di Stefania Riccio
IL TRAFFICO DI INFLUENZE: LA PROBLEMATICA NOZIONE DELLA MEDIAZIONE ILLECITA ED I RAPPORTI CON LE FIGURE CRIMINOSE CONTIGUE.
SOMMARIO:
1. La nozione di mediazione illecita
A pochi anni di vita dalla sua introduzione, avvenuta con legge 6 novembre 2012, n. 190, e sebbene in parte riscritta dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3, la fattispecie incriminatrice del traffico di influenze ha evidenziato non pochi aspetti di complessità interpretativa. L’art. 346-bis cod. pen. delinea, allo stato, due condotte tra loro alternative, che differiscono in ordine al profilo giustificativo della promessa/dazione del compratore di influenze. Nella prima ipotesi (mediazione c.d. onerosa) l’erogazione indebita costituisce il corrispettivo della mediazione illecita e vale a remunerare lo stesso trafficante. Nella seconda (mediazione c.d. gratuita) la corresponsione è effettuata all’intermediario affinché questi, a sua volta, remuneri il pubblico agente in relazione all’esercizio delle sue funzioni o poteri. L’utilitas promessa o erogata dal “cliente” costituisce il prezzo che l’intermediario dovrà versare al pubblico agente per ottenere uno specifico atto dell’ufficio, al fine di “asservirlo” stabilmente, o semplicemente per instaurare una relazione privilegiata per il futuro. Nell’ambito della descritta struttura bipolare (in cui onerosità e gratuità vengono declinate dalla prospettiva del trader), la novella del 2019 ha poi ulteriormente riconfigurato la fattispecie, espandendone l’area applicativa. Basti pensare che, se, nel testo previgente, il prezzo della mediazione, a prescindere dalla natura onerosa o gratuita del traffico, doveva comunque essere finalizzato all’ottenimento di un atto antidoveroso - identificabile nel compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio ovvero nella omissione o nel ritardo di un atto dell’ufficio – e tale previsione aveva una innegabile funzione selettiva, nel nuovo paradigma tale proiezione finalistica realizza un’aggravante, enunciata nel comma 4, parte seconda, dell’art. 346-bis cod. pen. Ciò in coerenza con la nuova struttura della norma che, come si intuisce dall’ampliamento della clausola di illiceità speciale, realizza un presidio di tutela anticipata per ogni tipo di corruzione, anche di tipo funzionale (connotata, questa, dalla dematerializzazione dell’atto). Ebbene, a fronte di una fattispecie così ridisegnata, uno snodo irrisolto era costituito dalla previsione del requisito di illiceità speciale costituito dalla illiceità della mediazione c.d. onerosa, requisito di illiceità che non è peraltro l’unico, essendo stabilito, altresì, che l’erogazione, nelle forme della dazione o promessa del danaro o di altra utilità, avvenga “indebitamente”. Sez. 6, n. 40518 del 08/07/2021, Alemanno, Rv. 282119, ha messo a fuoco il sintagma “mediazione illecita” – già al centro delle riflessioni della dottrina, per la sua ambiguità semantica – e lo ha fatto muovendo dal presupposto che l’illiceità riferita alla mediazione non possa essere svalutata, come se si trattasse di un predicato meramente pleonastico. Con attenta opera ricostruttiva, in via preliminare la Corte ha individuato il nucleo dell’antigiuridicità penale della fattispecie non tanto nello sfruttamento (effettivo o meramente asserito) di relazioni con il pubblico agente (che costituisce piuttosto il mezzo attraverso il quale il trafficante consegue la dazione o promessa), quanto nella “influenza illecita” esercitata sull’attività della pubblica amministrazione o sui soggetti istituzionali evocati dalla norma. In particolare, attraverso l’equiparazione, in termini sanzionatori, della intermediazione finalizzata alla corruzione del pubblico agente e della mediazione “illecita”, il legislatore ha voluto porre l’accento tonico sulla proiezione finalistica della condotta, la quale deve essere orientata, in ogni caso, alla commissione di un illecito. Detto altrimenti, la prestazione di una interferenza illecita deve costituire l’oggetto del sinallagma tra le parti (le quali, nell’attuale assetto, rispondono entrambe, data la struttura bilaterale del reato). Le difficoltà per l’interprete derivano, e ne è consapevole la Corte, dall’assenza di una disciplina extrapenale del lobbying, inteso quale rappresentanza di interessi particolari presso decisori pubblici che, in altre moderne democrazie pluralistiche, costituisce pratica fisiologica e positivizzata2 . L’interesse per il tema è accentuato, come messo in evidenza da acuta dottrina, dall’emersione di sempre più numerosi e potenti centri di interesse, che operano quali corpi intermedi tra i singoli cittadini e i decisori pubblici, ad integrare un modello dinamico di democrazia rappresentativa, ovvero un «modello di democrazia ’ragionevole’ (di ispirazione anglosassone) dove, circolarmente, partiti, interessi settoriali e verità parziali ( ... ) si confrontano e si scontrano fra loro, offrendo al decisore pubblico un ventaglio di opzioni da portare a sintesi in nome dell’interesse generale». Consapevole, si diceva, della mancanza di un sostrato di disciplina del lobbysmo che certamente avrebbe agevolato il compito ricostruttivo, la sentenza Alemanno evidenzia come il deficit di determinatezza derivante dalla tecnica di formulazione dell’art. 346-bis cod. pen. rechi in sé il rischio di attrarre nell’area di rilevanza penale “a discapito del principio di legalità, le più svariate forme di relazioni con la pubblica amministrazione, connotate anche solo da opacità o scarsa trasparenza, ovvero quel “sottobosco” di contatti informali o di aderenze difficilmente catalogabili in termini oggettivi e spesso neppure patologici, quanto all’interesse perseguito”. Di qui la necessità di preferire una ermeneusi che riduca il più possibile quanto di ambiguo vi è nel testo della norma, per ancorarsi ad elementi certi. Su questa base metodologica, si è ritenuto che l’unica lettura che consenta di soddisfare l’istanza di tassatività è, allo stato, quella che valorizza il fine cui la mediazione è preordinata, sicché la mediazione intanto può dirsi illecita in quanto sia finalizzata alla commissione di un “fatto di reato” idoneo a produrre vantaggi per il privato committente. Una tale prospettiva, di tipo teleologico, appare coerente con le istanze di tutela che avevano ispirato l’introduzione del reato di cui all’art. 346-bis cod. pen., su impulso delle fonti pattizie sovranazionali (art. 12 della Convenzione di Strasburgo del 1999, ratificata dall’Italia con legge 28 giugno 2012, n. 118 e art. 18 della Convenzione di Merida del 2003, ratificata con legge 3 agosto 2009, n. 116). In particolare, con la criminalizzazione del traffico di influenze si sono voluti perseguire accordi prodromici ai reati di corruzione - secondo una tecnica di anticipazione della tutela dei valori di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione - aventi ad oggetto le illecite influenze su un pubblico agente, al punto che si è parlato in dottrina di un “microsistema scalare a lesività crescente”, disegnato dalla disciplina riformata dei reati contro la pubblica amministrazione, in cui si collocano, nell’ordine, i reati di traffico di influenze, di corruzione per l’esercizio della funzione e di corruzione propria. Ancora, nel delimitare il reato dalle fattispecie contigue, la Corte si muove lungo la direttrice tracciata da Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, (dep. 2020), Bolla, Rv. 279555, la quale aveva già individuato, quale limite negativo del traffico, l’assenza di un’effettiva corruzione dei soggetti pubblici con i quali il mediatore svolge l’attività di mediazione; e ciò in quanto la clausola di esclusione espressa con cui la norma esordisce, ampliata dall’intervento di riforma più recente, esige che non vi sia concorso in alcuna delle fattispecie corruttive indicate dalla stessa norma. Qualora il pagamento indebito programmato andasse a buon fine, si realizzerebbe, difatti, un concorso trilaterale in corruzione tra gli aderenti al patto d’influenza e il pubblico ufficiale indebitamente remunerato. Sez. 6, n. 1182 del 14/10/21 (dep. 2022), Guarnieri, Rv. 282453, ragionando nella medesima prospettiva, sostiene che non può costituire oggetto di incriminazione il contratto di mediazione di per sé, diversamente ponendosi la fattispecie incriminatrice in attrito con i principi, oltre che di tipicità, di materialità del fatto e di offensività. Il mero sfruttamento di una relazione personale – effettiva o potenziale - tra il trafficante e il pubblico agente-bersaglio non può invero assumere rilevanza penale quando le parti aspirino al conseguimento di un obiettivo lecito, che sia solo propiziato dall’intervento del tradens. Del resto, che la connotazione di illiceità della mediazione non possa identificarsi nella difformità dal tipo legale, id est nella illegittimità del negozio, è impostazione coerente con la condivisa interpretazione per la quale la figura di mediazione evocata dalla norma incriminatrice non si identifica esclusivamente con il contratto tipico disciplinato dagli artt. 1754 e ss. cod. civ., dovendo ritenersi incluso nella previsione anche quel sistema di relazioni informali riferibili alle figure di facilitatori, faccendieri o, genericamente, procacciatori d’affari, che sfuggono ad una precisa classificazione ed alla riconduzione nel detto schema giuridico civilistico. Anche la sentenza Guarnieri correla l’illiceità della mediazione onerosa allo “scopo”, dell’attività d’influenza. La mediazione si connota come illecita se la volontà delle parti è orientata alla commissione di un reato potenzialmente foriero di vantaggi per il compratore di influenze, di modo che essa possa ritenersi espressione della intenzione di inquinare l’esercizio della funzione del pubblico agente, di condizionarlo, di alterare la comparazione degli interessi; di compromettere, in altri termini, l’uso stesso della discrezionalità. La pronuncia in rassegna analizza, altresì, il profilo processuale dell’accertamento della illiceità, evidenziando come il quantum dimostrativo richiesto sia diversamente modulato a seconda dello stato in cui il procedimento si trova. Potranno assumere rilievo, a tali fini, «le aspettative specifiche del committente, cioè il movente della condotta del privato compratore, il senso, la portata ed il tempo della pretesa di questi, la condotta in concreto che il mediatore assume di dover compiere con il pubblico agente, il rapporto di proporzione tra il prezzo della mediazione ed il risultato che si intende perseguire, i profili relativi alla illegittimità negoziale del contratto».
2. La mediazione qualificata
Nella ipotesi, aggravata rispetto a quella base, in cui protagonista del traffico di influenze illecite risulta essere, in funzione di trader, un pubblico agente, si è in presenza di una mediazione qualificata. La sentenza Alemanno ha esplorato tale peculiare ipotesi di reato, avuto riguardo al caso scrutinato, in cui un sindaco si adoperava in favore di privati, onde far ottenere alle cooperative facenti capo a questi ultimi il pagamento in via preferenziale, da parte di pubblici funzionari, di crediti pregressi, in violazione della normativa che regola i pagamenti della pubblica amministrazione. Dunque, una interferenza volta ad ottenere un trattamento di favore ed implicante, in prospettiva, la commissione di fatti di abuso di ufficio. Ebbene, in una tale evenienza non è necessario individuare il risultato illecito che le parti intendevano perseguire, dal momento che la mediazione è di per sé contra legem. Tanto si è affermato sul presupposto che la vendita da parte di un pubblico agente del suo potere di influenza su altri pubblici agenti costituisca un atto – in ogni caso - contrario ai doveri di ufficio e quindi bastevole ad integrare il disvalore penale della condotta. Anche in relazione a questa tipologia di mediazione si pongono esigenze – che sono anzi ancor più stringenti - di perimetrazione della fattispecie, imposte, come detto, dall’ampia clausola di riserva di cui all’art. 346-bis cod. pen. Di qui la necessità che la condotta del trafficante, affinché non sia punibile a titolo di corruzione, non concreti l’uso di poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell’agente. In ciò la Corte riecheggia il principio già univocamente affermato in precedenti arresti della stessa Sesta Sezione, in virtù del quale non sussiste il delitto di corruzione passiva se l’intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell’accordo con il privato non comporta l’attivazione di poteri istituzionali che sono propri del suo ufficio o non sia in qualche maniera a questi ricollegabile, e invece sia destinato a incidere nella sfera di attribuzioni di pubblici ufficiali terzi (Sez. 6, n. 23355 del 26/02/2016, Margiotta, Rv. 267060; Sez. 6, n. 38762 del 08/03/2012, D’Alfonso, Rv. 253371); terzi rispetto ai quali l’agente deve, dunque, essere carente di potere funzionale ed operare, dunque, come extraneus.
3. Traffico di influenze e millantato credito
La novella n. 3 del 2019 ha abrogato la figura del millantato credito e ridisegnato lo spazio applicativo del traffico di influenza, delineando un’area di possibile interferenza/ sovrapposizione, tra le relative fattispecie incriminatrici. Viene in rilievo il tema della successione tra le indicate norme, su cui sta prendendo corpo un contrasto di orientamenti nella giurisprudenza di legittimità.
3.1. La tesi della continuità normativa
Secondo una prima opzione interpretativa, sussiste continuità normativa tra il reato di millanteria formalmente abrogato e quello di traffico di influenze, atteso che in quest’ultima fattispecie risulta attualmente ricompresa anche la condotta di chi, vantando un’influenza - meramente asserita - presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si faccia dare denaro ovvero altra utilità per remunerare il pubblico agente (Sez. 6, n. 1869 del 07/10/2020, dep. 2021, Gangi, Rv. 280348; ricollegandosi a Sez. 6, n. 4113 del 14/12/2016, dep. 2017, Rigano, Rv. 269735 e in continuità con Sez. 6, n. 17980 del 14/03/2019, Nigro, Rv. 275730. Nello stesso senso Sez. 1, n. 23877 del 05/05/2021, Abbondandolo, Rv. 281614). In una tale direzione orienta la genesi della norma. Se, in primo tempo, il “millantare credito” era stato interpretato esclusivamente come vanteria di un’influenza inesistente, successivamente, avuto riguardo al bene interesse tutelato dall’art. 346 cod. pen. – costituito dal prestigio della pubblica amministrazione e non invece dal patrimonio del solvens - si era ritenuto che ad integrare il reato rilevasse anche solo il vanto dell’influenza sul pubblico ufficiale; una tale prospettazione, quali che fossero i rapporti effettivamente intrattenuti con esso dall’agente, offende in ogni caso l’immagine della pubblica amministrazione (v. ex plurimis, Sez. 6, n. 16255 del 04/03/2003, Pirosu, Rv. 224872; Sez. 6, n. 13479, del 17/03/2010, D’Alessio, Rv. 246734). È esistita, dunque, una figura di millantato credito, di matrice giurisprudenziale, che ha costituito l’antesignano dell’art. 346-bis cod. pen. Proprio alla luce di tale ermeneusi e tenuto conto delle indicazioni evincibili dalla Relazione alla novella del 2019, che ha dichiaratamente perseguito una abrogatio sine abolitione – con indicazione non vincolante per l’interprete, ma che non può essere ignorata in presenza di un testo normativo con essa obiettivamente compatibile - si è affermata la tesi della continuità normativa tra l’ipotesi prevista dall’art. 346, comma secondo, cod. pen. ed il rinovellato art. 346-bis cod. pen. Depone nella stessa direzione la comparazione tra gli elementi di struttura delle fattispecie incriminatrici. Difatti, salvo che: a) per la previsione della punibilità del c.d. compratore di fumo, ossia del soggetto il quale intenda trarre vantaggi da tale influenza, ai sensi del comma secondo del novellato art. 346-bis cod. pen. (non contenuta nella pregressa ipotesi di millantato credito, nell’ambito della quale questi assumeva, al contrario, la veste di danneggiato dal reato); b) per la non perfetta coincidenza fra le figure-bersaglio, verso le quali la millanteria poteva essere espletata (il “pubblico ufficiale” e l’”impiegato che presti un pubblico servizio”, nell’abrogato art. 346 cod. pen.; il “pubblico ufficiale” e l’ “incaricato di un pubblico servizio”, quanto a quest’ultimo a prescindere dall’esistenza di un rapporto impiegatizio, nell’attuale art. 346-bis cod. pen. ); ossia per profili nel complesso esterni al nucleo della incriminazione, il cui disvalore rimane invariato, quel che rileva è la sostanziale sovrapponibilità sia della condotta strumentale (stante l’equipollenza semantica fra le espressioni “sfruttando o vantando relazioni (...) asserite” e “millantando credito”) dei due reati, sia della condotta “principale”, consistente nella ricezione o promessa, per sé o per altri, di denaro o altra utilità. In questa linea ricostruttiva, la più recente Sez. 6, n. 35581 del 12/05/2021, Grasso, Rv. 281996, ha evidenziato, a favore della tesi della continuità, che la fattispecie di cui all’art. 346-bis cod. pen. è stata introdotta per estendere l’area della rilevanza penale, senza alcun intento selettivo rispetto alle situazioni già sanzionate, ma per ampliarne, semmai, lo spazio, risultando indubbiamente funzionale a tale fine la valorizzazione nel tessuto normativo del fine cui la condotta è orientata.
Sez. 1, n. 23877 del 05/05/2021, Abbondandolo, Rv. 281614, aderendo alla impostazione che individua un rapporto di successione tra le due norme incriminatrici, ha diffusamente argomentato che non vi è ragione di accedere a letture restrittive dell’inciso “relazioni... asserite”, poiché sarebbe in tal modo svilito il significato della contrapposizione che si rinviene nella disposizione di cui all’art. 346-bis cod. pen., tra dette relazioni e le “relazioni esistenti”. “Asserite” sono dunque le relazioni fatte oggetto di vanteria senza un minimo dato di realtà, cioè quelle inesistenti, e la loro spendita è tratto di condotta che ben può assorbire il richiamo, operato dalla norma abrogata, al “pretesto” di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale, perché in ambedue i casi si prescinde dall’ancoraggio della condotta ad un dato preesistente, ossia ad una relazione effettivamente in essere col pubblico ufficiale. Né può dirsi che, così interpretato il sintagma “relazioni...asserite”, la norma incriminatrice non sia più funzionale alla protezione del bene giuridico cui è preordinata, atteso che anche gli accordi conclusi non già all’insaputa di un pubblico ufficiale ignaro, bensì in mancanza di una qualche relazione di conoscenza con chi assicura di poter intervenire in modo da incidere sulle sue determinazioni, costituiscono un pericoloso, ancorché eventuale, antecedente delle più gravi condotte corruttive e meritano pertanto la stessa considerazione, in via di anticipazione della soglia di punibilità. Si è osservato, nelle diverse pronunce citate, che ove si sostenesse che la condotta già incriminata dall’art. 346, comma secondo, cod. pen. debba invece refluire nella norma-rete della truffa - come vedremo essere sostenuto da coloro che negano la continuità normativa tra le fattispecie in comparazione – sarebbe ribaltata, sul piano assiologico, la voluntas legis, posto che la millanteria sarebbe punita meno gravemente rispetto a quanto sarebbe avvenuto nella vigenza dell’art. 346 cod. pen. ed anche della condotta di cui all’art. 346-bis cod. pen. per l’ipotesi della remunerazione del mediatore, che, invece, dal previgente art. 346 (primo comma) era sanzionata meno gravemente e, dunque, ritenuta espressiva di un minor disvalore penale. Peraltro, non può non tenersi conto della diversità di oggetto della tutela penale, che nella truffa è il patrimonio e nel millantato credito esclusivamente il prestigio della pubblica amministrazione (Sez. 6, n. 17642 del 19/02/2003, Di Maio ed altro, Rv. 227138); motivo, questo, per il quale si era in passato ipotizzato il concorso tra i due reati (Sez. 6, n. 9470 del 05/11/2009, dep. 2010, Sighinolfi, Rv. 246399), alla condizione che alla millanteria si accompagnasse un’ulteriore attività ingannatoria, costituita, ad esempio, dalla predisposizione di atti falsi (Sez. 6, n. 9960 del 28/12/2016 (dep. 2017), Grasso, Rv. 269755); lì dove il concorso tra le dette fattispecie incriminatrici è stato più di recente ritenuto non configurabile da Sez. 6, n. 35581 del 12/05/2021, Grasso, Rv. 281996, determinandosi l’assorbimento della truffa nel traffico nell’ipotesi in cui la mendace prospettazione da parte del trader, al privato interessato, di un futuro vantaggio e della necessità, a tal fine, di remunerare sé stesso od un ipotetico pubblico agente, sia vestita da ulteriori comportamenti decettivi. Alla tesi contraria alla continuità normativa osterebbe, infine, un dato incontrovertibile, costituito dalla sottoposizione a pena, ai sensi dell’art. 346-bis, del “compratore di fumo”, il quale sia altresì vittima dell’ipotizzata truffa; e ciò perché non appare logicamente concepibile, anche sul piano della conseguente responsabilità civile, l’attribuzione al medesimo soggetto di un ruolo ancipite, di correo e di vittima, in rapporto alla medesima condotta.
3.2. La tesi della discontinuità
La configurabilità del reato di truffa. In antitesi al descritto indirizzo, ve ne è un altro che esclude che il rapporto tra le fattispecie in rassegna si atteggi in termini di continuità, in quanto in quella di traffico di influenze non è compresa la condotta di chi, mediante raggiri o artifici, riceve o si fa dare o promettere danaro o altra utilità, col pretesto di dovere comprare il pubblico ufficiale o impiegato o doverlo comunque remunerare. Tale condotta integrerebbe, al contrario, il reato di truffa di cui all’art. 640, comma 1, cod. pen. (Sez. 6 n. 5221 del 18/09/2019, (dep. 2020), Impeduglia, Rv. 278451; Sez. 6, n. 28657 del 02/02/2021, Lepore, Rv. 281980). La chiave ermeneutica di tale impostazione sta nella individuazione dell’ipotesi di cui all’art. 346, comma secondo, cod. pen. quale fattispecie autonoma rispetto a quella del primo comma, basata sulla millanteria, espressione avente «un vasto orizzonte di significati, tale da accogliere, come è stato osservato, non solo il mendacio, ma anche la semplice magnificazione ovvero l’accentuazione di un dato tuttavia reale e dunque insuscettibile di rientrare nel tipo criminoso della truffa » (Sez. 6, Lepore, cit. ); ciò che conduce ad affermare che la fattispecie di cui al secondo comma era ricalcata sul paradigma della truffa, con cui vi era una chiara assonanza di contenuti. Il riferimento espresso al “pretesto”, contenuto nella norma abrogata, evocava difatti una componente fraudolenta, ossia la prospettazione di una falsa causa della corresponsione del danaro o della utilità di portata decettiva, tale da indurre in errore la vittima e determinarla alla prestazione patrimoniale; sicché la mancata riproposizione del detto termine, ovvero di altro avente significato equipollente, non può che essere letto quale segno di discontinuità. Si è sostenuto, al riguardo, che è solo quando il rapporto tra il mediatore ed il pubblico agente sia effettivamente esistente o, quantomeno, potenzialmente suscettibile di instaurarsi, che i beni giuridici tutelati dalla norma - imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa, legislativa o giudiziaria - sono suscettibili di lesione ed ha senso la strutturazione della fattispecie incriminatrice quale reato necessariamente plurisoggettivo, con la previsione di un omogeneo trattamento sanzionatorio per tutti i partecipanti al patto. Al contrario, non si spiegherebbe perché il privato che dà o promette denaro o utilità al “venditore di fumo” solo perché indotto in errore per effetto della condotta ingannatoria di questi, debba essere considerato compartecipe dell’accordo criminoso. Del resto, ciò che assume rilevanza nella complessiva dinamica dell’operazione – si sostiene – è la tutela degli interessi patrimoniali accordata dalla norma al truffato. Conclusivamente, al riguardo, la pronuncia in rasserigna argomenta che il sintagma “relazioni asserite” non possa essere dilatato fino a farvi rientrare le condotte ingannevoli, poiché, diversamente, residuerebbero dubbi di legittimità costituzionale sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzione, nel punire con la stessa pena colui che paga in quanto ingannato e colui che paga essendo certo dell’esistenza di una relazione tra il mediatore ed il pubblico agente.
Indice delle sentenze citate
Sentenze della Corte di Cassazione: Sez. 6, n. 17642 del 19/02/2003, Di Maio ed altro, Rv. 227138 Sez. 6, n. 16255 del 04/03/2003, Pirosu, Rv. 224872 Sez. 6, n. 9470 del 05/11/2009 (dep. 2010), Sighinolfi, Rv. 246399 Sez. 6, n. 13479, del 17/03/2010, D’Alessio, Rv. 246734 Sez. 6, n. 38762 del 08/03/2012, D’Alfonso, Rv. 253371 Sez. 6, n. 23355 del 26/02/2016, Margiotta, Rv. 267060 Sez. 6, n. 4113 del 14/12/2016, dep. 2017, Rigano, Rv. 269735 Sez. 6, n. 17980 del 14/03/2019, Nigro, Rv. 275730 Sez. 6 n. 5221 del 18/09/2019, (dep. 2020), Impeduglia, Rv. 278451 Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, Bolla, Rv. 279555 Sez. 6, n. 1869 del 07/10/2020, dep. 2021, Gangi, Rv. 280348 Sez. 6, n. 28657 del 02/02/2021, Lepore, Rv. 281980 Sez. 1, n. 23877 del 05/05/2021, Abbondandolo, Rv. 281614 Sez. 6, n. 35581 del 12/05/2021, Grasso, Rv. 281996 Sez. 6, n. 26437 del 08/06/2021, Casanova, Rv. 281583 Sez. 6, n. 40518 del 08/07/2021, Alemanno, Rv. 282119 Sez. 6, n. 1182 del 14/10/21 (dep. 2022), Guarnieri, Rv. 282453 Sez. 6, n. 9960 del 28/12/2016 (dep. 2017), Grasso, Rv. 269755