Decreto sicurezza: un’orgia di nuovi reati e carcere (alla faccia di Papa Francesco)
- Avvocato Del Giudice
- 25 apr
- Tempo di lettura: 2 min
Simbolismi penali, messianismo securitario e necrosi del principio di legalità

Il decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48, si presenta come l’ennesima pantomima repressiva in abito governativo: testo torrenziale, un coacervo di norme spurie, talora irrilevanti, spesso incostituzionali, talvolta semplicemente grottesche. S’invoca l’urgenza ex art. 77 Cost., ma il fine è un altro: occupare la scena con il clangore simbolico della pena, inquinando l’ecologia della legalità penale.
Nel merito, l’inventiva legislativa sfiora il parossismo: nuovi reati (art. 270-quinquies.3 c.p., icastico esempio di “doppione a funzione scenica”), aggravanti buone per tutte le stagioni (art. 61 n. 11-decies), introduzione dell’occupazione abusiva come crimine da codice rosso (art. 634-bis), pene raddoppiate in nome della pubblica esemplarità.
Un’opera di cesello penale alla cieca, dove il principio di offensività è un relitto e la proporzione sanzionatoria, un concetto rimosso.
L’incriminazione dell’accattonaggio (art. 600-octies), portata ora a vette da codice Rocco, è sintomatica: si punisce la miseria, si custodisce il decoro. È l’ordine pubblico nella forma liturgica della condanna.
Il diritto penale come teatro
Si direbbe un’offensiva normativa contro la marginalità e il dissenso. Il legislatore maneggia la custodia cautelare come un collare penale e innalza barriere ostative alla rieducazione, segno dell’idiosincrasia verso l’art. 27, co. 3 Cost.
Le modifiche al differimento pena per le madri (artt. 146-147 c.p.) hanno il sapore acre dell’intimidazione travestita da razionalità emergenziale.
È un diritto penale che non previene, non risocializza, non protegge: mostra. Mette in scena la punizione, secondo una liturgia messianico-securitaria che si nutre d’immaginario carcerario e pulsioni retributive.
Il collasso penitenziario
Nel frattempo, i numeri inchiodano la politica alla sua colpa storica: 90 suicidi nel 2024, 28 già nei primi tre mesi del 2025.
Il sistema implode, ma si progettano moduli detentivi prefabbricati, cioè contenitori di sofferenza ad alta densità umana, senza cura né finalità trattamentale.
L’umanità detentiva – parola che farebbe tremare Papa Francesco – è ridotta a scoria sociale.
Una realtà dove oltre il 10% dei detenuti ha diagnosi psichiatriche gravi, un altro 20% è farmacodipendente da ansiolitici e stabilizzanti, mentre i “liberi sospesi” attendono misure alternative che non arrivano mai. L’Italia è già sotto condanna CEDU (ancora): ma il decreto ignora, persiste, affonda.
Il Parlamento aggirato, il principio di legalità umiliato
L’uso del decreto-legge in materia penale è – e resta – una barbarie giuridica. S’insinua nel cuore del diritto punitivo, aggirando la forma parlamentare e la dialettica pubblica.
Non è uno strappo isolato: è il metodo.
Il Parlamento discute, il Governo decreta. Il diritto, intanto, si piega a strategia comunicativa. Nulla si fa per prevenire i reati, tutto per raccontare la pena.
L’astensione come legittima difesa
Di fronte a questo scempio della ragione giuridica, l’astensione dell’Unione delle Camere Penali per i giorni 5, 6 e 7 maggio 2025 è atto di igiene costituzionale. Una difesa estrema, residuale, ma necessaria. Il diritto – prima che punire – deve pensare. E qui si smette di pensare per bastonare.
La “sicurezza”, così come concepita, è un mantra spoglio di contenuti: non protegge i cittadini, alimenta soltanto l’illusione di uno Stato che funziona punendo.
Ma la pena, come ci ricorda il magistero di Francesco, non è vendetta. È responsabilità. È misura. È umanità.
In questo decreto, la giustizia non si vede. Si vede solo il suo doppio mostruoso.