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Furto tentato si configura nel caso in cui la polizia monitori l'azione del reo e decide di non interrompere l'attività criminosa in corso

Furto

Cassazione penale , sez. V , 25/11/2021 , n. 4868

In tema di furto, qualora la polizia giudiziaria monitori continuativamente l'azione e gli spostamenti del “reo” (nella specie, attraverso sistemi di localizzazione satellitare e servizi di osservazione protrattisi per giorni) e decida di non interrompere l'attività criminosa in corso di esecuzione, manifestatasi già alla fase del tentativo, scegliendo deliberatamente di attendere la sua evoluzione nella forma consumata per ritenute esigenze investigative, sussiste la fattispecie tentata del reato, in quanto la preordinazione di plurime modalità di accertamento del reato, in una fase d'indagine già attivata e preordinata funzionalmente a tale verifica, consente alla polizia giudiziaria di pianificare gli interventi necessari per scongiurare, in forza dell'obbligo derivante dall' art. 55 c.p.p. , la commissione di reati e/o la protrazione delle loro conseguenze ulteriori. (In motivazione la Corte ha precisato che è configurabile, invece, la fattispecie consumata quando l'intervento delle forze dell'ordine è del tutto casuale, estemporaneo o sopravvenuto, tale da non poter impedire l'impossessamento della “res”).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1.Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Genova confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Genova in composizione monocratica in data 04/06/2020 - con cui B.U., Ba.Da., J.M., C.M. erano stati condannati a pena di giustizia per i delitti di furto aggravato, di cui agli artt. 110 e 624-bis c.p. e art. 625 c.p., n. 2 e 5, in (OMISSIS) (capo a) e di ricettazione, di cui all'art. 648 c.p., in (OMISSIS), ed in (OMISSIS) (capi b e c). 2. B.U. ricorre in data 14/01/2021, a mezzo dei difensori di fiducia avv.to G.i, deducendo cinque motivi, di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1: 2.1 violazione di legge, in riferimento all'art. 648 c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), avendo la Corte territoriale fondato il coinvolgimento dell'imputato nei delitti di ricettazione unicamente in base alla sua partecipazione al delitto di furto di cui al capo a), in assenza di ogni prova, al di là della presenza dell'imputato presso l'abitazione del C.; 2.2 violazione di legge, in riferimento agli artt. 56 e 624-bis c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione alla mancata qualificazione della condotta sub a) come furto tentato, in quanto le forze dell'ordine avrebbero potuto interrompere l'attività criminosa in corso, monitorata da tempo, non potendo la discrezionalità investigativa influire sulla qualificazione della fattispecie; 2.3 violazione di legge, in relazione all'art. 81 c.p., comma 2 e art. 133 c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), sia in riferimento alla determinazione della pena base che agli aumenti per la continuazione, non avendo la Corte di merito preso in alcuna considerazione le modalità del fatto (consapevolezza, da parte degli imputati, che l'abitazione fosse vuota, assenza di danni ingenti all'immobile, orario diurno della condotta e modalità rudimentali della stessa), il minimo danno cagionato alla persona offesa e le condizioni di vita degli imputati; 2.4 violazione di legge, in relazione all'art. 62-bis c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in riferimento alla riduzione della pena non nella misura massima, a seguito della concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla luce del comportamento processuale dell'imputato; 2.5 violazione di legge, in relazione all'art. 163 c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in riferimento alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena. 3. Ba.Da. ricorre in data 10/02/2021, a mezzo del difensore di fiducia avv.to A., deducendo tre motivi, di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1: 3.1 violazione di legge, in riferimento agli artt. 56 e 624-bis c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in riferimento alla qualificazione della condotta come furto consumato e non tentato, alla luce della ricostruzione della vicenda, descritta in ricorso, posto che gli operanti avevano tenuto sotto costante controllo la sequenza dei fatti; 3.2 violazione di legge, in riferimento all'art. 648 c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), avendo la Corte territoriale ritenuto il coinvolgimento dell'imputato nei delitti di ricettazione pur in assenza di prova, non avendo egli avuto alcun collegamento né con la vettura giunta a Roma né con l'abitazione dove era stata rinvenuta la refurtiva; 3.4 violazione di legge, in relazione all'art. 81 c.p., comma 2 e art. 133 c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), sia in riferimento alla determinazione della pena base che agli aumenti per la continuazione, non avendo la Corte di merito fornito alcuna adeguata motivazione sul punto. 4. J.M. e C.M. ricorrono in data 02/02/2021, a mezzo del difensore di fiducia avv.to M., deducendo cinque motivi, di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1: 4.1 violazione di legge, in riferimento agli artt. 110 e 648 c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), avendo la Corte territoriale ritenuto il coinvolgimento dell'imputato J.M. nei delitti di ricettazione unicamente in base alla sua partecipazione al delitto di furto di cui al capo a), in assenza di ogni prova, al di là della presenza dell'imputato presso l'abitazione del C.; 4.2 violazione di legge, in riferimento agli artt. 56 e 624-bis c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione alla mancata qualificazione della condotta sub a) come furto tentato, in quanto le forze dell'ordine avrebbero potuto interrompere l'attività criminosa in corso, monitorata da tempo, non potendo la discrezionalità investigativa influire sulla qualificazione della fattispecie; 4.3 violazione di legge, in relazione all'art. 81 c.p., comma 2 e art. 133 c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), sia in riferimento alla determinazione della pena base che agli aumenti per la continuazione, non avendo la Corte di merito preso in alcuna considerazione le modalità del fatto (consapevolezza, da parte degli imputati, che l'abitazione fosse vuota, assenza di danni ingenti all'immobile, orario diurno della condotta e modalità rudimentali della stessa), il minimo danno cagionato alla persona offesa e le condizioni di vita degli imputati; 4.4 violazione di legge, in relazione all'art. 62-bis c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in riferimento alla riduzione della pena non nella misura massima a seguito della concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla luce del comportamento processuale degli imputati; 4.5 violazione di legge, in relazione all'art. 163 c.p., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in riferimento alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena. 5. C.M. ricorre inoltre, a mezzo del difensore di fiducia avv.to G. deducendo quattro motivi, corrispondenti, rispettivamente, al secondo, al terzo, al quarto ed al quinto motivo del ricorso a firma dell'avv.to M.. a CONSIDERATO IN DIRITTO I ricorsi degli imputati sono parzialmente fondati, nei limiti di seguito illustrati. 1.In particolare, risultano fondati il secondo motivo del ricorso di B.U.; il primo motivo del ricorso di Ba.Da.; il secondo motivo dei ricorsi di J.M. e C.M.; il primo motivo del ricorso di C.M. a firma dell'avv.to Giulia Liberti. Tali motivi riguardano la qualificazione del fatto come tentativo di furto aggravato in concorso, ai sensi degli artt. 56,110 e 624-bis c.p., art. 625 c.p., n. 2 e 5. Come si evince dalla sentenza di primo grado - la cui motivazione costituisce parte integrante di quella impugnata, trattandosi di "doppia conforme" - l'auto su cui viaggiavano gli imputati era stata - in epoca precedente la condotta delittuosa - munita di un localizzatore satellitare, il che aveva consentito di monitorarne, continuativamente e per alcuni giorni, gli spostamenti; in tal modo la polizia giudiziaria aveva predisposto un servizio di pedinamento per il giorno 05/08/2019, di cui si dà atto nella citata sentenza del primo giudice, in cui vengono descritti tutti gli spostamenti degli imputati, sin dal mattino. Quanto alla condotta di cui al capo a), in particolare, la sentenza di primo grado descrive come i quattro imputati, a bordo della vettura munita di localizzatore satellitare, avessero raggiunto la (OMISSIS), dove due di loro - lo J. ed il B. - dapprima tentavano di accedere, senza riuscirci, al civico (OMISSIS), quindi si avvicinavano alla pulsantiera dei citofoni del civico (OMISSIS), accedendo entrambi all'interno dell'edificio, insieme al Ba., mentre il C. restava in auto, il tutto sempre sotto il costante controllo degli operanti; dopo poco meno di un'ora, i tre imputati venivano visti uscire dal civico 12, salire a bordo dell'auto, dove il quarto imputato li attendeva e, infine, allontanarsi in direzione (OMISSIS), dove venivano bloccati e perquisiti. Non vi è dubbio, quindi, che gli imputati fossero stati costantemente seguiti a vista, a qualche decina di metri di distanza, anche grazie all'ausilio del sistema di localizzazione satellitare, e fossero stati successivamente fermati alla via delle Fiamme Gialle, dove, all'interno dell'auto, era stata rinvenuta la refurtiva e gli arnesi atti allo scasso. Nei motivi di ricorso, in sintesi, si evidenzia come la qualificazione della condotta come tentativo di furto in abitazione, piuttosto che come furto consumato, avrebbe dovuto tenere in debito conto la circostanza che le forze dell'ordine ben avrebbero potuto interrompere l'attività criminosa in corso, monitorata in tutta la sua evoluzione, non potendo la discrezionalità investigativa influire sulla qualificazione della fattispecie. In realtà l'esame del profilo evidenziato nei ricorsi evoca la questione affrontata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 52117 del 17/07/2014, P.G. in proc. Prevete, Rv. 261186, in tema di furto in supermercato, con la quale e', stato affermato il principio ermeneutico secondo cui il monitoraggio della condotta in corso di esecuzione, esercitato mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce, ovvero attraverso la diretta osservazione da parte della persona offesa o dei dipendenti addetti alla sorveglianza, ovvero delle forze dell'ordine presenti nel locale, ed il conseguente intervento difensivo in continenti, impediscono la consumazione del delitto di furto, che resta allo stadio del tentativo, in quanto l'agente non ha conseguito, neppure momentaneamente, l'autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo del soggetto passivo. In motivazione, il massimo consesso nomofilattico di questa Corte ha ritenuto decisivo, ai fini della qualificazione della condotta come tentativo di furto, il mancato perfezionamento del possesso della refurtiva in capo all'agente. In particolare, è stato rilevato come debba ritenersi acquisito che "l'impossessamento del soggetto attivo del delitto di furto postuli il conseguimento della signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva da parte dell'agente. Sicché, laddove esso è escluso dalla concomitante vigilanza, attuale e immanente, della persona offesa e dall'intervento esercitato in continenti a difesa della detenzione del bene materialmente appreso, ma ancora non uscito dalla sfera del controllo del soggetto passivo, la incompiutezza dell'impossessamento osta alla consumazione del reato e circoscrive la condotta delittuosa nell'ambito del tentativo". Nel caso scrutinato dalla citata sentenza delle Sezioni Unite, gli imputati avevano prelevato dai banchi di esposizione di un supermercato tre flaconi di profumo, caffe' e biscotti, lacerando le confezioni e rimuovendo i dispositivi antitaccheggio; avevano, quindi, occultato la refurtiva in una borsa ed avevano superato la cassa, senza pagare la merce nascosta, ma esibendo altro prodotto, regolarmente pagato, uscendo dal centro commerciale; una volta all'esterno del fabbricato, l'addetto alla sicurezza, che si era avveduto in precedenza della azione furtiva, era alfine intervenuto, promovendo l'intervento della polizia giudiziaria, che aveva tratto in arresto gli imputati. Anche in tal caso, quindi, l'intervento delle forze dell'ordine e dell'addetto alla sicurezza, che aveva constato la condotta nel corso della sua esecuzione, si era verificato dopo l'apprensione e l'occultamento della merce, al di fuori dell'esercizio commerciale, una volta superate le casse. In particolare, la sentenza Prevete ha posto l'accento sulla considerazione dell'oggetto giuridico del reato alla luce del principio di offensività: "In tale prospettiva, di recente valorizzata quale canone ermeneutico di ricostruzione dei "singoli tipi di reato" da Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, il fondamento della giustapposizione tra il delitto tentato e quello consumato (e del differenziato regime sanzionatorio) risiede nella compromissione dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice. Affatto coerente risulta, pertanto, l'aggancio della consumazione del furto alla completa rescissione (anche se istantanea) della "signoria che sul bene esercitava il detentore", come esattamente individuato dalla citata sentenza n. 8445 del 2013, Niang. Mentre, di converso, se lo sviluppo dell'azione delittuosa non abbia comportato ancora la uscita del bene dalla sfera di vigilanza e di controllo dell'offeso, è per vero confacente, alla stregua del parametro della offensività, la qualificazione della condotta in termini di tentativo". Le considerazioni svolte dalla pronuncia appena citata meritano, a parere del Collegio, adeguata riflessione anche in relazione al caso in esame, in cui, come visto, l'intera sequenza delittuosa era stata oggetto di completo e costante monitoraggio da parte delle forze dell'ordine, iniziato ore prima ed a prescindere dall'introduzione degli imputati nell'abitazione di (OMISSIS); tale monitoraggio, come detto, si era concretato non solo nell'utilizzazione di un meccanismo di localizzazione satellitare, ma anche nella attuazione di un servizio di osservazione, che aveva consentito di sequenziare tutta la dinamica concreta del fatto ed il ruolo dei coimputati. Occorre, quindi, ponendosi nell'ottica del giudice di merito, domandarsi se le forze dell'ordine abbiano avuto - nel caso in esame - la concreta possibilità di intervenire nel momento in cui gli imputati si apprestavano, inequivocabilmente, ad introdursi nell'appartamento, ossia nel momento in cui erano in corso di esecuzione gli atti idonei ed univocamente diretti a porre in essere la condotta penalmente sanzionata dal delitto di furto in appartamento. Occorre, altresì, comprendere se la condotta degli imputati - come emersa dal monitoraggio descritto in sentenza - potesse essere ragionevolmente ritenuta, da parte della polizia giudiziaria operante, manifestazione di una volontà diversa da quella di commettere un furto, sulla base dell'id quod plerumque accidit e se, in sostanza, potesse ritenersi manifestazione di un'attività del tutto lecita, tale da non rendere necessario l'intervento degli operanti. Una volta fornita adeguata risposta a tali quesiti, ritiene il Collegio che - proprio sulla scorta della corretta applicazione del principio di offensività - il giudice di merito debba porsi il problema se la scelta di intervenire, in una piuttosto che in un'altra delle fasi di progressione della condotta inequivocabilmente illecita, lasciata alla piena discrezionalità delle forze dell'ordine - che, evidentemente, agiscono anche sulla base di ulteriori esigenze investigative, quali potrebbero essere, ad esempio, la necessità di individuare la base operativa degli autori del fatto e le tracce di altri reati - possa incidere in maniera decisiva sulla qualificazione della condotta come furto consumato piuttosto che come tentativo di furto. Come osservato, si tratta, ovviamente, di una verifica che non può che essere operata da parte dei giudici di merito, alla luce degli specifici e peculiari aspetti della vicenda processuale, come emersi dall'istruttoria dibattimentale, rispetto alla cui valutazione il giudice di legittimità non può sostituirsi ai giudici di merito. Ciò che, invece, spetta a questa Corte, è individuare gli approdi ermeneutici elaborati sulle questioni che appaiono rilevanti nel caso in esame, ai fini di un corretto inquadramento della fattispecie. In tal senso occorre ricordare che la non recente giurisprudenza di questa Corte regolatrice aveva individuato il discrimine tra il tentativo di furto ed il furto consumato proprio valutando la possibilità di intervento delle forze dell'ordine nel corso dell'esecuzione criminosa; secondo Sez. 5, n. 837 del 03/11/1992, dep. 01/02/1993, Zizzo, Rv. 193486 "Ai fini della distinzione tra il reato di furto consumato e quello tentato non hanno rilevanza né il criterio spaziale né il criterio temporale, sicché è sufficiente, ai fini della consumazione, la sottrazione della cosa alla disponibilità del detentore e il correlativo impossessamento di essa da parte dell'agente anche per breve lasso di tempo: si realizza pertanto l'ipotesi di furto consumato anche se l'agente sia stato costretto ad abbandonare la refurtiva subito dopo la sottrazione a causa del pronto intervento dell'avente diritto o della forza pubblica. Solo se l'intervento di costoro, all'insaputa dell'agente, sia intervenuto, sotto forma di vigilanza, nel corso dell'azione delittuosa per modo che vi sarebbe stata la possibilità di intervenire in qualsiasi momento per bloccarne l'attività, il furto non potrebbe considerarsi consumato; ciò anche se l'agente si fosse impossessato della cosa giacché non si sarebbe mai potuto realizzare in tali circostanze un autonomo effettivo impossessamento della refurtiva, rimasta sempre nella sfera diretta di controllo e vigilanza dell'offeso". Nello stesso solco si collocavano anche Sez. 5, n. 11947 del 30/10/1992, Di Chiara, Rv. 192608, in tema di furto in supermercato, in cui si affermava che quando l'avente diritto, o persona da lui incaricata, sorvegli le fasi dell'azione furtiva, sì da poterla interrompere in ogni momento, il delitto non è consumato neanche con l'occultamento della cosa sulla persona del colpevole, in quanto la cosa non è ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto dell'offeso. Le citate pronunce rendono evidente come il criterio discretivo tra le fattispecie di furto tentato e furto consumato debbano seguire gli stessi criteri ermeneutici in tutte le manifestazioni della condotta criminosa, non potendosi certamente adottare criteri diversi nel caso di furto in supermercato rispetto al caso di furto in abitazione. Tale considerazione appare assolutamente attuale, posto che - come si evince anche dalla motivazione delle Sezioni Unite Prevete, citata - nessun rilievo discretivo può essere attribuito al fatto che l'osservazione della condotta criminosa sia stata posta in essere direttamente dalla persona offesa o da un suo incaricato (come di regola si verifica nel caso di furto in supermercato) piuttosto che dalle forze dell'ordine (come può verificarsi sia in caso di furto in abitazione che in caso di furto in supermercato), trattandosi, all'evidenza, di circostanze del tutto accidentali ed ininfluenti sulla qualificazione della condotta penalmente rilevante. Ciò che, invece, appare sicuramente rilevante, sia per il furto in supermercato che per quello in abitazione, è l'assoluta irrilevanza del criterio spaziale e di quello temporale rispetto alla qualificazione della condotta, come affermato del tutto pacificamente dalla giurisprudenza di questa Corte, per cui i predetti criteri non hanno rilevanza alcuna, ai fini della distinzione tra furto tentato e furto consumato, essendo per quest'ultimo sufficienti la sottrazione della cosa alla disponibilità del detentore e l'impossessamento di essa da parte dell'agente, sia pure per breve tempo (Sez. 2, n. 290 del 16/02/1970, Bondini, Rv. 115543; Sez. 2, n. 2295 del 19/11/1969, dep. 10/09/1970, Gandini, Rv. 11524; Sez. 2, n. 1314 del 26/05/1969, Pellegrini, Rv. 113015; Sez. 2, n. 323 del 12/02/1968, Masella, Rv. 108071; Sez. 2, n. 331 del 01/03/1966, Funghi, Rv. 101796). In sostanza, dall'esame delle predette pronunce, si evince che, poiché non assumono rilievo né il criterio spaziale né quello temporale, colui che abbia nascosto sulla propria persona la cosa sottratta deve rispondere di furto consumato e non di furto tentato, anche se non si sia allontanato dal luogo della sottrazione ed abbia esercitato sulla cosa un potere del tutto momentaneo; tale criterio ermeneutico si applica anche nel caso in cui l'agente sia stato costretto ad abbandonare la refurtiva subito dopo il fatto, per il pronto intervento dell'avente diritto o delle forze dell'ordine. Qualora, peraltro, tale intervento, all'insaputa del soggetto attivo, si sia spiegato ancor prima della sottrazione, avendo il detentore e gli agenti di polizia seguito e sorvegliato l'autore della condotta delittuosa nelle diverse fasi della stessa, potendola, quindi, interrompere in qualsiasi momento, il delitto non può considerarsi consumato neanche con l'occultamento della cosa sulla persona del colpevole, poiché nelle circostanze accennate tale accorgimento non realizza l'effettivo - e sia pur temporaneo - impossessamento da parte del soggetto attivo e la correlativa sottrazione della cosa alla sfera di vigilanza e di controllo diretto da parte della persona offesa o delle forze dell'ordine. Ciò che appare, quindi, necessario, è operare una distinzione tra il caso in cui la condotta del soggetto agente sia preventivamente e costantemente monitorata, con modalità tali da rendere in concreto possibile l'interruzione della stessa, dal caso in cui la polizia giudiziaria interviene del tutto casualmente ed accidentalmente nel corso dell'impossessamento. In questa seconda ipotesi non vi è dubbio che dovrà ritenersi integrata la fattispecie di furto consumato, considerata l'estemporaneità dell'intervento delle forze dell'ordine, che non impedisce la sottrazione e l'impossessamento (Sez. 5, n. 3642 del 21/01/1999, Inbrogno Q., Rv. 213315, in cui si è affermato, in tema di furto in supermercato, che quando l'avente diritto o persona da lui incaricata sorvegli le fasi dell'azione furtiva, sì da poterla interrompere in ogni momento, il delitto non è consumato neanche con l'occultamento della cosa sulla persona del colpevole, perché la cosa non è ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto dell'offeso; in tal senso anche Sez. 2, n. 290 del 16/02/1970, Bondini, Rv. 115543). Tale impostazione, analogamente, è seguita dalla giurisprudenza di questa Corte in numerose altre pronunce, in cui, assimilando le fattispecie di rapina e di furto, pacificamente si afferma che, ai fini della determinazione dell'impossessamento, appaiono del tutto irrilevanti sia il criterio temporale della durata del possesso, sia il criterio spaziale del trasferimento della cosa sottratta in luogo diverso, sia, infine, l'uscita della cosa stessa dalla sfera del possesso e della sorveglianza del derubato o di altri per lui o della possibilità di intervento della polizia; ciò in quanto anche un possesso solo temporaneo, senza la adductio de loco ad locum della refurtiva, entro la sfera di vigilanza del derubato o di chi per lui - tale che l'agente possa anche essere indotto ad abbandonare la refurtiva, per darsi alla fuga - vale ad integrare il momento consumativo del delitto, dato che, anche in tale caso, la persona offesa o chi per essa, per recuperare la refurtiva, attuando in concreto il potere di sorveglianza e di signoria non perduto, sarebbe necessariamente costretta alla violenza o ad altra perentoria pressione sull'agente ormai detentore della cosa, contrapponendo, ex post, la propria legittima reazione all'azione delittuosa già esplicata nella sua materialità obiettiva. (Sez. 1, n. 2831 del 12/10/1977, dep. 17/03/1978, D'Aquino, Rv. 138278, e giurisprudenza conforme ivi citata, in un caso in cui i soggetti agenti avevano abbandonato la refurtiva durante la fuga determinata dall'intervento della polizia; in tema di rapina Sez. 2, n. 7500 del 26/01/2017, Hamidovic ed altro, Rv. 269576; ancora, in tema di furto: Sez. 5, n. 26749 del 11/04/2016, Ouerghi, Rv. 267266). Una pronuncia piuttosto recente (Sez. 5, n. 48880 del 17/09/2018, S., Rv. 274016) ha analiticamente ripercorso i termini della distinzione tra furto consumato e furto tentato, sulla scorta del criterio inerente il conseguimento, anche per breve tempo della disponibilità del bene, considerando il furto consumato nel caso in cui il soggetto agente, dopo essersi impossessato della refurtiva, non si sia ancora allontanato dal luogo della sottrazione e abbia esercitato sulla cosa un potere del tutto momentaneo, essendo stato costretto ad abbandonarla subito dopo il fatto per il pronto intervento dell'avente diritto o della polizia. In particolare, in motivazione, detta pronuncia, rifacendosi al criterio ermeneutico contenuto nelle Sezioni Unite Prevete, citata, ha rilevato come "Ai fini della configurazione dell'autonoma disponibilità della cosa, che segna il momento acquisitivo a cui l'impossessamento è funzionale, non rileva il dato temporale ex se, essendo sufficiente che l'agente abbia conseguito anche solo momentaneamente l'esclusiva signoria di fatto sul bene, assumendo, invece, decisivo rilievo la effettiva concretizzazione del rischio di definitiva dispersione, anche se questa non si sia, di fatto, realizzata per l'intervento di fattori causali successivi ed autonomi. In altri termini, l'agente acquisisce l'autonoma disponibilità della cosa sottratta - e la fattispecie si realizza in forma consumata - solo quando il soggetto passivo del reato ne perda, correlativamente, la detenzione, anche mediata attraverso forme indirette di vigilanza e custodia. Ed in tale prospettiva assumono rilevanza le cautele predisposte al fine di minimizzare l'incidenza dei fattori di rischio che, con riferimento al concreto assetto delle misure di vigilanza e controllo rispetto all'adozione di immediate iniziative contenitive, possono di fatto escludere il conseguimento, da parte dell'agente, di una signoria autonoma sul bene, cristallizzando la condotta nella fase del tentativo". In altri termini, anche tale sentenza ravvisa, ai fini della individuazione del tentativo, la necessità che "il complesso delle cautele adottate dal soggetto passivo del reato consenta un contestuale intervento impeditivo che, di fatto, precluda all'agente l'esercizio di autonomi poteri dispositivi sulla cosa, escludendo ex ante il pericolo di definitiva dispersione del bene sottratto". Passando ad esaminare il caso di monitoraggio dell'azione da parte delle forze dell'ordine, si richiama, poi, il costante approdo della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'intervento della polizia giudiziaria, che osserva a distanza l'agente, integra il reato di furto nella forma consumata in quanto l'osservazione a distanza da parte degli agenti non assume rilevanza ai fini della configurabilità del reato nella forma tentata poiché tale "studio" non solo non avviene ad opera della persona offesa, ma neppure impedisce il conseguimento dell'autonomo possesso della res, prima dell'arresto in flagranza. In tal senso si richiama un precedente conforme (Sez. 5, n. 26749 del 11/04/2016, Ouergh, Rv. 267266), in cui, tuttavia, la vicenda esaminata riguardava un caso del tutto diverso da quello in esame: nella pronuncia a carico dell'Ouergh, infatti, l'imputato si era impossessato, approfittando della disattenzione della persona offesa, della borsa di quest'ultima, allontanandosi, e, a quel punto, era intervenuta la polizia giudiziaria, che lo aveva inseguito e lo aveva bloccato. L'aspetto ulteriore che, a parere del Collegio, occorre, quindi, esaminare nel caso concreto, come quello che occupa, non può, infatti, prescindere dalla considerazione che la polizia giudiziaria sia indiscutibilmente tenuta ad impedire la commissione di reati ed impedire che gli stessi vengano portati a conseguenze ulteriori, come si evince chiaramente dall'art. 55 c.p.p., oltre che dalla incontestata individuazione, in capo alla polizia giudiziaria, di un obbligo di garanzia, ai sensi dell'art. 40 c.p., comma 2, rilevante anche ai fini dell'individuazione di ipotesi di concorso di reati commessi da agenti di polizia giudiziaria (Sez. 3, n. 364 del 17/09/2019, dep. 09/01/2020, C., Rv. 278392; Sei. 3, n. 3100 del 30/01/1996, Tucci, Rv. 205000; Sez. 2, n. 1506 del 06/12/1991, dep. 14/02/1992, Viani, Rv. 189762; Sez. 3, n. 2075 del 18/06/1965, Deiana, Rv. 099812; Sez. 2, n. 609 del 02/02/1960, Stanga, Rv. 098433, in cui è stata anche evidenziata la differenza tra la fattispecie di omessa denuncia di reato, di cui all'art. 361 c.p. ed il concorso nel reato per non averlo impedito, pur in presenza dell'obbligo di cui all'art. 40 c.p., comma 2, osservando che nel primo caso il pubblico ufficiale omette o ritarda di denunziare un reato di cui sia venuto a conoscenza, mentre nel secondo caso egli omette un doveroso comportamento positivo, ad impedimento del reato, che poteva materialmente attuare e che invece non ha attuato, concorrendo così al compimento del reato stesso; nel caso esaminato da detta ultima pronuncia era stato affermato il concorso nel delitto di furto nel caso dell'agente di polizia giudiziaria che, sia di concerto col ladro o anche senza tale concerto, sorprendendo il ladro medesimo mentre sta compiendo l'azione criminosa, permette che questa sia compiuta). Alla luce di tali considerazioni, quindi, appare necessario effettuare una distinzione di fondo tra i casi in cui la polizia giudiziaria intervenga, del tutto accidentalmente, oppure in maniera estemporanea e non specificamente preordinata (come avviene in caso di interventi su segnalazione di poco precedente, tramite Centrale Operativa o su diretta indicazione di terzi), dai casi in cui sia stata specificamente e preventivamente attuata una fase investigativa, propedeutica all'osservazione ed al monitoraggio dei soggetti nei confronti dei quali erano già in corso attività di indagine. Nel primo caso, infatti, l'intervento sopravvenuto e casuale della polizia giudiziaria, anche se preceduto da una osservazione dello svolgimento della condotta criminosa, resta inevitabilmente caratterizzato da una connotazione di accidentalità e di contingenza, che, seppure consente un intervento immediato finalizzato ad evitare il protrarsi delle conseguenze del reato, non impedisce come affermato dalla giurisprudenza - l'apprensione del bene e lo spossamento, anche cronologicamente limitato, in danno della persona offesa, con conseguente configurazione del reato consumato (Sez. 4, n. 11683 del 27/11/2018, dep. 18/03/2019, Arena Daniele, Rv. 275278; Sez. 5, n. 28062 del 16/05/2013, P.G. in proc. Iacovello, Rv. 256369; Sez. 5, n. 37205 del 16/06/2010, La Fiura, Rv. 248423; Sez. 5, n. 21881 del 09/04/2010, Mezzasalma, Rv. 247311; Sez. 4, n. 1308 del 06/12/1995, dep. 08/02/1996, Spataro, Rv. 204056). Nel secondo caso, invece, proprio la preordinazione di plurime modalità di accertamento del reato, in una fase investigativa già attivata e preordinata funzionalmente proprio a tale verifica, consente alla polizia giudiziaria non solo di poter preventivamente preordinare la modalità di osservazione e controllo, ma anche di pianificare gli interventi necessari a scongiurare la commissione di reati e/o la protrazione delle conseguenze che da essi scaturiscono. E, in tal senso, non appare irrilevante - secondo la logica descritta - avere la possibilità di interrompere l'azione criminosa a fronte di una condotta che integri, in maniera palese e conclamata, un tentativo di furto (nel caso esaminato, ma il discorso vale indistintamente anche per altre fattispecie di reato), piuttosto che scegliere, deliberatamente, di attendere che la condotta evolva in furto consumato. Ciò senza considerare come, in tale secondo caso, un intervento ritardato potrebbe anche compromettere il recupero della refurtiva e l'arresto dell'autore del fatto, per l'insorgere di eventi inattesi e non altrimenti fronteggiabili ma, in ogni caso, pacificamente prevedibili nell'ambito di attività di polizia giudiziaria. In tal senso, quindi, si ritiene che non possa essere rimessa alla scelta discrezionale della polizia giudiziaria, a determinate e particolari condizioni quale, come detto, la specifica predisposizione di modalità di monitoraggio e simili - calibrare la tempistica dell'interruzione dell'attività criminosa in corso, quando la condotta, pervenuta pacificamente alla fase del tentativo, possa e debba essere interrotta. Tale snodo logico e ricostruttivo va, quindi, analizzato e declinato sia alla luce degli obblighi specifici che ricadono sull'attività di polizia giudiziaria, sia alla luce del principio di offensività sottolineato dalle Sezioni Unite. Ne' può apparire dirimente, ai fini della distinzione tra la fattispecie di furto consumato e furto tentato, la circostanza che la persona offesa avesse predisposto o meno misure di custodia immediatamente attivabili con funzione impeditiva, non rilevando, cioè, la circostanza che la sorveglianza sia stata disposta dalla persona offesa o dalla polizia giudiziaria, come chiaramente evidenziato dalle Sezioni Unite Prevete; ciò che rileva è che il bene esca o meno dalla sfera di vigilanza e di controllo - diretto o indiretto - della persona offesa, potendo in concreto le fasi della condotta essere interrotte in ogni momento. Sarebbe, peraltro, del tutto irragionevole ritenere che la differenza tra la fattispecie tentata e quella consumata possa essere determinata dal fatto che come avviene nel caso del furto in supermercato - gli accorgimenti e le modalità predisposti per il controllo dell'attività, idonee a monitorare le condotte criminose in corso di esecuzione, al fine di consentire l'intervento tempestivo, siano predisposti dal soggetto interessato, che ha la proprietà o la legittima disponibilità del bene, piuttosto che dalla polizia giudiziaria; nel primo caso, infatti, il soggetto che predispone i mezzi di contrasto alla altrui condotta criminosa opera in funzione di uno specifico interesse, collegato ad una situazione di diritto soggettivi meritevole di tutela, mentre nel secondo caso la polizia giudiziaria opera in adempimento di un obbligo, previsto da norme primarie, la cui violazione, qualora ne ricorrano le altre condizioni, può integrare una fattispecie di reato. Trattasi, all'evidenza, di due aspetti della stessa questione, la quale, come già più volte ribadito, va considerata anche alla luce della offensività del fatto, non potendo certamente apparire irrilevante la concreta possibilità, per la polizia giudiziaria, di poter interrompere la condotta criminosa nella fase del tentativo. Il principio di offensività ha indubbio rilievo costituzionale, come si evince dall'art. 25 Cost. e art. 27 Cost., comma 1 e 3, dal che deriva come ad esso debba attenersi l'interprete nella individuazione della fattispecie in cui inquadrare una specifica condotta. In tal senso va ricordato come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 260 del 2005, in relazione alla fattispecie di cui all'art. 707 c.p., abbia affermato che "il principio di offensività opera su due piani, rispettivamente della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell'applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato (v. sentenze numeri 360 del 1995, 263 e 519 del 2000, ove viene appunto definita la duplice sfera di operatività, in astratto e in concreto, delprincipio diell'saria offensività, quale criterio di conformazione legislativa delle fattispecie incriminatrici e quale canone interpretativo per il giudice). Si deve però tenere presente che la particolare configurazione della contravvenzione in esame lascia aperta la possibilità che si verifichino casi in cui alla conformità del fatto al modello legale non corrisponde l'effettiva messa in pericolo dell'interesse tutelato. Il giudice chiamato a fare applicazione della norma dovrà pertanto operare uno scrutinio particolarmente rigoroso circa la sussistenza del requisito dell'offensività in concreto, verificando la specifica attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o forzare serrature". Tali principi sono stato ribaditi, tra le altre, con la sentenza n. 513 del 2000, nella quale il Giudice delle leggi ha ribadito che "alla lesività in astratto, intesa quale limite alla discrezionalità del legislatore nella individuazione di interessi meritevoli di essere tutelati mediante lo strumento penale, suscettibili di essere chiaramente individuati attraverso la formulazione del modello legale della fattispecie incriminatrice, fa riscontro il compito del giudice di accertare in concreto, nel momento applicativo, se il comportamento posto in essere lede effettivamente l'interesse tutelato dalla norma." Peraltro, come già detto, anche le Sezioni Unite, con la sentenza n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, Rv. 255974, 255975 hanno ribadito come il fatto di reato esprima oltre ad un dato naturalistico anche un momento di valore, un evento giuridico inteso come concreta offesa all'interesse delle vita tutelato dalla norma incriminatrice, rimarcando come il fatto, oltre a possedere i connotati formali tipici, deve anche presentarsi in concreto carico del significato in forza del quale è assunto come fattispecie produttiva di conseguenze giuridiche, in tal senso declinando il concetto di offensività in concreto, sottolineando come l'inoffensività di un singolo elemento è in realtà l'inoffensività di un requisito del tipo, e come proprio il parametro valutativo di offensività consente di individuare gli elementi fattuali dotati di tipicità. In riferimento alla differenza tra reato consumato e reato tentato, non vi è dubbio che la scelta discrezionale del legislatore sia già stata operata in astratto, proprio tenuto conto dei diversi livelli di offensività delle condotte; ciò nondimeno, è proprio al canone dell'offensività in concreto che l'interprete si deve ispirare nella scelta dell'inquadramento di una condotta nella categoria del reato consumato o del reato tentato. Si tratta, infatti, di assicurare che la pena sia proporzionato al grado dell'offesa in concreto, ossia alle modalità dell'aggressione del bene protetto, in cui l'impossessamento ed il conseguimento della signoria autonoma sul bene costituiscono il cuore della fattispecie e ne contrassegnano significativamente il disvalore tipico. Nel caso in cui, quindi, sia possibile verificare come la sorveglianza della condotta illecita, predisposta attraverso modalità predeterminate, abbia consentito un costante ed ininterrotto monitoraggio dell'azione, inequivocabilmente caduta sotto la percezione ed il controllo della polizia giudiziaria, che ne abbia potuto apprezzare la valenza di illiceità, deve ritenersi, peraltro in linea con l'approdo delle Sezioni Unite Prevete, citata, che le misure predisposte assumono indiscutibile rilevanza, minimizzando o escludendo del tutto l'incidenza dei fattori di rischio; il che, quindi - ripetendo il chiaro enunciato del massimo consesso nomofilattico di questa Corte - fa sì che "con riferimento al concreto assetto delle misure di vigilanza e controllo rispetto all'adozione di immediate iniziative contenitive, (si) possono di fatto escludere il conseguimento, da parte dell'agente, di una signoria autonoma sul bene, cristallizzando la condotta nella fase del tentativo". Trattasi, come già detto, di una questione di fatto, che deve essere scrutinata dal giudice del merito alla luce di tutte le specifiche circostanze in tal senso rilevanti, per come emerse dall'approdo dibattimentale in tutte le sue componenti, la cui valutazione è preclusa a questa Corte di legittimità. Ne discende, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame, sul profilo della qualificazione della condotta come furto consumato o tentato, ad altra sezione della Corte di Appello di Genova che, nella libera valutazione del compendio probatorio, si atterrà ai principi di diritto sin qui illustrati. Ne discende che i motivi relativi al trattamento sanzionatorio risultano assorbiti. 2. Quanto al delitto di ricettazione, i motivi di ricorso appaiono del tutto inammissibili in quanto generici e privi di un serio confronto con la motivazione della sentenza impugnata che, sul punto, ha ricordato come tutti gli imputati fossero stati visti entrare, in diverse circostanze, nell'appartamento condotto in locazione dal C.; al momento della perquisizione, inoltre, i beni di provenienza furtiva erano stati rinvenuti nella cucina e nella stanza da letto in cui dormivano tre persone e gli imputati non avevano fornito alcuna spiegazione alternativa circa la loro presenza nell'immobile. Alla luce di dette circostanze, oltre che dall'evidente concorso degli imputati nella fattispecie di furto di cui al capo a), la Corte di merito ha, quindi, con motivazione del tutto immune da censure logiche, desunto che i ricorrenti avessero operato in concorso tra loro anche quanto ai fatti di ricettazione. I motivi sul punto, quindi, risultano inammissibili. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Genova. Così deciso in Roma, il 25 novembre 2021. Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2022
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