. 500 comma 4 cod. proc. pen.). Risulta che nel dibattimento di primo grado il Tribunale ha disposto, ai sensi di detta previsione, l'acquisizione delle dichiarazioni rese nelle indagini dal teste Ro.Pa. dinanzi al Pubblico ministero; e ciò poiché, da intercettazioni eseguite in concomitanza delle udienze istruttorie, erano emersi "contatti" tra il teste e la di lui moglie con Pr.Ca. e In.Ma. - moglie di questi e anch'essa imputata - tali da dimostrare che le dichiarazioni rese dal teste Ro.Pa. all'udienza 20 giugno 2018, di contenuto difforme rispetto ai precedenti verbali delle indagini, erano frutto di questi "abboccamenti" e comunque risultavano "compiacenti con gli imputati". All'esito del giudizio di primo grado il Tribunale ha trasmesso gli atti della deposizione di Ro.Pa. all'ufficio del PM per procedere ex art. 372 cod. pen. I ricorrenti, reiterando l'eccezione già formulata in primo grado e poi ripetuta quale motivo di appello, deducono che nella specie le intercettazioni hanno avuto "natura preventiva" funzionali all'acquisizione della notitia criminis del reato di falsa testimonianza (e già per questo aspetto le dichiarazioni acquisite ex art. 500 cod. proc. pen. non sarebbero utilizzabili); comunque, Ro.Pa. avrebbe dovuto essere sentito in dibattimento non come testimone, ma come soggetto indagato di reato probatoriamente collegato, con tutte le conseguenze di legge, e con la inutilizzabilità delle dichiarazioni ex art. 63 comma 2 cod. proc. pen. 17.4.1. Manifestamente infondata, e quindi inammissibile, è la doglianza relativa alla natura "preventiva" delle intercettazioni. Invero, ai sensi dell'art. 430 cod. proc. pen., il pubblico ministero può, dopo l'instaurazione del giudizio e "ai fini delle proprie richieste al giudice del dibattimento", compiere attività integrativa di indagine. Le intercettazioni in oggetto, finalizzate a fornire elementi per l'attivazione del meccanismo acquisitivo delle precedenti dichiarazioni disciplinato dall'art. 500, comma 4, risultano dunque legittime, non rientrando tra gli atti probatori il cui compimento da parte del PM è interdetto dalla norma citata. 17.4.2. Venendo alla questione centrale sollevata dai ricorrenti, rileva il Collegio che questa Corte ha precisato che ai fini dell'acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni in precedenza rese dal teste, ai sensi dell'art. 500, comma 4, cod. proc. pen., gli "elementi concreti", sulla base dei quali può ritenersi che egli sia stato sottoposto ad intimidazione affinché non deponga ovvero deponga il falso, non devono necessariamente consistere in fatti che positivamente dimostrino - con un livello di certezza necessario per una pronuncia di condanna - l'esistenza di specifici atti di violenza o minaccia indirizzati verso il medesimo, potendo, invece, essere desunti da circostanze sintomatiche dell'intimidazione, emerse anche nello stesso dibattimento, secondo parametri correnti di ragionevolezza e persuasività, alla luce di una valutazione complessiva delle emergenze processuali (così, Sez. 2, n. 29393 del 22/04/2021, Pg c. Antoniello, Rv. 281808 - 01). Ma si è anche precisato che le dichiarazioni predibattimentali del teste, che ritratti in ragione della "sudditanza psicologica" nei confronti dell'imputato, non sono acquisibili al fascicolo del dibattimento, perché la previsione dei casi in cui l'acquisizione è ammessa - per violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o altra utilità come strumenti di inquinamento probatorio della testimonianza - è tassativa (Sez. 2, n. 15907 del 08/03/2022, Grimaldi, Rv. 283098 - 01). 17.4.3. La Corte di appello nel rigettare il motivo di gravame (pag. 947 s.) dà conto che "il plauso della moglie nei confronti del teste, il compiacimento di quest'ultimo per il proprio esame, la speranza che la deposizione sortisse effetti favorevoli per gli imputati, la circostanza che una praticante di uno studio legale avesse chiesto alla moglie, durante una pausa della deposizione, di mandargli un sms per rassicurarlo, la visita che Pr.Ca. e la moglie avevano fatto per ringraziare il teste, il riferimento a una perfetta e riuscita "organizzazione" della deposizione, sono tutti elementi che paventano il timore che il teste potesse essere stato sottoposto ad offerta o promessa di denaro o di altra utilità, circostanze desumibili, sia pure a livello indiziario, dalle circostanze esposte, non riducibili, invece, a differenza di quanto affermato dal difensore, a mere aspirazioni interne al Ro.Pa.". Detta motivazione non risulta adeguata. Il ragionamento "presuntivo" della Corte di appello potrebbe risultare non illogico se si avesse a che fare con una organizzazione criminale dotata di intrinseca forza intimidatrice o se fosse emerso un qualche elemento dal quale inferire, quantomeno, una promessa di utilità in favore del teste a fronte dell'aggiustamento" della deposizione, il che non viene evidenziato. 17.4.4. Peraltro, la Corte di appello subito dopo tale, non condivisibile, argomentazione precisa che "la solida piattaforma probatoria valorizzata dai giudici di prime cure consta di altre concordanti fonti orali" e sul punto i ricorrenti non hanno assolto all'onere di dimostrare che l'eliminazione dalla piattaforma probatoria delle dichiarazioni rese nelle indagini dal Ro.Pa. avrebbe avuto per loro effetto liberatorio. 17.4.5. Così come inammissibili risultano le doglianze relative alla circostanza che la teste La.Gr. doveva essere sentita come indagata di reato probatoriamente collegato, non avendo i ricorrenti fornito idonei elementi a supporto di detta indicazione. Pertanto, anche in relazione a detti capi, vanno confermate le statuizioni civili. 18. Invece, come anticipato, corretta risulta la qualificazione come peculato dei fatti di cui al capo 16, relativo alle fatture della gestione del "Gruppo Bu.Gi.". Per tali episodi sono stati condannati, sin dal primo grado, Ca.Se. e Ca.Lo., nonché in appello Sa.Si. 18.1. In particolare, l'appropriazione delle somme oggetto delle fatture viene contestata a Ca.Se., quale pubblico ufficiale che, in ragione del proprio ufficio - amministratore giudiziario nell'ambito della procedura di prevenzione - avendo la disponibilità del denaro delle società in sequestro, liquidava somme relative ad attività non svolte; a Ca.Lo., anch'egli pubblico ufficiale quale coadiutore nominato nella medesima procedura che, d'intesa con il primo, attestava falsamente di avere svolto attività in realtà mai effettuata percependo per tale ragione somme, relative a quattro fatture, per complessivi 8.140 euro che venivano accreditate su conto corrente cointestato con la moglie; a Sa.Si., quale "concorrente estranea". La Corte di appello, richiamando sul punto la conforme valutazione dei primi giudici, ha, con motivazione non illogica e quindi insindacabile in questa sede, ritenuto che le fatture si riferiscono ad attività (valutazione dei mezzi d'opera e del canone di locazione dei mezzi e delle relative attrezzature) in realtà già ricomprese nell'incarico di coadiuzione ricevuto, relativo alle "problematiche tecniche connesse alla manutenzione e movimentazione degli impianti, mezzi ed attrezzature di cava" - e dunque liquidate a tale titolo con la somma iniziale di 2.000 Euro al mese, poi aumentati a 3.000 Euro - di tal che gli ulteriori pagamenti integrano illecita "duplicazione" (e quindi rappresentano compensi non dovuti). A ciò si aggiunga che in relazione a tali attività, contestate come ulteriori rispetto all'oggetto dell'incarico, "mai il Ca.Se. ha chiesto al giudice delegato di essere autorizzato ad estendere l'incarico al Ca.Lo. (cui in ogni caso conseguiva un onere economico a carico delle aziende) ad ipotetiche attività diverse e ulteriori rispetto a quelle ricomprese nell'originaria autorizzazione" (pag. 801). 18.2. Anche l'argomentazione della sentenza impugnata circa la configurabilità dell'art. 314 cod. pen. risulta corretta. Invero, da un lato, ai fini dell'integrazione del delitto di peculato, il pubblico ufficiale, ovvero l'incaricato di pubblico servizio, deve appropriarsi del denaro o della cosa mobile di cui dispone per una ragione legata all'esercizio di poteri o doveri funzionali, in un contesto che consenta al soggetto di tenere nei confronti della cosa quei comportamenti uti dominus in cui consiste l'appropriazione (così, Sez. 6, n. 46374 del 25/10/2023, Falcicchia, Rv. 285476 - 01). Situazione, questa, indubbiamente sussistente atteso che Capellano Seminara, nella suindicata qualità e consapevole dell'illiceità della fatturazione, ha direttamente effettuato il pagamento delle quattro fatture a favore di Ca.Lo., mediante un assegno tratto sul conto corrente della ditta "Bu.Gi." e tre bonifici disposti, rispettivamente, dai conti correnti di "Ca.Gi.", "Bu.Gi." e "Ca.Co.", società da lui amministrate nella procedura di prevenzione. Trattandosi di liquidazione per attività giudicate inesistenti disposta a favore di Ca.Lo. non si tratta di "distrazione", ma in quanto implicante un atto di disposizione uti dominus del pubblico danaro è riconducibile alla nozione di appropriazione, presupposto della configurabilità del peculato (Sez. 6, n. 8818 del 13/11/2019 - dep. 2020, Marandola, Rv. 278711 - 01). Dall'altro lato, come rilevato dalla Corte territoriale, detta fattispecie non presuppone che il denaro del quale il pubblico ufficiale si appropri sia della pubblica amministrazione o di un ente pubblico. Invero, è Taltruità della cosa" oggetto di appropriazione a costituire l'elemento costitutivo del reato di peculato, posto che l'art. 314 cod. pen., nel descrivere la fattispecie, richiede il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui quale presupposto indispensabile della condotta rilevante (v. Sez. 6, n. 16400 del 01/03/2018, Pagan, Rv. 272716 - 01). Sussistono, dunque, gli elementi costitutivi del delitto di peculato, ascritto sin dal primo grado a Ca.Se. e a Ca.Lo. 18.3. La sentenza impugnata ha, su appello del pubblico ministero, riformato l'assoluzione della Sa.Si.da detta imputazione disposta in primo grado, affermandone la penale responsabilità, a titolo di concorso morale, con motivazione che, anche in questo caso, appare idonea a giustificare l'overturnig. Invero, la Corte di appello (pag. 802) ha dato atto che dalle intercettazioni delle conversazioni risulta che la predetta "seguisse e interloquisse direttamente con Ca.Se. riguardo ai tempi e alle consistenze delle liquidazioni aventi ad oggetto le competenze del marito ... e che dette interlocuzioni, specificamente, ricomprendessero anche quelle inerenti l'amministrazione giudiziaria in questione", evidenziando altresì che le somme in oggetto sono confluite su un conto corrente intestato anche alla Sa.Si.e che l'interesse che muoveva il Ca.Se. era quello di "procurare a Ca.Lo. il relativo giusto profitto solo nella prospettiva del progressivo consolidamento del rapporto con la Sa.Si.connotato dallo scambio reciproco di utilità". 18.4. Peraltro, gli episodi relativi alle fatture del 9 marzo e del 3 dicembre 2010 risultano estinti per decorso del termine massimo di prescrizione (termine invece non maturato per le due fatture contestate al 22 novembre 2012). Per essi, dunque, gli imputati vanno prosciolti, con conferma delle statuizioni civili. 19. La sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per intervenuta prescrizione anche in relazione al reato di abuso di ufficio, contestato al capo 13-ter a Ca.Se. e relativo alla vicenda dell'utilizzo, nell'ambito dell'amministrazione della procedura di prevenzione "(Omissis)", della società Legai Gest Consulting riconducibile al predetto; fatto, questo, per il quale l'imputato aveva riportato condanna in primo grado. Il ricorrente - che in via principale invoca l'assoluzione nel merito -evidenzia che comunque il reato, commesso in data 23 aprile 2012, era già prescritto nel giudizio di appello e che di ciò la sentenza della Corte territoriale ha dato atto (pag. 742); tuttavia nella determinazione del trattamento sanzionatorio (pag. 1184 ss.) non è stato tenuto conto di detta estinzione, che non è stata neppure dichiarata nel dispositivo (pag. 1207 ss.). 19.1. L'affermazione dei giudici di merito circa la configurabilità nella specie dell'abuso di ufficio non è censurabile in questa sede, atteso che la condotta di Ca.Se., che ha ottenuto l'autorizzazione a utilizzare, nell'ambito della procedura di prevenzione "Maranzano" di cui era amministratore giudiziario, la società Legai Gest, quale servizio di segreteria, per il compenso di 400 Euro mensili - società della quale possedeva il 99% delle quote - integra palese violazione del dovere di astensione (fattispecie che, dopo la riforma del 2020, continua ad essere penalmente rilevante anche in assenza di violazione di norme di legge che non lascino margine di discrezionalità: da ultimo, Sez. 6, n. 33030 del 24/05/2023, D'Ambrosio, Rv. 285091 - 01, in motivazione). In merito all'ingiusto vantaggio patrimoniale, contestato dall'appellante, la Corte di appello rileva, non implausibilmente, che esso sussiste, ancorché Ca.Se. abbia poi rinunciato a tale compenso. E ciò in quanto in relazione a detto servizio la Legai Gest (e cioè Ca.Se.) ha emesso a carico del Ca.Se. medesimo due fatture per l'importo complessivo di oltre 201.000 Euro che, giustamente, la sentenza impugnata indica come "del tutto sovrabbondante rispetto all'ammontare dei costi, così come determinati originariamente nella richiesta di autorizzazione a servirsi della società". Fatture enormemente "gonfiate" (al costo di 400 Euro al mese, si tratterebbe di attività svolta per oltre quarant'anni) che poi Ca.Se. poteva portare in detrazione dall'ammontare delle imposte con evidenti illeciti risparmi. 19.2. Fondato è, invece, il motivo relativo all'intervenuta prescrizione del reato. Invero, come detto, in primo grado per il capo 13-ter l'imputato era stato condannato e la pena a titolo di continuazione per detto reato è stata determinata in un mese di reclusione (v. sentenza del Tribunale, pag. 1266). La sentenza di appello, pur dando conto nella parte motiva dell'intervenuta prescrizione di tale reato (commesso nell'aprile 2012), non ha adottato la relativa statuizione nel dispositivo, di tal che a ciò si deve provvedere in questa sede. 20. Infondati sono i motivi con i quali la ricorrente Sa.Si. invoca l'assoluzione in relazione alla condanna riportata, in primo e secondo grado, per tre episodi di rivelazione di segreti di ufficio (capi 62-63-64). I fatti hanno ad oggetto la comunicazione a Na.Ro., al professor Co.Vi. e a Ca.Se., di notizie relative all'esistenza di indagini condotte dalla Procura di Caltanissetta concernenti la procedura "(Omissis)". La sentenza impugnata chiarisce che tali notizie vennero a conoscenza della Sa.Si.a seguito di propalazione delle stesse da parte del magistrato Fa.Li. in servizio presso la Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che le aveva a propria volta apprese dal collega Da.Sc., Pubblico Ministero della DDA di Palermo, che ne aveva avuto cognizione nel corso di una riunione tenutasi a Milano alla quale era intervenuto (sentenza impugnata, pag. 1041/1050). 20.1. Sa.Si.- che non contesta la materialità dei fatti - ha dedotto l'illogicità della motivazione della sentenza di appello atteso che: a) il dottor Fa.Li. è stato assolto in via definitiva (da altra sezione della Corte di appello di Caltanissetta) in quanto la sua propalazione è avvenuta "non in veste di pubblico ufficiale ma di indagato in un procedimento penale e in ottica difensiva"; b) la posizione del dottor Da.Sc. è stata archiviata dal Gip di Milano per "mancanza di specificità e concretezza" di quanto aveva riferito a Fa.Li.; c) la sentenza impugnata non ha neppure conto del principio affermato da Sez. 3, n. 35296 del 20/04/2011, Cozzolino, Rv. 250853 - 01, secondo cui al reato di rivelazione di segreti dì ufficio è applicabile la causa di giustificazione dell'esercizio di un diritto, allorché la rivelazione sia fatta per difendersi in giudizio, essendo il diritto di difesa prevalente rispetto alle esigenze di segretezza e buon funzionamento della pubblica amministrazione; principio, rileva la ricorrente, applicabile nella specie in quanto ella "aveva assunto la qualità di persona indagata". Anche il Procuratore generale all'udienza di discussione ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata relativamente a dette imputazioni perché il fatto non sussiste. 20.2. Detta conclusione non può essere accolta. Rileva il Collegio che, in primo luogo, la ricorrente non ha corroborato la dedotta assunzione - al momento dei fatti - della qualità di indagata con alcun elemento concreto. Inoltre, per quanto emerge dalla sentenza impugnata, l'imputata non ha utilizzato le notizie apprese - relative all'avvio di indagini penali e perciò indubbiamente segrete - per difendere la propria posizione ma le ha riferite a soggetti (Ca.Se., Na.Ro. e il professor Co.Vi.) estranei a qualsivoglia "strategia difensiva". Va perciò confermata la configurabilità della fattispecie contestata. Peraltro, tali fatti, risalendo al giugno 2015, risultano estinti per intervenuta prescrizione. Anche per tale reato debbono essere confermate le statuizioni civili. 21. Ugualmente infondato è il motivo di ricorso dedotto nell'interesse dell'imputata Sa.Si. relativamente al capo 68. In particolare, alla predetta è stata contestata la violazione dell'art. 378 cod. pen. in favore di Mo.Sa. e Ce.An., rispettivamente fratello e figlio di Mo.Sa. Doretea, amica di Sa.Si.e cancelliera presso il Tribunale di Palermo. La condotta di favoreggiamento si sarebbe espFa.Li. inducendo Mo.Sa. e Ce.An. a dimettersi volontariamente dagli incarichi ricoperti nell'ambito della procedura di prevenzione "(Omissis)", nella gestione della quale erano stati accertati ammanchi di somme che potevano essere riferibili ai predetti. 21.1. La Corte di appello ha riqualificato il fatto ai sensi degli artt. 361 e 61 n. 9 cod. pen., ritenendo che, pur non essendo configurabile la fattispecie di favoreggiamento personale, nondimeno sussistevano gli estremi del meno grave reato di omessa denuncia, aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale. Tale conclusione è conforme all'orientamento di questa Sezione, secondo cui non integra il delitto di favoreggiamento personale la mera omissione dì denuncia di reato, ancorché obbligatoria (Sez. 6, n. 15923 del 05/03/2013, Di Mauro, Rv. 254707 - 01). Nel caso di specie, la Corte territoriale ha, con motivazione non illogica e dunque non sindacabile in questa sede, ritenuto che sulla Sa.Si. incombesse il dovere di presentare denuncia circa gli ammanchi verificatisi nell'ambito della amministrazione della procedura di prevenzione "(Omissis)" (in particolare dalla cassa di una rivendita di tabacchi facente parte del compendio dei beni in sequestro). Ammanchi aventi ad oggetto la rilevante somma di 26.000 Euro a lei rappresentati dall'Amministratore giudiziario An.Ga.. L'imputata non dava alcun corso a tale informativa, limitandosi a chiedere all'amministratore "ulteriori approfondimenti", attivandosi invece affinchè i suindicati soggetti (che sulla base dell'informativa potevano essere gli autori degli indebiti prelievi) si dimettessero spontaneamente, al fine di "poterli ricollocare in altra procedura di prevenzione". Sussiste dunque la fattispecie, come riqualificata in appello, atteso che integra il delitto di omessa denuncia di reato di cui all'art. 361 cod. pen., la condotta del pubblico ufficiale che ometta, ovvero ritardi, la denuncia di un reato perseguibile d'ufficio, quando è in grado di individuarne gli elementi ed acquisire ogni altro dato utile per la formazione della denuncia stessa (Sez. 6, n. 49833 del 03/07/2018, Pesci, Rv. 274310 -01). 21.2. Peraltro, il fatto è contestato come commesso fino all'agosto del 2015 e, trattandosi di reato istantaneo (v. Sez. 6, n. 8746 del 16/06/2000, Izzi, Rv. 220750 - 01), esso è prescritto. 22. Fondati risultano, invece, i motivi di ricorso proposti nell'interesse di Sa.Si.e Vi.Wa.in relazione alla condanna riportata per i capi 5 e 6 nei quali è stata a loro ascritta la fattispecie di induzione indebita. 22.1. Si tratta della vicenda relativa all'avvocatessa Ma.Pa., fidanzata di uno dei figli della Sa.Si. (Fr. Ca.Lo.). Le sentenze di merito hanno confermato l'ipotesi accusatoria contestata ai due imputati. In particolare, si è ritenuto che, in relazione alle procedure di prevenzione "(Omissis)" e "(Omissis)" , nelle quali l'avvocato Vi.Wa.era stato nominato dalla presidente Sa.Si.amministratore giudiziario, la predetta imputata abbia indotto indebitamente quest'ultimo a far sì che Ma.Pa. venisse coinvolta, dietro retribuzione, nelle attività dello studio legale, con la possibilità di usufruire delle strutture materiali e personali e senza dover pagare alcunché. A ciò, secondo l'impostazione recepita dalla sentenza impugnata, Vi.Wa. si prestava al fine di perseguire la prospettiva utilitaristica di potere ottenere da Sa.Si. ulteriori incarichi nell'ambito delle procedure di prevenzione presso il Tribunale di Palermo. 22.2. Ritiene la Corte che, sulla base dei fatti accertati nelle sentenze di merito, non risulti configurabile il delitto di cui all'art. 319-quater cod. pen. Secondo la sentenza impugnata Vi.Wa. si era deciso ad "accollarsi" la Ma.Pa. - a quanto pare generosamente retribuita per svolgere attività professionale di poco significato e che utilizzava le strutture materiali e il personale di segreteria dello studio - confidando nell' "indotto" derivante da possibili futuri incarichi nelle amministrazioni giudiziarie che dipendevano dalla Sa.Si.("meccanismo", qualificato dai giudici come "do ut des" e che, come si è visto in riferimento alle due corruzioni per le quali si è confermata la condanna, evidentemente era dall'imputata assai utilizzato). Così come significative sono le circostanze, anch'esse evidenziate dalla Corte territoriale, relative al riferimento da parte del Vi.Wa. al "pizzo" che aveva "dovuto pagare alla Sa.Si." (ossia consentire alla collaborazione professionale della Ma.Pa.) nonché alla accesa reazione da parte della stessa Sa.Si. alla "cacciata" dallo studio della fidanzata del figlio (allontanamento intervenuto quando le notizie circa i rapporti "opachi" della presidente Sa.Si.con Ca.Se. erano ampiamente diffuse e, secondo quanto indica la Corte di appello, consigliato al Vi.Wa. dal di lui padre, magistrato e all'epoca Consigliere del C.S.M.). Inoltre, Sa.Si.- oltre a far chiaramente capire in alcune conversazioni con Na.Ro. che Vi.Wa., da lei beneficiato, si era dimostrato un ingrato - in una conversazione dice chiaro e tondo allo stesso Vi.Wa. che con lui non "ci saranno altre collaborazioni". 22.3. Tutto ciò premesso, non è stata però dai giudici di merito individuata una specifica condotta "induttiva" che possa avere, anni prima, determinato, contro la volontà di Vi.Wa., l'avvio della collaborazione professionale con la Ma.Pa. Inoltre, deve escludersi che la mera "aspettativa" di poter in futuro ottenere eventuali ulteriori incarichi (da cui la frase, intercettata, di Vi.Wa., secondo cui il rapporto con Ma.Pa. era "meramente utilitaristico") - secondo l'ipotesi accusatoria diversi da quelli per i quali Vi.Wa. già era stato nominato amministratore giudiziario - possa rilevare quale "indebito vantaggio" per il privato presupposto della fattispecie contestata (ex multis, Sez. 6, n. 44596 del 13/03/2019, Guidone, Rv. 277378 - 01). Va altresì rilevato che la sentenza impugnata dà atto che nel corso di una conversazione intercettata Vi.Wa., parlando con alcuni colleghi di studio e riferendosi a Ma.Pa., dice testualmente che "(Omissis) non ci mai chiesto di mettersela in studio siamo stati noi ... " (espressione appunto interpretabile come relativa a una iniziativa autonoma di Vi.Wa., senza previ "input induttivi", finalizzata a compiacere la potente "parente" della collega Ma.Pa., con l'aspettativa di ottenere dalla presidente Sa.Si.ulteriori futuri incarichi). Sotto altro profilo, è stato precisato che in tema di induzione indebita, il reato è integrato qualora il privato indotto formuli un'effettiva promessa al soggetto pubblico inducente, perfezionando un reale accordo tra loro, dal momento che la consumazione del reato di induzione indebita è configurabile solo qualora l'indotto abbia formulato un'effettiva promessa al soggetto pubblico inducente, con conseguente perfezionamento di un reale accordo tra l'agente pubblico autore della induzione alla prestazione indebita e il privato determinatosi alla promessa per conseguire un vantaggio ingiusto (Sez. 6, ord. n. 37509 del 25/06/2021, Costantino, Rv. 282178 - 01; Sez. 6, n. 14856 del 15/3/2021, Scapellato, n.m.). Presupposti, questi, non rinvenibili nel caso in esame. Per detta imputazione, la sentenza impugnata va dunque annullata senza rinvio perché il fatto contestato a Sa.Si.e Vi.Wa. non sussiste. 23. Parzialmente fondati sono i motivi di ricorso proposti nell'interesse dell'imputata Sa.Si. relativamente alla condanna pronunciata per i reati di cui ai capi 74, 75 e 76. Con essi - come già si è visto - si è contestata la violazione degli artt. 110,81 e 476, comma 2, cod. pen., in relazione alle firme, apparentemente della presidente Sa.Si., ma in realtà false e apposte dal collega Fa.Li. su tre provvedimenti in procedure di prevenzione. Si tratta, in particolare, del provvedimento di liquidazione nella procedura Italgas del 25 maggio 2015, depositato il giorno successivo: capo 74; del decreto di sequestro nella procedura "Rappa" del 24 marzo 2015, depositato il 25 marzo: capo 75; del decreto definitorio della procedura "Evola" del 19 marzo 2015, depositato il successivo 20 luglio: capo 76. 23.1. Per detti fatti Fa.Li., concorrente nel reato e autore materiale delle falsificazioni, è stato condannato con sentenza irrevocabile (Sez. 5, n. 10671 del 23/11/2021 - dep. 2022, Rv. 282862). Con tale pronuncia, che ha rigettato il ricorso dell'imputato avverso la condanna in appello, si è precisato che in tema di falso documentale, l'apposizione su un provvedimento giurisdizionale, da parte del giudice estensore, della firma apocrifa del presidente del collegio, quand'anche quest'ultimo sia consenziente, integra la condotta aggravata prevista, per i documenti dotati di fede privilegiata, dall'art. 476, comma secondo, cod. pen., in quanto tale sottoscrizione è destinata, nei termini indicati dall'art. 2700 cod. civ., sia a documentare un fatto compiuto dal pubblico ufficiale, attestando lo svolgimento delle funzioni pubblicistiche di verifica che l'ordinamento assegna al presidente del collegio, sia a comprovare la provenienza del provvedimento dai pubblici ufficiali che hanno concorso alla sua formazione. 23.2. La Corte territoriale, in riferimento al capo 74, ritenuta pacifica la falsità della firma, atteso il contenuto di consulenze grafologiche svolte nelle indagini che avevano escluso la riconducibilità delle firme in calce ai tre decreti alla presidente Sa.Si., circostanza confermata dal giudicato di condanna a carico del concorrente autore materiale dei falsi, ha fondato la condanna dell'imputata sulla base del contenuto di un'intercettazione di conversazione avvenuta il 25 maggio 2015 tra Sa.Si.(che si trovava a Milano) e Fa.Li. che invece era nel Tribunale di Palermo. Nel corso della stessa Fa.Li., premettendo di stare "facendo la liquidazione Italgas", chiedeva alla presidente se quel giorno lei fosse in servizio o in ferie e ricevuta la risposta "non, non sono in ferie", chiosava "va bene, quindi ci posso mettere il depositato di oggi", al che la Sa.Si. aggiungeva "sono fuggitiva, ma non in ferie". Riporta ancora la sentenza impugnata che i due avevano discusso brevemente di quel provvedimento di liquidazione e aggiunge che il pubblico ministero ha acquisito presso la cancelleria della Sezione Misure di prevenzione il decreto di liquidazione, che riportava la data del 25 maggio ed era stato depositato il giorno successivo, recante la firma - risultata appunto falsa e riconducibile a Fa.Li. - della presidente Sa.Si. Da tali elementi, con motivazione niente affatto illogica, la Corte territoriale ha ritenuto provato che nel corso della conversazione la Sa.Si. avesse dato il "via libera" al dottor Fa.Li. affinchè questi apponesse la sua firma falsa sul provvedimento di liquidazione. 23.3. Si tratta di condotta pienamente integrante la fattispecie concorsuale. Invero, per configurare il concorso morale è sufficiente che la condotta dell'istigatore incida sulla volizione dell'autore materiale, anche solo rinsaldando il proposito criminoso di quest'ultimo. Pertanto, dell'attività di falsificazione rispondono, a titolo di concorso, coloro che abbiano agito per il medesimo fine, sia intervenendo con qualsiasi contributo materiale a detta attività, sia istigando il pubblico ufficiale o rafforzandone il proposito criminoso (Sez. 5, n. 47052 del 6/05/2014, Acanfora, Rv. 261303 - 01). Né può ritenersi la condotta dell'imputata espressione di mera connivenza non punibile. Infatti, integra tale ipotesi una condotta meramente passiva, consistente nell'assistenza inerte, inidonea ad apportare un contributo causale alla realizzazione dell'illecito, di cui pur si conosca la sussistenza, mentre ricorre il concorso nel reato nel caso in cui si offra un consapevole apporto - morale o materiale - all'altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente (Sez. 3, n. 41055 del 22/09/2015, Rapushi, Rv. 265167 - 01). Nel caso di specie dal tenore della conversazione è evidente che l'imputata abbia "autorizzato" il collega Fa.Li. ad apporre la propria falsa firma in calce al provvedimento, con ciò cooperando in modo decisivo nella produzione del falso in atto pubblico. Pertanto, in riferimento alla imputazione sub capo 74 il ricorso va rigettato e, considerato che si tratta - come affermato anche dalla sentenza di questa Corte a carico del concorrente - di falso aggravato dalla "fidefacienza", il delitto in oggetto, commesso nel maggio del 2015, non risulta prescritto. Infatti, detta aggravante - che comporta una pena massima di dieci anni di reclusione - è a effetto speciale e perciò rileva ai sensi del secondo comma dell'art. 157 cod. pen. Dunque, considerati gli atti interruttivi, il termine massimo di prescrizione risulta pari a dodici anni e sei mesi, termine non ancora decorso. 23.4. Il ricorso della Sa.Si.è invece fondato in relazione alle altre due contestazioni di falso. Invero, a differenza dell'episodio prima descritto, per i capi 75 e 76 l'affermazione di penale responsabilità è motivata dalla sentenza impugnata - sempre sulla base dell'accertamento della falsità delle firme, non riconducibili alla Sa.Si. e in ordine alle quali Fa.Li. è stato condannato con sentenza irrevocabile - valorizzando la considerazione che tali fatti si sono consumati con modalità del tutto sovrapponibili al primo episodio. Pertanto, precisa la Corte territoriale, "se questi (Fa.Li.) ha falsificato la sigla "Il Presidente" sul primo documento, e le altre due sono state vergate dalla stessa mano, appare lapalissiana la conclusione che anche queste ultime siano attribuibili a Fa.Li. e che, nel quadro della prassi operativa sopra sviscerata, esse siano state tutte apposte previo beneplacito espresso della presidente, senza necessità neanche di ribadirlo o di richiederlo volta per volta"; rilevandosi, alla luce della conversazione intercettata, "la prova emergente l'esistenza tra i due della prassi operativa di ufficio ... di cui l'odierna imputata era la principale artefice e determinatrice, trattandosi di prassi instaurata nel suo interesse - dì non ostacolare con le sue frequenti assenze dall'ufficio il deposito di provvedimenti, anche urgenti, evitandole la relativa "seccatura" -non vedendosi, pur nella sua irrilevanza ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo dei reati di falso contestati, quale recondito fine potesse all'uopo mai soddisfare, invece, il compartecipe" (così, pag. 1165). 23.5. Tale motivazione non risulta idonea a giustificare l'affermazione di penale responsabilità dell'imputata in riferimento ai due ulteriori episodi di falso. Invero, i giudici di merito hanno dato per presupposto ciò che, invece, doveva essere dimostrato: il concorso, a titolo morale, dell'imputata nelle condotte falsificatorie che vanno ascritte materialmente a Fa.Li. (profilo, questo, sul quale si è formato il giudicato). A differenza del primo episodio, nel quale la conversazione intercettata dimostra plasticamente il coinvolgimento di Sa.Si., che si trovava a Milano e che ha dato "via libera" al collega in quel momento in sede per l'apposizione della sua falsa firma sul provvedimento di liquidazione, per le altre due contestazioni l'apporto concorsuale viene "presunto" in base ad una supposta "prassi di ufficio" e all'utilità derivante alla presidente dalla possibilità di formalizzare provvedimenti, anche urgenti, senza la "seccatura" di recarsi in ufficio per firmarli. Trattasi di "sospetti" (certamente non implausibili considerati la "disinvoltura" dell'imputata nella redazione dei provvedimenti di prevenzione e i vari episodi di falso in atti giudiziari accertati a suo carico; capi 10, 35 e, appunto, 74) che però, in assenza di elementi concreti che dimostrino la reale consapevolezza dell'imputata in merito ai provvedimenti oggetto della contestazione, non possono integrare prova idonea a dimostrarne la colpevolezza, "al di là di ogni ragionevole dubbio", come richiesto dall'art. 533 cod. proc. pen. Sotto altro profilo, va rilevato che, pur essendo giuridicamente configurabile il "concorso per omissione", ciò presuppone che il soggetto tenuto ad impedire l'evento (nella specie Sa.Si.) fosse consapevole, prima dell'esecuzione del falso, dell'intento da parte del concorrente di commettere il delitto, non rilevando, invece, la eventuale - e probabile nel caso di specie -conoscenza acquisita dopo che il reato era stato già commesso (sul punto, v. Sez. 6, n. 28301 del 08/04/2016, Dolce, Rv. 267829 - 01, ove si è precisato che in tanto può ascriversi una corresponsabilità in capo al responsabile del procedimento, in quanto sia ravvisabile un suo previo concerto con il soggetto tenuto alla prestazione, ovvero vi sia stata la sua consapevole e volontaria violazione di un obbligo di verifica e controllo che abbia propiziato la prestazione in frode). Si impone, dunque, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in riferimento a dette imputazioni, per non avere la Sa.Si. commesso i fatti contestati sub 75 e 76. 24. Infondati risultano invece i motivi di ricorso di Sa.Si., Pr.Ca. e Ca.Em. relativi alle intervenute condanne per i capi 54 e 55. Come già indicato, i Giudici di merito hanno ritenuto responsabili per il "falso in tesi di laurea" - sanzionato dall'art. 1, commi 1 e 2, l.n. 475 del 1925 - Ca.Lo., figlio della Sa.Si., nella qualità di fruitore e utilizzatore della falsa attribuzione del lavoro (capo 54), nonché Pr.Ca., quale vero autore della tesi in oggetto, e Sa.Si., a titolo di concorso come istigatrice o comunque rafforzatrice dell'intento criminoso (capo 55). Anche in questo caso, la motivazione della Corte di appello, conforme a quella di primo grado, non risulta affatto illogica, alla luce del contenuto delle comunicazioni intercettate dalle quali emerge, da un lato, che pochissimi giorni prima del termine della consegna dell'elaborato il lavoro era assai lontano dall'essere ultimato e, dall'altro lato, "l'attivismo" di Pr.Ca. per completare in tempo utile la tesi e le "pressioni" di Sa.Si. affinchè l'operazione andasse in porto. 24.1. Peraltro, i delitti risultano commessi nel luglio del 2015 e si sono quindi estinti per prescrizione nel gennaio 2023. Anche in questo caso, vanno confermate le relative statuizioni civili in favore dell'Università Kore. Infatti -come si è detto - la sussistenza del fatto e la responsabilità degli imputati risultano adeguatamente argomentati. Inoltre, come già precisato, esula dai poteri di questa Corte di legittimità operare una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Sez. U, n. 6402 del 2/07/1997, Dessimone, Rv. 207944), essendo precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020 - dep. 2021, F., Rv. 280601). 25. Infondati risultano i motivi di ricorso proposti dagli imputati in merito alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, agli aumenti operati a titolo di continuazione e, più in generale, alla dosimetria della pena. 25.1. Iniziando dalle circostanze generiche, la questione rileva solo in riferimento agli imputati Sa.Si., Ca.Lo., Ca.Se. e Pr.Ca., ai quali queste non sono state riconosciute dalla Corte di appello. Nei confronti dell'altra imputata, Ca.Fr., alla quale le "generiche" erano state ugualmente negate, il motivo risulta ovviamente assorbito, per l'intervenuta declaratoria da parte di questa Corte della prescrizione del reato ascritto, qualificato come tentata induzione indebita. Al riguardo, va rilevato che la motivazione della sentenza impugnata appare adeguata, in quanto il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche ai quattro imputati sopra indicati è stata giustificata in relazione al ruolo primario ricoperto dai predetti nella commissione dei numerosi e assai gravi reati a loro ascritti. Come questa Corte ha anche di recente ribadito deve ricordarsi che, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all'uopo sufficiente (ex plurimis, Sez. 3, n. 25585 del 10/02/2023, Guerrisi; Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549 - 02; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899). 25.2. Per quanto concerne gli aumenti a titolo di continuazione e le pene inflitte, va osservato che la Corte territoriale ha dato atto che gli aumenti ex art. 81, secondo comma, cod. pen. sono stati determinati in misura assai modesta, in riferimento peraltro a pene base fissate sostanzialmente sul minimo edittale. Per tali ragioni, non è evincibile alcun vizio motivazionale, considerato che una specifica motivazione che dia conto in modo analitico dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. è necessaria solo quando il giudice ritenga di discostarsi in modo significativo dai minimi edittali (ex multis, Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288 - 01) e che in tema di reato continuato, il giudice di merito, nel calcolare l'incremento sanzionatorio in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, non è tenuto a rendere una motivazione specifica e dettagliata qualora individui aumenti di esigua entità, essendo in tal caso escluso in radice ogni abuso del potere discrezionale conferito dall'art. 132 cod. pen. (Sez. 6, n. 44428 del 05/10/2022, Spampinato, Rv. 284005 - 01). 26. Infondati risultano i motivi di ricorso proposti dagli imputati in relazione alle decisioni civili. Essi, in ragione delle statuizioni adottate da questa Corte, rilevano allo stato per Sa.Si., Ca.Se., Ca.Lo., Pr.Ca. e Sa.Ro. Infatti, come già evidenziato, per i reati dei quali si è dichiarata l'intervenuta prescrizione vanno confermate le statuizioni civili atteso che dalla motivazione della sentenza impugnata emerge la sussistenza dei fatti di reato e la loro ascrivibilità agli imputati, mentre per i reati per i quali è intervenuto annullamento con rinvio (capi 58 e 59, nei confronti di Sa.Si.e Na.Ro.) i motivi dei ricorsi relativi alle questioni civili sono ovviamente assorbiti. 26.1. Residuano i motivi nei quali si è dedotta l'erronea quantificazione del danno in favore delle parti civili. In particolare, Ca.Se. ha eccepito vizio di motivazione in ordine alla mancata risposta ai motivi di appello nei quali si indicava che le parti civili - Amministrazioni e Enti pubblici - non avevano fornito adeguata dimostrazione di avere subito un danno effettivo e che la liquidazione operata in via equitativa (a carico del ricorrente determinata in Euro 400.000) non è corredata da plausibile argomentazione in merito alla cifra. Analogamente, Pr.Ca. ha censurato la statuizione dei giudici di merito circa la liquidazione in via equitativa del danno di immagine subito dallo Stato, in persona della Presidenza del Consiglio dei Ministri (nella misura di Euro 250.000), sostenendo che essa è scollegata rispetto alla condotta del ricorrente e non tiene conto che le parti civili non hanno fornito nessun elemento idoneo a individuare parametri alla cui stregua poter individuare il danno concretamente subito, accogliendo la pronuncia impugnata la tesi del "danno-evento" ormai superata dalla giurisprudenza di legittimità che ha recepito il ben diverso criterio del "danno-conseguenza". Detta liquidazione - si aggiunge -non risulta neppure conforme alla previsione di cui alla legge n. 190 del 2012, rilevandosi, infine, che per tale danno è comunque competente la Corte dei conti e non il giudice penale. Gli altri ricorrenti hanno eccepito l'erronea determinazione delle somme liquidate a titolo di danno non patrimoniale. 26.2. I motivi sono infondati. La sentenza impugnata (pag. 1192 ss.) ha ampiamente motivato, richiamando le argomentazioni del Tribunale, in ordine all'esistenza del danno, tanto patrimoniale, di cui è stata disposta la liquidazione in separato giudizio civile, che morale, liquidato direttamente in via equitativa a norma dell'art. 1226 cod. civ. Danno derivante dalle accertate condotte illecite dei diversi imputati - tra i quali i due sopra indicati ricorrenti hanno svolto un ruolo di primario rilievo - e che ai sensi degli artt. 185 cod. pen. e 2059 cod. civ. impone il risarcimento. Per quanto attiene alla liquidazione in via equitativa del danno non patrimoniale a favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri - compreso il "danno all'immagine", indiscutibile nel caso di specie - i giudici di merito lo hanno determinato alla luce dell'obiettiva elevata gravità della lesione arrecata da condotte poste in essere nell'esercizio di una funzione cruciale nell'attività di contrasto alla criminalità organizzata, ossia la corretta e proficua gestione dei beni sequestrati e confiscati alle associazioni dì stampo mafioso; condotte che nel caso di specie, rileva la Corte territoriale, hanno assunto "un'incredibile notorietà ... anche per la massiccia diffusione da parte dei mass media". Gestione che gli imputati, secondo quanto accertato dalle sentenze di merito, avevano asservito ai propri interessi utilitaristici in una visione "proprietaria" e "predatoria" di funzioni giurisdizionali e di amministrazione. Trattasi di statuizione non sindacabile in questa sede, atteso che in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, la valutazione del giudice, affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria (Sez. 5, n. 7993 del 09/12/2020 - dep. 2021, P., Rv. 280495 - 02). 26.3. Manifestamente infondato è poi il rilievo secondo cui nella specie avrebbe dovuto trovare applicazione la previsione, introdotta dalla l.n. 190 del 2012, secondo la quale "l'entità del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente". Invero, detta disposizione, inserita dall'art. 1, comma 62, della legge cit., concerne il - diverso - giudizio di responsabilità amministrativa devoluto alla Corte dei conti e regolato dalla legge n. 20 del 1994, nell'art. 1 della quale è stata appunto introdotta la norma citata. Infine, è pacifico che la giurisdizione penale contempla, in caso di esercizio dell'azione civile nel processo penale, anche i profili risarcitori per i danni -patrimoniali e morali - derivanti da reato. Ad essa può, se del caso, aggiungersi l'azione per responsabilità contabile di competenza della Corte dei conti. Sul punto è stato infatti chiarito che non sussiste violazione del principio del "ne bis in idem" tra il giudizio civile introdotto dalla pubblica amministrazione mediante l'esercizio dell'azione civile in sede penale e quello promosso dal procuratore contabile innanzi alla Corte dei conti per danno erariale, poiché il primo ha ad oggetto l'accertamento del danno derivante dal reato (nella specie, di truffa aggravata dal conseguimento di erogazioni pubbliche), con funzione riparatoria e integralmente compensativa a protezione dell'interesse particolare dell'amministrazione costituita, mentre il secondo l'accertamento dell'inosservanza dei doveri inerenti al rapporto di servizio, con funzione essenzialmente o prevalentemente sanzionatoria a tutela dell'interesse generale al buon andamento della pubblica amministrazione ed al corretto impiego delle risorse pubbliche (Sez. 5, n. 13382 del 03/11/2020 - dep. 2021, Verdini, Rv. 281031 - 07). 27. Fondati sono, invece, i motivi dei ricorsi in favore di Ca.Se. relativi alla disposta confisca per equivalente (settimo motivo del ricorso a firma dell'avvocato Vi.Ma.; undicesimo motivo del ricorso a firma dell'avvocato Va.Sp.). Invero, a fronte degli articolati motivi di gravame, attinenti al relativo capo della sentenza di prime cure, riportati dalla Corte di appello a pag. 1183, la sentenza impugnata ha confermato la confisca, ma non vi è alcuna motivazione in ordine alle ragioni per le quali sono stati respinti i motivi di appello sul punto (a pag. 1187 la Corte territoriale si occupa di confisca ma in relazione a profili diversi). Si impone, dunque, l'annullamento con rinvio di detto capo, affinchè la Corte territoriale esamini i motivi di appello pretermessi. 28. I ricorsi delle parti civili Vi.Vi., Vi.Ga. (nato il 01/12/1963), Vi.Sa., Vi.Do., Vi.Ca., Vi.Ga. (nato il 21/11/1981), Vi.Sa. e Vi.Si. sono inammissibili. Invero, la doglianza concerne la decisione della Corte di appello che ha rigettato l'appello proposto avverso il capo della sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno asseritamente subito dalle predette Parti civili nell'ambito della procedura di prevenzione "Vi.Wa." per effetto della nomina di Gi.Ri. Giuseppe quale amministratore giudiziario (fatti ascritti a Sa.Si. e Na.Ro. ai capi 58 e 59). Secondo i ricorrenti, la nomina del predetto avrebbe cagionato loro un danno di tal che viene invocato l'annullamento di detto capo della sentenza. L'inammissibilità del ricorso deriva dal disposto annullamento con rinvio dei capi 58 e 59. Difetta, pertanto, il titolo (ossia l'affermazione di penale responsabilità degli imputati) legittimante l'esame delle doglianze avanzate dalle Parti civili. 29. In conclusione, si impone l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione, nei confronti di Sa.Si., Ca.Se., Ca.Lo., Sa.Ro., Di.Ma., Ca.Fr., In.Ma., Ma.Ca., Pr.Ca. e Ca.Em. con riferimento: ai reati di falso contestati ai capi 14, 22, 38, 42, 46, 50, 53, esclusa la circostanza aggravante di cui al comma secondo dell'art. 476 cod. pen.; ai reati di peculato rispettivamente contestati ai capi 15, 23, 37, 41 e 45, previa riqualificazione degli stessi nel delitto di truffa aggravata; al reato di tentata concussione di cui al capo 66, previa riqualificazione nel delitto di induzione indebita tentata; ai reati di cui ai capi 13-ter, 54, 55, 62, 63, 64, 68 e 16, limitatamente per quest'ultimo capo ai fatti commessi in data 9.3.2010 e 3.12.2010. In relazione a detti reati debbono essere eliminate le riparazioni pecuniarie e vanno invece confermate le statuizioni civili. 29.1. La sentenza impugnata deve poi essere annullata senza rinvio nei confronti di Sa.Si. e Vi.Wa., con riferimento ai reati loro rispettivamente contestati ai capi 5 e 6 (induzione indebita: "vicenda Ma.Pa.") perché il fatto non sussiste e nei confronti di Sa.Si.in relazione ai reati di cui ai capi 75 e 76 (falso aggravato in atto pubblico) per non aver commesso il fatto. 29.2. Va, invece, disposto annullamento con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Caltanissetta nei confronti di Sa.Si.e Na.Ro. con riferimento al reato di cui ai capi 58 e 59 (corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio: "vicenda Gi.Ri."), nei confronti di Ca.Se. con riferimento alla disposta confisca - affinchè la Corte territoriale esamini le doglianze formulate in sede di appello sul punto - nonché per la complessiva rideterminazione della pena nei confronti del predetto Ca.Se., nonché di Ca.Lo., Sa.Ro., Pr.Ca. e Sa.Si. La rideterminazione della pena risulta necessaria in quanto nei confronti di Sa.Si., Ca.Se. e Ca.Lo. la Corte territoriale dovrà provvedere ad individuare la pena applicabile in relazione ai due episodi di peculato - non prescritti - sub capo 16, per i quali i tre imputati hanno riportato condanna (Sa.Si.in appello e gli altri due sin dal primo grado) con un unico aumento a titolo di continuazione commisurato in modo complessivo (cioè non distinguendo in ordine alle quattro condotte appropriative contestate in detta imputazione). In tale sede, la Corte di appello provvederà altresì ad eliminare dalla pena complessiva inflitta ai suindicati imputati, oltre che a Pr.Ca. e Sa.Ro., gli aumenti di pena relativi ai diversi reati satelliti per i quali è intervenuto, in questo grado di legittimità, annullamento senza rinvio per ragioni di merito (Sa.Si.: capi 5, 74 e 75) o per intervenuta prescrizione (Sa.Si.: capi 48, 55, 62, 63, 64 e 66; Ca.Se.: capi 14, 15, 22 e 23; Ca.Lo.: capi 14, 15, 22 e 23; Pr.Ca.: capi 53 e 55; Sa.Ro.: capi 37, 38, 41, 42, 45, 46 e 50). 30. Al rigetto dei motivi di ricorso dedotti dagli imputati seguono le relative statuizioni civili, come riportate in dispositivo. 31. Infine, ai sensi dell'art. 624, comma 2, cod. proc. pen. deve essere dichiarata l'irrevocabilità della sentenza impugnata relativamente all'affermazione di responsabilità di Sa.Si., Ca.Lo., Ca.Se., Pr.Ca. e Sa.Ro., in ordine ai diversi reati per i quali, a seguito del rigetto dei motivi di ricorso, sono state confermate le statuizioni di condanna a carico dei predetti. Al riguardo, è opportuno precisare che "l'annullamento con rinvio disposto dalla Corte di cassazione per motivi che non riguardano l'affermazione di responsabilità dell'imputato determina il passaggio in giudicato della sentenza sul punto e conseguentemente comporta che nel successivo giudizio di rinvio non decorrono ulteriormente i termini di prescrizione". (Sez. 5, n. 51098 del 19/09/2019, M., Rv. 278050 - 01). P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Sa.Si., Ca.Se., Ca.Lo., Sa.Ro., Di.Ma., Ca.Fr., In.Ma., Ma.Ca., Pr.Ca. e Ca.Em. con riferimento ai reati di falso rispettivamente contestati ai capi 14, 22, 38, 42, 46, 50, 53, esclusa l'aggravante di cui al comma secondo dell'art. 476 cod. pen., ai reati di peculato rispettivamente contestati ai capi 15, 23, 37, 41, 45, previa riqualificazione nel delitto di truffa aggravata, al reato di tentata concussione di cui al capo 66, previa riqualificazione nel delitto di induzione indebita tentata, nonché ai reati rispettivamente contestati ai capi 13-ter, 54, 55, 62, 63, 64, 68 e 16, limitatamente per quest'ultimo capo ai fatti commessi in data 9.3.2010 e 3.12.2010, perché estinti a seguito di intervenuta prescrizione, e per l'effetto elimina le riparazioni pecuniarie disposte in relazione ai capi sopra indicati, confermando le statuizioni civili; annulla altresì la medesima sentenza senza rinvio nei confronti di Sa.Si. e Vi.Wa., con riferimento ai reati loro rispettivamente contestati ai capi 5 e 6 perché il fatto non sussiste e nei confronti della stessa Sa.Si.in relazione ai reati di cui ai capi 75 e 76 per non aver commesso il fatto; annulla, inoltre, la sentenza impugnata nei confronti di Sa.Si. e Na.Ro. con riferimento al reato di cui ai capi 58 e 59 nonché con riferimento alla confisca disposta nei confronti di Ca.Se. e rinvia per nuovo giudizio su tali capì ad altra sezione della Corte di appello di Caltanissetta anche per la rideterminazione della pena nei confronti di Ca.Se., Ca.Lo., Sa.Ro., Pr.Ca. nonché per la stessa Sa.Si. Rigetta nel resto i ricorsi degli imputati e dichiara l'inammissibilità dei ricorsi delle parti civili ricorrenti Vi.Vi., Vi.Ga. (n. 1963), Vi.Ga. (n. 1981), Vi.Sa. (n. 1966), Vi.Do., Vi.Ca., Vi.Sa. (n. 1983) e Vi.Si. Condanna Sa.Si., Ca.Se., Ca.Lo., Pr.Ca., Sa.Ro., Ca.Fr., Di.Ma. e Ca.Em. al pagamento delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalle partì civili Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Giustizia, Agenzia Nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni confiscati, Amministrazione giudiziaria RGPM 7/2014 (Ingrassia), Amministrazione giudiziaria RGPM 104/2015 (Acanto), Amministrazione giudiziaria RGPM 147/2007 (Bu.Gi.), Amministrazione giudiziaria RGPM 256/2012 (Vetrano) che liquida in complessivi Euro 10.000,00, oltre accessori di legge; condanna Sa.Si., Pr.Ca., Sa.Ro., al pagamento delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile Elgas Srl che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge; condanna Sa.Si., Pr.Ca., Sa.Ro., al pagamento delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile Motoroil Srl che liquida in complessivi Euro 4.500,00, oltre accessori di legge; condanna Sa.Si., Pr.Ca. e Sa.Ro., al pagamento delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile Pe.An. che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge; condanna Sa.Si., Pr.Ca., Sa.Ro., al pagamento delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile Ra.Fr. Fr. che liquida in complessivi Euro 3.686,00, oltre accessori di legge; condanna Sa.Si., Pr.Ca., Ca.Em. al pagamento delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile Libera Università degli Studi di Enna Kore, che liquida in complessivi Euro 3.686,00, oltre accessori di legge. Revoca le statuizioni civili disposte con riferimento ai reati di cui ai capi 5, 6, 75 e 76 in favore delle parti civili. Visto l'art. 624, comma 2, cod. proc. pen., dichiara l'irrevocabilità della sentenza in ordine alla responsabilità di Sa.Si., Ca.Lo., Ca.Se., Pr.Ca., Sa.Ro., per i reati per i quali è stata confermata la condanna. Cosi deciso il 19 ottobre 2023 Depositato in Cancelleria il 16 Aprile 2024.
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