top of page

Sequestro preventivo: la riqualificazione del fatto in fase cautelare non ne determina l’illegittimità

Ricettazione

Cassazione penale sez. II, 23/04/2024, n.23954

In tema di sequestro preventivo, la riqualificazione giuridica del fatto, da parte dal tribunale del riesame, in termini diversi da come contestato nell'incolpazione formulata dal pubblico ministero e recepita nel provvedimento genetico, non determina la mutazione dello stesso, né comporta l'illegittimità del provvedimento, conservando l'anzidetto giudicante, in una fase fluida come quella delle indagini preliminari, il potere-dovere di accedere, pur nei limiti degli elementi dedotti nella richiesta, all'inquadramento giuridico ritenuto più appropriato. (Fattispecie in cui la Corte ha giudicato immune da censure la riqualificazione in termini di riciclaggio, effettuata in sede di impugnazione cautelare, di un fatto originariamente contestato come ricettazione).

Prescrizione del reato e ricettazione: il favor rei opera solo in caso di assoluta incertezza sulla data di commissione

Ricettazione aggravata: il dolo eventuale si configura con l’accettazione del rischio della provenienza delittuosa del denaro

Risarcimento integrale per la diminuente: il ricettatore deve risarcire anche il danno patrimoniale e non patrimoniale alla vittima

Sequestro preventivo: la riqualificazione del fatto in fase cautelare non ne determina l’illegittimità

Sequestro preventivo per confisca allargata: necessaria congruenza tra profitti illeciti e valore dei beni confiscabili"

L’abolitio criminis del reato presupposto esclude la configurabilità del delitto di ricettazione

Versamento di assegni illeciti sul proprio conto integra ricettazione e non riciclaggio in assenza di attività di occultamento

Concorso tra ricettazione e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti per beni derivanti da delitti-scopo non partecipati

Ricettazione e riciclaggio: necessaria l’individuazione della tipologia del reato presupposto

Ricettazione e possesso di segni distintivi contraffatti possono concorrere senza rapporto di specialità

Sequestro preventivo per ricettazione: il fumus del reato richiede elementi certi sulla provenienza delittuosa dei beni

Configura ricettazione e non riciclaggio il versamento di assegni illeciti senza occultamento della loro origine

Hai bisogno di assistenza legale?

Prenota ora la tua consulenza personalizzata e mirata.

 

Grazie

oppure

PHOTO-2024-04-18-17-28-09.jpg

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Do.Zh. ricorre, a mezzo del difensore di fiducia, avverso l'ordinanza del Tribunale di Roma che ha rigettato la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo, emesso dal Gip del Tribunale di Roma, della somma di euro 595.900,00 nell'ambito del procedimento penale iscritto per il delitto di cui all'art. 648-bis cod. proc. pen. La difesa, dopo avere richiamato in fatto la vicenda che ha portato al sequestro dapprima probatorio (annullato dal Tribunale del riesame) e poi preventivo (oggetto di riesame e dell'odierno ricorso), censura il provvedimento impugnato affidandosi a sette motivi: 1.1. Erronea applicazione degli artt. 4 e 5 D.Lgs. n. 74 del 2000, nonché degli artt. 648 e 648-bis cod. pen., nella parte in cui si ritiene sussistente il fumus commissi delicti del reato presupposto. Si lamenta l'assenza di elementi dimostrativi, seppur a livello indiziario, che la somma sequestrata fosse provento di evasione fiscale (non essendo indicati né i soggetti persone fisiche o giuridiche che avrebbero realizzato le dichiarazioni fraudolente, né le circostanze di tempo e di luogo delle condotte anche al fine di asseverare il superamento delle soglie di punibilità in ordine all'ipotizzata dichiarazione infedele) e che la ricorrente fosse estranea alla commissione del delitto presupposto. Gli argomenti utilizzati dall'ordinanza impugnata, al pari di quelli spesi dal Gip, erano censurabili, in quanto va esclusa la legittimità del sequestro allorché il giudice si limiti semplicemente a supporre l'esistenza del delitto presupposto mediante il richiamo ad indici o elementi privi di continente specificità e/o concretezza, necessitando, invece, l'adozione del vincolo reale l'esistenza di persuasivi elementi di fatto. Del resto, a conferma dell'assoluta incertezza sull'origine della somma militava anche la correzione "del tiro" operata dal Tribunale che all'originaria ipotesi della provenienza del denaro dal delitto di dichiarazione infedele aveva "sostituito" quella dell'omessa dichiarazione e al riciclaggio quella della ricettazione. Restava, quindi, quale unico elemento di fatto il silenzio serbato dalla ricorrente in merito all'origine della somma, non idoneo ad assurgere a circostanza dimostrativa, nei termini che qui rilevano, del fumus del delitto presupposto. 1.2. Erronea applicazione dell'art. 5 D.Lgs. n. 74 del 2000, nonché degli artt. 125,309 e 324 cod. proc. pen., nella parte in cui il Tribunale del riesame muta la qualificazione del reato presupposto. Si sostiene l'inidoneità dell'opzione ermeneutica perseguita dal Tribunale del riesame che, al fine di superare le censure difensive in ordine all'assenza di qualsiasi elemento dimostrativo a sostegno dell'individuazione del delitto presupposto in quello di dichiarazione infedele (stante l'impossibilità di verificare il superamento delle soglie previste dall'art. 4) lo aveva diversamente individuato in quello di omessa dichiarazione di cui all'art. 5 D.Lgs. n. 74 del 2000, stante l'elevato importo rinvenuto in relazione alla misura stabilita che deve assumere l'imposta evasa. Difettava l'indicazione fattuale dei necessari elementi, minimi ed essenziali, dimostrativi della differente fattispecie, così risultando apparente la motivazione dell'ordinanza impugnata. Inoltre, si era posto a fondamento della cautela un fatto diverso esulando dagli ambiti cognitivi attribuiti al giudizio di riesame. 1.3. Erronea applicazione degli artt. 648 e 648-bis cod. pen., degli artt. 322 e 324 cod. proc. pen., nella parte in cui ritiene rispettato il principio della proporzionalità. 1.3.1. Si lamenta il vuoto motivazionale in ordine all'indicazione dei valori dell'evasione fiscale ipotizzata, giacché nel decreto di sequestro preventivo non vi era alcuna quantificazione del risparmio che detta evasione avrebbe generato. Il profilo di doglianza assume rilievo in quanto il profitto del delitto di cui all'art. 5 va circoscritto unicamente all'importo dell'imposta evasa e non può estendersi alle somme derivanti dalle successive operazioni di riciclaggio e/o reimpiego. Né legittimo era il riferimento alla confisca allargata al fine di superare l'obiezione difensiva, in quanto il rispetto della proporzione tra il valore dei beni sottoposti a sequestro ed il profitto o il prezzo del reato da confiscare appartiene anche a tale forma speciale di confisca, la cui verifica spetta al giudice della cognizione anche cautelare e non può essere demandata alla fase esecutiva. Né poteva farsi richiamo al disposto di cui all'art. 324, comma 7, cod. proc. pen. che preclude la revoca del sequestro preventivo nei casi di cui all'art. 240, comma 2, cod. pen. che riguarda le ipotesi di confisca diretta e non allargata. In conclusione, l'inconsistenza assoluta di qualsiasi voglia elemento in ordine al delitto presupposto del reato di riciclaggio ha impedito ai giudici della cautela di effettuare una congrua valutazione in ordine al rapporto di proporzionalità tra l'importo asseritamente evaso da soggetti terzi rimasti ignoti e quello asseritamente riciclato dall'indagata. 1.3.2. Difettava, poi, "la prova" che l'indagata abbia attuato qualunque condotta in grado di essere sussunta nell'alveo del riciclaggio, considerato che viene descritta come una mera trasportatrice di denaro di somme di denaro conseguite da altri soggetti non identificati; il mero trasporto di denaro esula dalla condotta tipica di trasferimento che deve essere intesa in senso esclusivamente giuridico di movimentazione dissimulatoria. Sicché il denaro può essere al più compreso nel novero dell'evasione fiscale del delitto presupposto, con conseguente ricadute sul piano del rispetto del principio di proporzionalità. 1.4. Erronea applicazione degli artt. 648 e 648-bis cod. pen., nella parte in cui si utilizza la mancata giustificazione del denaro contante e la discrasia tra la quantità di contante rinvenuta e i redditi dichiarati dall'indagata come elementi per dimostrare la sussistenza del fumus commissi delicti. Si censura, mediante il richiamo di ad orientamenti di legittimità, la correttezza dei riferimenti - quali circostanze idonee ad asseverare il fumus del riciclaggio - alla disponibilità di una somma di denaro rilevante, all'assenza di giustificazioni circa la sua provenienza e alla sproporzione tra il suo ammontare e i redditi dichiarati, potendosi in alternativa ipotizzare una serie di differenti causali a base della disponibilità del denaro, di cui comunque non è stata individuata la possibile provenienza delittuosa intesa come derivazione da una specifica ipotesi di reato e non anche come mera asserzione d'ingiustificato possesso. 1.5. Erronea applicazione degli artt. 240-bis, 648 e 648-bis cod. pen., nella parte utilizza la discrasia tra la quantità di contante rinvenuta e i redditi dichiarati dall'indagata come elementi per dimostrare la sussistenza del fumus commissi delicti. Si deduce l'illegittimità dell'assunto del Tribunale volto a giustificare il sequestro sulla scorta dell'incompatibilità tra il denaro sequestrato e i redditi dichiarati. Il mero riferimento ad una asserita manifesta sproporzione tra la capacità reddituale dell'indagata e la somma rinvenuta quale elemento di per sé idoneo a giustificare la confisca allargata introduce una sorta di presunzione tipica delle misure di prevenzione, trasformando i c.d. delitti spia o derivati in altrettante fattispecie di sospetto ovvero di scivolare verso la non consentita punibilità di un possesso ingiustificato di valori. 1.6. Erronea applicazione degli artt. 648 e 648-bis cod. pen., degli artt. 322 e 324 cod. proc. pen., nella parte in cui utilizza il denaro contante come elemento per dimostrare la sussistenza del fumus commissi delicti. Si sostiene l'inconferenza degli elementi evocati dal Tribunale a sostegno del fumus del delitto di ricettazione (il tentativo di furto subito dall'indagata, la mancata indicazione del soggetto a cui il denaro era destinato, l'attenzione prestata dalla ricorrente alla custodia del trolley financo all'interno del commissariato), privi della necessaria valenza di riscontri investigativi concreti. Restava, pertanto, il solo possesso del denaro, peraltro non occultato, in assenza di prova del reato presupposto o di un legame con ambienti criminali. 1.7. Erronea applicazione degli artt. 648 e 648-bis cod. pen., nonché degli artt. 125., 309 e 324 cod. proc. pen., nella parte in cui si ritengono sussistenti gli indici sulla provenienza illecita del denaro. Si censura l'assunto del Gip, condiviso dal Tribunale, laddove aveva richiamato, ai fini del fumus della ricettazione, un orientamento giurisprudenziale che valorizzando il luogo e le modalità di occultamento della somma di denaro finiva, invece, per deporre a favore della difesa posto che l'indagata - persona incensurata (è ovvio...), non aveva occultato il denaro ma lo ha riposto in un trolley che portava con sé in un luogo poco distante dalla sua abitazione, in assenza di ulteriori indici dimostrativi di una qualche connessione con attività illecita. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Il ricorso è infondato. 2. Lo scrutinio delle censure di violazione di legge dedotte dalla difesa della ricorrente in ordine alla sussistenza del fumus delicti rende necessario fare riferimento ai connotati del fatto per come accertato dai giudici di merito. Dalla lettura del provvedimento impugnato risulta che al sequestro della somma di denaro si giunse a causa di una tentata rapina che la ricorrente aveva subito mentre percorreva con il suo trolley - in cui poi è stato rinvenuto gran parte del denaro (essendo altra parte occultata in uno zainetto) - la pubblica via nei pressi della stazione termini di Roma. In particolare, per come si è ricavato dalla visione delle immagini tratte dalle telecamere di sicurezza presenti in zona, una persona si avvicinò all'indagata puntando decisamente il trolley e tentando di strapparglielo, ma non riuscendo nell'intento per la ferma opposizione della stessa, benché rovinata a terra e trascinata per qualche metro. L'aggressore, in ragione della ferma opposizione della vittima e dell'attenzione che l'azione aveva ormai destato, raggiunto da un veicolo in cui vi era un complice, si dava alla fuga. L'atteggiamento assunto dalla ricorrente, la quale ometteva di circostanziare il fatto alla p.g. che raccoglieva la denuncia, unitamente alla circostanza che non si separava mai in ogni frangente dal trolley e dallo zaino che teneva con sé, così destando chiaro sospetto circa il contenuto, induceva la p.g. - conscia anche della strenua resistenza che l'indagata aveva opposto agli aggressori - al controllo del trolley e dello zaino, al cui interno si appalesavano "svariate mazzette di banconote di vari tagli", per un totale di euro 595.900,00. Gli accertamenti di p.g. consentivano di accertare che la ricorrente non è intestataria di partita IVA, non è proprietaria di beni immobili o mobili registrati, negli ultimi tre anni ha percepito redditi assai modesti dalla sua attività lavorativa, prestata in favore di società che ha, al contempo, un volume di affari assai ridotto nel "dichiarato" settore dell'abbigliamento. Nessun elemento idoneo a giustificare il lecito possesso della somma e la sua provenienza veniva, poi, offerto dall'indagata. Dalle circostanze di fatto così descritte dal giudice del merito si è logicamente ricavato che la ricorrente svolgesse l'attività di corriere, in favore di terzi, di somme di denaro di provenienza illecita, in quanto la tentata rapina non è stata affatto casuale, considerato che le modalità del fatto denotano che ella venne "puntata" e che, dunque, era noto ai malviventi il trasporto del denaro e la sua identità. A conferma di ciò anche il comportamento tenuto dall'indagata, in quanto, seppur in ambiente protetto e sicuro, quale quello degli uffici di p.g., persisteva nel non volersi separare dal trolley e dallo zaino ove erano custodite le somme ("che in ogni occasione intendeva, nonostante fosse custodito, portalo dietro") e che aveva cercato in tutti i modi di conservare a sé pur soggetta ad una ripetuta violenta azione di sottrazione; inoltre, la reticenza manifestata nel riferire circostanze utili alle indagini, con particolare riguardo al percorso intrapreso poco prima, dimostra la chiara volontà di occultare la provenienza della somma e di celare l'identità di coloro che alla medesima l'hanno consegnata. Il fatto, poi, che si tratti di un trasporto di denaro per conto di terzi si ricava dall'esito degli accertamenti di p.g., i quali hanno concordemente escluso qualsiasi capacità reddituale dell'indagata da cui possa desumersi che la somma sia direttamente alla stessa riferibile. A conferma di ciò, l'elevato importo della somma, la suddivisione in svariate mazzette di vario taglio, l'occultamento sia nel trolley che nello zaino, le modalità del trasporto volte a rendere non tracciabile la movimentazione del denaro, lo stato di incensuratezza dell'indagata, condizione necessaria per lo svolgimento di detta attività. Alla luce di tali elementi può quindi ragionevolmente concludersi - concordemente con quanto ritenuto dal giudice della cautela - che si sia quantomeno al cospetto di una somma di denaro sottratta al Fisco, ma non di pertinenza dell'indagata, restando affidato alle indagini in corso la verifica se la condotta di trasporto si inserisca nell'ambito delle più note rotte del riciclaggio di cui si serve la criminalità organizzata. E tanto a prescindere dal rilievo delle giustificazioni rese dall'indagata circa il possesso che - come precisato - nulla hanno apportato ad un'ipotesi di lecita ricezione del compendio sequestrato. Si è quindi del tutto all'esterno del perimetro - pure utilizzato dalla difesa a sostegno delle sue doglianze - di un'ipotesi di possesso ingiustificato di valori, condotta che, come noto, dapprima sanzionata dall'art. 708 cod. pen., è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con gli artt. 3, primo comma e 27 terzo comma Cost., con sentenza della Corte costituzionale n. 370 del 1996. Anzi è proprio la lettura di tale decisione che consente di affermare come il caso in esame sia ben lungi dall'esservi compreso, non solo in termini di tipicità di fattispecie ma anche sotto il profilo dell'oggettività giuridica e delle esigenze di tutela. Nel possesso ingiustificato di valori la condotta verrebbe punita in sé, come indizio della commissione d'un illecito qualora esso risulti in connessione con determinate condizioni personali dell'agente che sono quelle stabilite dal precedente art. 707 cod. pen. espressamente richiamato (previa condanna per delitto contro il patrimonio o determinati da motivi di lucro). In mancanza di prova per fatti criminosi ipotetici, non ancora compiuti, l'imputato verrebbe punito per l'eventuale intenzione di commetterli. Nel caso in esame, invece, la materialità del fatto trascende le condizioni soggettive dell'indagata, in quanto si nutre di una convergenza di circostanze che attribuiscono alla condotta i connotati della "ricezione", quale forma di conseguimento del possesso, anche solo temporaneo, della cosa o del denaro non uti dominus, stante l'esistenza di indici fattuali altamente dimostrativi dell'esistenza di una ricezione da terzi. Del resto, alla declaratoria di incostituzionalità dell'art. 708 cod. pen. non può affatto ricondursi l'affermazione di un'ontologica indifferenza da parte dell'ordinamento nei confronti di colui che disponga di somme di denaro che, sulla scorta della concreta situazione di fatto, siano al contrario espressive di forme di arricchimento personale ottenuto mediante vie illecite e occulte eludendo i controlli legali ovvero si abbia motivo di ritenere che provengano da delitto. Anzi sono proprio le nuove forme con cui si atteggia il dinamismo criminale e la circolazione illecita del denaro che rendono irragionevole farvi fronte con una disposizione che si è rivelata del tutto marginale a contrastare le nuove dimensioni della criminalità, non più rapportabile, necessariamente, a uno "stato" o a una "condizione personale", certamente irragionevole nella sua riferibilità a coloro che sono pregiudicati "per delitti determinati da motivi di lucro e per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio". Se questo è, dunque, il contesto di fatto in relazione al quale è stato disposto il sequestro, nessuna censura di violazione di Legge può muoversi all'ordinanza impugnata per avervi ricavato gli estremi della ricettazione e per avere, allo stato, individuato il delitto presupposto in quello di evasione fiscale. Al riguardo, infatti, per quanto concerne la consistenza degli elementi indiziari posti alla base dell'applicazione di una misura cautelare, la Corte di legittimità deve limitarsi a verificare che i giudici di merito abbiano dato adeguatamente conto delle ragioni che li abbiano indotti ad affermare la gravità del quadro indiziario acquisito al procedimento cautelare e che la motivazione così fornita risulti congrua, alla stregua dei canoni della logica e dei principi di diritto che regolano la valutazione del materiale probatorio in atti (si veda, ex plurimis, Sez. 2, n. 43532 del 19/11/2021, Berati, Rv. 282308; Sez. 2, n. 20188 del 4 febbraio 2015, Charanek, Rv. 263521 - 01; Sez. 4, n. 26992 del 29 maggio 2013, Tiana, rv. 255460; in senso analogo si sono espresse altresì Sez. 4, n. 18190 del 4 aprile 2012, Marino, n. 18190, rv. 253006 e Sez. 4, n. 22500 del 3 maggio 2007, Terranova, n. 22500, rv. 237012). L'ordinanza impugnata, percome evidenziato in premessa, passa in rassegna una serie di elementi indiziari, ritenuti, nel loro complesso, idonei a far inferire la provenienza illecita del denaro trasportato dall'indagata, con un percorso logico-argomentativo che appare scevro da vizi logici e giuridici. A ciò deve aggiungersi che il Tribunale del riesame ha sottoposto al proprio attento vaglio critico gli elementi tesi ad evidenziare che le somme in discorso erano lecitamente detenute dalla ricorrente; in particolare, è stata evidenziata la non pertinenza degli elementi stessi, non essendo stata dimostrata la correlazione tra le fonti di reddito e la detenzione delle somme anzidette, nella valuta nazionale ed in contanti. D'altronde, la Corte di legittimità questa ha già avuto modo di precisare che l'accertamento del reato di ricettazione non richiede l'individuazione dell'esatta tipologia del delitto presupposto, né dei suoi autori, né dell'esatta tipologia del reato, potendo il giudice affermarne l'esistenza - come avvenuto nel caso in esame - attraverso prove logiche (si veda soprattutto Sez. 2, n. 546 del 7 gennaio 2011, Berruti, rv. 249444; Sez. 2, n. 49686 del 16 settembre 2022, Cricelli, non mass.; Sez. 2, n. 43557 del 29 settembre 2022, Bebequi, non mass.). Siffatto principio di diritto vale, a fortiori, in materia cautelare: va, infatti, tenuto conto, in questo come in analoghi casi, del contesto procedimentale di riferimento, ancora in fase embrionale - anche sotto il profilo della corretta qualificazione giuridica del reato presupposto - e della impossibilità di censurare, in questa sede, la sussistenza di vizi logici della motivazione, la quale, nel caso in esame e per quanto detto, non può ritenersi meramente apparente circa la provenienza delittuosa della somma sequestrata. Ciò posto, la doglianza avanzata dalla difesa volta ad escludere il delitto presupposto in ragione della mancata indicazione delle soglie che di punibilità coeva alle ipotesi di cui agli artt. 4 ovvero 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000, risulta del tutto impropria anche in ragione della fase cautelare, trascendendo in una richiesta di accertamento sul merito dell'azione penale che si risolve, a sua volta, in un sindacato sulla concreta fondatezza dell'accusa, estranea al perimetro demandato al giudizio di riesame (Corte cost., ord. n. 153 del 2007), dovendo piuttosto il Tribunale verificare la sussistenza del fumus commissi delieti nei termini indicati dalle Sezioni unite Bassi (sentenza n. 23 del 20 novembre 1996, dep. 1997, rv. 206657 - 01). E tanto a prescindere dall'indubbio rilievo che l'entità così elevata della somma ed il suo confezionamento già si prestano ad escludere ipotesi riconducibili nell'alveo dell'illecito amministrativo, tenuto anche conto dell'ulteriore dato, particolarmente significativo, che detta ricezione non appare affatto un episodio isolato, ma espressiva di un meccanismo a carattere ripetuto e diffuso, di cui la somma sequestrata può costituire soltanto una parte di un'evasione dai contorni ben più elevati. Il Tribunale, pertanto, risulta avere correttamente applicato il principio secondo il quale "integra il delitto di ricettazione la condotta di chi sia sorpreso nel possesso di una rilevante somma di denaro, di cui non sia in grado di fornire plausibile giustificazione, qualora, per il luogo e le modalità di occultamento della stessa, possa, anche in considerazione dei limiti normativi alla detenzione di contante, ritenersene la provenienza illecita" (Sez. 2, n. 43532 del 19/11/2021, Berati, Rv. 282308-01, in fattispecie relativa al rinvenimento della somma complessiva di oltre 153.000 euro in contanti, occultata in luoghi diversi nella disponibilità dell'imputato, privo di stabile occupazione, che non aveva saputo indicarne la provenienza; nello stesso senso, Sez. 2, n. 5616 del 15/01/2021, Grumo, Rv. 280883-02). 3. Nessuna opera di non consentita "novellazione" può, poi, ascriversi all'ordinanza impugnata per avere ricondotto il fatto nell'alveo della ricettazione, anziché del riciclaggio per come ritenuto nel provvedimento genetico del Gip, in conformità alla richiesta del pubblico ministero. Si è già osservato come in materia di riesame di un provvedimento di sequestro, il procedimento incidentale che si svolge dinanzi al Tribunale non può trasformarsi in un accertamento preventivo della sussistenza del reato che forma oggetto di accertamento del procedimento principale, per quanto il potere di riesame anche nel merito comporti la possibilità di verificare l'antigiuridicità del fatto come descritto nel provvedimento di sequestro. Sebbene tale verifica debba essere compiuta su un piano di astrattezza, nel senso, cioè, che essa non può investire la sussistenza in concreto dell'ipotesi criminosa, ma solo la configurabilità di quel fatto come reato, tale astrattezza però non limita i poteri del giudice nel senso che questi deve esclusivamente prendere atto della tesi accusatoria senza svolgere alcun'altra attività, ma determina soltanto l'impossibilità di esercitare una verifica in concreto della sua fondatezza. Alla giurisdizione compete, infatti, il potere dovere di espletare il controllo di legalità, sia pure nell'ambito delle indicazioni di fatto offerte dal pubblico ministero. L'accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti va, quindi, compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che, non possono essere censurati in punto di fatto per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di verificare se si consentono di sussumere l'ipotesi formulata in quella tipica. Pertanto, il Tribunale, seppur non deve instaurare un processo nel processo nello svolgimento dell'indispensabile ruolo di garanzia, deve considerare, anche alla luce delle contestazioni difensive, se i presupposti che legittimano il sequestro siano sussumibili nell'ambito della fattispecie contestata ovvero se, in ragione proprio di quegli elementi, sia possibile qualificare diversamente il fatto in un'altra fattispecie. Nel caso in esame, la sussunzione del fatto nell'alveo della ricettazione non consegue affatto ad un'autonome ipotesi ricostruttive operata dal Tribunale sulla base di dati di fatto diversi. Il Tribunale, pur essendo vincolato agli elementi prospettati dal pubblico ministero con la sua richiesta, conserva il potere-dovere di inquadrare autonomamente quanto sottoposto alla sua valutazione, e quindi di ritenere la disposizione incriminatrice che stimi più propria rispetto al fatto descritto; e ciò tanto più quando, come è nel caso in esame, la qualifica in termini di ricettazione dell'originaria imputazione di riciclaggio non comporta alcuna variazione del fatto storico, che resta il medesimo. Premesso che il procedimento è nella fase delle indagini, di per sé fluida perché aperta alla esatta configurazione del fatto, non è pertanto condivisibile quanto sostenuto dalla difesa, secondo cui il mutamento di "rotta" operato dal Tribunale dalla qualifica di riciclaggio a quella di ricettazione avrebbe comportato un mutamento non soltanto della qualifica, bensì pure della condotta materiale. Non lo è perché l'imputazione provvisoria di riciclaggio individua esattamente i contorni della analoga fattispecie di ricettazione, con riguardo alla condotta e alle modalità di occultamento della somma al fine di ostacolare l'identificazione della sua provenienza delittuosa, e il delitto di ricettazione identificato dal Tribunale fa leva sull'occultamento della somma di origine illecita: la sostanza valorizza in entrambi le ipotesi l'attività occultamento, descritta in termini più generali nel suo riferimento alla ricettazione, e in termini più specifici quanto al riciclaggio. D'altronde, la figura astratta del delitto di cui all'art. 648-bis cod. pen. esige un quid pluris rispetto a quella di cui all'art. 648 cod. pen., per cui ravvisare nella specie quest'ultimo - come ha fatto il Tribunale - non contraddice radicalmente quanto ipotizzato dal pubblico ministero (in termini Sez. 2, n. 5616 del 15 gennaio 2021, Grumo, Rv. 280883 - 01). 4. Anche con riguardo al periculum in mora l'ordinanza impugnata si sottrae ai paventati vizi di legittimità. Al riguardo, infatti, le censure mosse risultano tutte incentrate sulla funzione anticipatoria di confisca attribuita al sequestro, ai sensi dell'art. 321, comma 2, cod. proc. pen. Tuttavia, dalla lettura dei provvedimenti di merito si ricava come il vincolo reale sia stato apposto anche per impedire la prosecuzione delle condotte illecite ed evitare l'aggravamento delle ulteriori conseguenze, per come si ricava dall'espressa motivazione resa dal Gip (v. pag. 3) che fa anche menzione della disposizione (art. 321, comma 1, cod. proc. pen.) che disciplina il sequestro c.d. impeditivo, nonché dal rinvio operato dall'ordinanza impugnata nella parte dedicata alla sussistenza del periculum in mora "nei termini indicati dal primo giudice ai quali ci si riporta..", v. pag. 11). Si tratta di conclusione del tutto logica e aderente alla situazione di fatto descritta dal giudice del merito, ove il possesso della somma era destinato all'ulteriore circolazione in aderenza con gli obiettivi illeciti perseguiti che avevano dato luogo al trasporto e al ruolo svolto dall'indagata, descritto quale non occasionale corriere. Rispetto a tale tema le doglianze mosse col ricorso risultano del tutto generiche. Con la conseguenza che non si appalesa necessario l'esame delle ulteriori doglianze attinenti a tema non affatto decisivo ai fini del mantenimento del vincolo reale. 5. In conclusione, il ricorso va rigettato. Consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso, il 23 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2024.
bottom of page