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Abuso d'ufficio: continua a rilevare la condotta realizzata con violazione dell'obbligo d'astensione


Corte di Cassazione

La massima

In tema di abuso di ufficio, la novella di cui al d.l. 16 luglio 2020, n. 76 , conv., con modif., dalla l. 11 settembre 2020, n. 120 , lì dove ha ristretto l'ambito applicativo del reato, richiedendo l'inosservanza di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, non riguarda la condotta di abuso che si realizza mediante la violazione dell'obbligo di astensione.


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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 08/01/2021 , n. 7007

RITENUTO IN FATTO

1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte di appello di Ancona, in parziale accoglimento dell'appello del Pubblico Ministero, ha riformato la sentenza di assoluzione emessa in data 2 dicembre 2016 dal Tribunale di Urbino nei confronti di B.N. e condannato il ricorrente alla pena di Euro 3.750,00 di multa in sostituzione della pena detentiva di giorni quindici di reclusione per il reato previsto dagli artt. 81 e 319-quater, comma 2, c.p. (ascritto al capo 3), inoltre, in parziale accoglimento dell'appello proposto da M.P., ha assolto il predetto ricorrente dai reati ascrittigli ai capi d), f), g), perché il fatto non sussiste e rideterminato la pena in anni uno e mesi quattro di reclusione per le residue imputazioni di cui ai capi c), e) ed h) per le quali era intervenuta condanna in primo grado, oltre a rimodulare la pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata della pena principale, con i doppi benefici di legge nei confronti di M. e della sola non menzione nei confronti di B.; nonché con la conferma della condanna di M. al risarcimento dei danni in favore della parte civile Agenzia dell'Entrate, liquidati nell'importo che veniva ridotto ad Euro 15 mila, oltre spese ed accessori di legge.


Nel corso del giudizio di primo grado, l'imputato B. era stato assolto dall'unica imputazione ascrittagli di cui al capo)), per il reato di induzione indebita, nel ruolo di soggetto indotto, collegato all'induzione ascritta al capo c) nei confronti del M., nella qualità di pubblico ufficiale, con abuso dei poteri di capo ufficio della Direzione Provinciale dell'Agenzia dell'Entrate di Pesaro e Urbino.


In particolare, il Tribunale di Urbino aveva condannato il M. per avere indotto B., quale legale rappresentante della (OMISSIS) S.r.l. di (OMISSIS), a procurargli delle utilità, consistite nella concessione di sconti sugli acquisti di capi di abbigliamento, informandolo di avere fatto transitare la sua azienda in coda alla lista dei controlli tributari e prospettandogli così la soggezione a future attività ispettive, mentre aveva assolto il B. perché il fatto non costituisce reato, ritenendo non provato che "il piano messo in atto da M. nelle verifiche e nei controlli all'Agenzia dell'Entrate relativamente all'(OMISSIS) fosse stato portato a conoscenza di B....".


La Corte di appello, ritenendo contraddittorie le due pronunce, dopo aver confermato la condanna di M., aveva riformato l'assoluzione di B. condannandolo per il predetto reato, senza procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, sul rilievo che il ribaltamento della decisione non era dipeso da una diversa valutazione di prove dichiarative, ma essenzialmente da una diversa lettura delle intercettazioni telefoniche.


Nei confronti di M., la Corte di appello aveva riformato la sentenza di primo grado assolvendo l'imputato da plurime imputazioni per reati di corruzione propria, abuso di ufficio e induzione indebita, sempre commessi avvalendosi dei poteri della sua qualità di capo ufficio della Direzione Provinciale dell'Agenzia dell'Entrate, ma aveva confermato la condanna per la vicenda dell'induzione indebita operata nei confronti dell'(OMISSIS) di B.N., di cui si é detto, ascritta al capo c), nonché , per il reato di corruzione previsto dall'art. 318 c.p. ascritto al capo e), per avere adottato atti di annullamento e riduzione delle contestazioni tributarie nei confronti di B.G. e della di lui moglie, in cambio di sconti per un acquisto di un capo di pelletteria presso il punto vendita della (OMISSIS) S.r.l. di cui il B. era il legale rappresentante, ed infine, per il reato di abuso di ufficio di cui all'art. 323 c.p., ascritto al capo h), per avere procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale all'Associazione Sportiva dilettantesca Urbino Calcio, consistito nel formulare e sottoscrivere un accertamento con adesione basato su false scritture private al fine di consentire alla predetta associazione di non perdere le agevolazioni fiscali per l'anno 2007, in violazione degli obblighi di imparzialità e trasparenza, essendo legato da rapporti di amicizia e frequentazione con il presidente di detta associazione, P.M..


2. Tramite il proprio difensore di fiducia, M.P. ha proposto ricorso, articolando i motivi di seguito indicati.


2.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione agli artt. 266,267 e 271 c.p.p., con riguardo alle intercettazioni telefoniche utilizzate ai fini della condanna, e in relazione all'art. 125 c.p.p., per motivazione apparente del decreto del G.i.p. del Tribunale di Urbino emesso in data 14 giugno 2013.


Si reitera la questione già dedotta, sia in primo grado che nei motivi di appello, concernente l'utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, perché autorizzate in assenza dei gravi indizi di reato come si evince dal decreto di convalida emesso dal G.i.p. in data 14 giugno 2013, di cui si riporta l'integrale testo nel corpo del motivo, e dal decreto di proroga del 28 giugno 2013, a nulla rilevando che i successivi decreti di proroga, a partire dal 16 luglio 2013 richiamino altri titoli di reato, essendo le conversazioni rilevanti ai fini della decisione solo quelle anteriori a quella data (fino all'11 luglio 2013).


Si osserva che con riguardo al reato di cui all'art. 490 c.p., posto a fondamento del decreto di convalida del G.i.p., non emergevano né i gravi indizi richiesti dall'art. 267 c.p.p., in particolare rispetto all'occultamento di atti pubblici che solo avrebbe consentito di rispettare i limiti edittali di pena previsti dall'art. 266 c.p.p., per autorizzare le intercettazioni, e né l'assoluta indispensabilità delle intercettazioni per il prosieguo delle indagini.


La motivazione del decreto era stata censurata per la sua contraddittorietà, per avere nello stesso tempo ravvisato la gravità degli indizi e giustificato l'indispensabilità delle intercettazioni sul presupposto della necessità di accertare se l'inerzia dell'Agenzia fosse dovuta a mera negligenza o alla finalità di avvantaggiare illegittimamente la (OMISSIS) S.p.a., mentre sarebbe stato senz'altro possibile procedere piuttosto ad una perquisizione delle abitazioni e degli uffici per verificare se la documentazione fosse mai stata occultata.


Si censura, inoltre, la motivazione con cui la Corte di appello ha rigettato l'eccezione ritenendo sussistente la gravità indiziaria sulla base di una sorta di riforma in pejus della decisione del G.i.p. che pure aveva, invece, evidenziato l'incertezza tra l'alternativa del rifiuto doloso e quello colposo, valorizzando la prolungata e totale inerzia dell'ufficio compulsato dalla Procura della Repubblica e l'esistenza di una interlocuzione in data 22 aprile 2013 tra B. ((OMISSIS)) e l'A.E. - documentata dal deposito di due memorie della (OMISSIS) - che legittimava la convinzione che ci potesse essere stata l'adozione di provvedimenti formali della Agenzia stessa, sottratti alla richiesta della Procura inquirente.


2.2. Sempre nel contesto del primo motivo si introduce un sotto-motivo relativo alla ritenuta illogicità della motivazione basata sul travisamento delle conversazioni telefoniche. Si osserva che in ragione del ribaltamento dell'assoluzione di B. in condanna, la motivazione sul punto comune ad entrambe le imputazioni sub c) e j) doveva presentare il carattere di motivazione rafforzata.


In particolare, l'affermazione della responsabilità di entrambi gli imputati é stata basata sul contenuto di una singola conversazione del 26 giugno 2013, nel corso della quale M. anticipava al B. che il giorno dopo si sarebbe recato al punto vendita per acquistare un particolare modello di giacca e per poi anche dirgli "una cosetta".


La interpretazione del messaggio implicito nella telefonata argomentata sulla base di altra intercettazione del 27 giugno 2013, ovvero del giorno dopo, in cui M. riferisce al collega Me., amico di B., che ne avrebbe parlato o lui o lo stesso Me. con B. ("della cosetta"), é il frutto di un travisamento, perché non tiene conto della frase conclusiva, omessa nella trascrizione della conversazione riportata nella motivazione della sentenza di appello, con cui il Me. aveva tranquillizzato il M. dicendo che ne avrebbe parlato lui con il B. ( D.: "non ti preoccupare, poi se mai, avrò modo io").


Inoltre, anche travisato sarebbe stato il riferimento alle ragioni per le quali il M. si sarebbe recato il giorno dopo e non dopo una settimana come concordato con il B. presso il suo punto vendita, inteso dal giudice di merito come espressione della finalità di approfittare subito della favorevole condizione dettata dai tempi del favore tributario, mentre al contrario dipendeva dall'occasione di un viaggio a (OMISSIS) per comprare una cinta, come si evince dalla intercettazione della conversazione intercorsa il 26 giugno 2013 tra M. ed una sua amica ( L.), alla quale riferiva dell'acquisto della giacca presso il negozio di B. al prezzo di favore di soli cinquanta Euro.


Si denuncia, poi, il vizio della motivazione in relazione alla manifestata anticipazione del proposito criminoso, senza alcun accertamento in punto di fermezza e irrevocabilità dello stesso sotto il profilo che le risultanze istruttorie desunte dalle intercettazioni, relative alla modestia del valore commerciale della giacca di 129 Euro, e la incertezza sulla comunicazione al B. della ipotetica programmata induzione, avrebbero dovuto far sorgere un dubbio sulla persistenza di quella risoluzione criminosa, nel senso che dato il modesto vantaggio economico non si sarebbe più concretizzata.


2.3. Violazione di legge e vizio della motivazione per avere individuato nella presunta indebita induzione la causa del profitto, benché conforme anche alle incontroverse politiche promozionali dell'azienda, considerato che il M. si é limitato ad acquistare una sola giacca con uno sconto di circa 50 Euro, del tutto compatibile con gli sconti praticati a parenti, amici, e clienti da fidelizzare, senza che rilevi la previsione che anche i figli circa due settimane dopo si sarebbero recati presso lo spesso punto vendita.


Sarebbe stato, poi, travisato il riferimento alla qualità di dirigente dell'Agenzia dell'Entrate che doveva, invece, intendersi solo indicativa della propria presentazione quale "amico di D.", ossia di Me., amico comune di entrambi, e non come prospettazione della propria posizione di supremazia, tenuto conto del tono confidenziale con cui il B. ha risposto alla chiamata con un saluto informale.


2.4. Violazione di legge e vizio della motivazione in merito al corretto accertamento del carattere non veritiero dell'arretramento dell'azienda di B. nella lista dei controlli tributari programmati, senza però trarne la giusta conseguenza anche in ordine alla mancata prova della comunicazione di detta circostanza al B..


Inoltre, si assume che il carattere non veritiero della esclusione della ditta del B. dalla programmazione delle ispezioni renda ancora meno plausibile che "la cosetta" accennata il giorno prima a B. sia stata poi necessariamente ripetuta al suo cospetto al momento dell'acquisto della giacca.


2.5. Mancanza di motivazione in ordine alla condotta induttiva tenuta in concreto dall'imputato. In particolare, si rileva che non risultano elementi certi dell'incontro di M. con B. in occasione dell'acquisto della giacca, non risulta cosa in concreto si siano detti, e non si può escludere che il B., consapevole della propria correttezza sul piano tributario, abbia accordato lo sconto solo per pura prassi commerciale.


2.6. Violazione di legge e vizio della motivazione in merito al capo e) relativo alla corruzione impropria per l'annullamento degli accertamenti tributari nei confronti di B. e della moglie C.A., operati in cambio di utilità costituite da acquisiti operati presso il negozio di proprietà dei B., in particolare dalla consegna gratuita di due cinture in pelle.


In particolare, si denuncia il vizio di motivazione per contraddittorietà in merito al nesso eziologico ravvisato tra il regalo delle due cinture e gli atti favorevoli adottati dal M., che aveva avocato a sé le relative pratiche, procedendo personalmente a disporre la riduzione dell'accertamento per la moglie e l'annullamento per B., desunto dalla contiguità temporale dei diversi eventi, atteso che il 4 luglio 2013 si verificava il regalo, e il provvedimento favorevole era stato adottato il 3 luglio 2013.


La contraddittorietà si ravvisa tra la ritenuta legittimità della procedura con cui il capo ufficio ha disposto l'avocazione degli accertamenti tributari sottraendoli ai diversi funzionari cui erano stati assegnati e la sua valorizzazione come elemento dimostrativo dell'accordo corruttivo.


2.7. Violazione di legge e vizio della motivazione in merito alla affermata rilevanza dell'assenza di rapporti di amicizia tra il B. e l'imputato che non può ritenersi sufficiente a su p.re il ragionevole dubbio che la ragione del regalo delle due cinte fosse da ricercare nell'accordo corruttivo.


2.8. Vizio della motivazione in merito al travisamento del contenuto delle intercettazioni con riguardo alla circostanza che il B. avrebbe manifestato al M. l'esistenza di un suo debito nei confronti del M. ancora prima che quest'ultimo annunciasse il suo arrivo presso il suo negozio per portargli i documenti relativi all'esito della pratica tributaria da lui trattata.


Secondo il ricorrente nella telefonata intercorsa il 3 luglio 2013 tra M. e B., quest'ultimo non ha mai detto o fatto intendere di dovere qualcosa all'imputato.


2.9. Vizio della motivazione in merito al travisamento del contenuto delle intercettazioni relative alle conversazioni intercorse con l'amica L., da cui si evincerebbe che l'acquisto delle cinture rispondeva ad una necessità del M. manifestata già nella conversazione n. omissis del 27 giugno 2013 e quindi al di fuori di un accordo corruttivo con B., mentre la conversazione n. 597 del 4 luglio 2013, in cui i due parlano di una cintura che il M. poteva acquistare anche per l'amica L., dovendosi recare presso la pelletteria di B., non contiene riferimenti a possibili regali.


2.10. Violazione di legge in riferimento all'art. 318 c.p., ed al D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, art. 4, in relazione alla possibilità di ritenere la dazione delle due cinture una regalia d'uso di mordico valore ai sensi dell'art. 4, del codice di comportamento dei dipendenti pubblici.


Si osserva che la predetta disposizione legittima regali di modico valore "effettuati nell'ambito delle normali relazioni di cortesia e nell'ambito delle consuetudini internazionali".


Tali usi non sono necessariamente correlati a particolari ricorrenze festive ma possono anche rientrarvi gli omaggi o sconti praticati da parte dei commercianti per fidelizzare i propri clienti, oltre a essere in linea con la giurisprudenza che già sotto il vigore della precedente disciplina penalistica della corruzione richiedeva che vi fosse una proporzionalità tra il vantaggio conseguito dal corruttore e l'utilità offerta al corrotto, per la necessaria sussistenza del carattere retributivo dell'atto di ufficio.


2.11. Vizio di motivazione in relazione al modesto valore dell'utilità in rapporto alla ritenuta ridotta valenza del favore ricevuto, essendo in contraddizione con la ritenuta rilevanza del vantaggio conseguito dai coniugi B..


2.12. Con riferimento al reato di abuso di ufficio sub h), relativo al vantaggio arrecato al presidente dell'associazione dilettantistica (OMISSIS), si denuncia vizio della motivazione in merito al travisamento della deposizione del teste B. che non ha riferito di avere ricevuto indebite pressioni dal M. perché riconoscesse alla (OMISSIS) il regime delle agevolazioni fiscali, ma solo per trovare delle soluzioni favorevoli della questione della eccessiva tassazione delle associazioni sportive non professionistiche.


2.13. Vizio della motivazione in merito alla ritenuta consapevolezza da parte del M. della falsità della documentazione prodotta dal P., perché basata su mere illazioni, non essendovi prova che il M., che non ha seguito personalmente la pratica, abbia visionato detta documentazione e neppure che il funzionario addetto ( B.) ne avesse avuto contezza al tempo in cui ha sottoscritto l'accertamento che ha riconosciuto la validità dei rimborsi spese, la cui falsità é emersa solo successivamente, a seguito delle indagini svolte dalla G.d.F..


Vi sarebbe stato, quindi, travisamento della deposizione testimoniale resa dal B. nella parte in cui in sentenza si é affermato che il predetto funzionario, se non fosse stato pressato da M., non avrebbe mai riconosciuto come valida quella documentazione, avendo in realtà espresso solo un proprio personale disappunto, ispirato dal "senno di poi".


Ulteriore dimostrazione della forzatura interpretativa seguita dalla Corte di appello sarebbe data dalla lettura della conversazione intercettata il 26 giugno 2013 in cui M. parlando con l'amica L. riferisce di documentazione falsa relativa ad una associazione calcio non specificata, priva quindi di correlazione certa con la vicenda della associazione (OMISSIS).


Infine, si argomenta diffusamente che non é neppure stato accertato che la documentazione riferita all'anno 2007 sia falsa solo perché é stata accertata la falsità di quella relativa agli anni seguenti.


2.14. Violazione di legge e vizio della motivazione in merito alla ritenuta sussistenza del dolo intenzionale, desunto da una intercettazione del 17 luglio 2013 n. omissis in cui M. parlando un anno dopo i fatti con S.C. faceva riferimento a P.M. come persona che poteva aiutare il figlio per opportunità di lavoro e di studio, senza considerare che il rapporto di amicizia esisteva tra il figlio del ricorrente, M.M., e P.M., emergendo dagli atti che aveva frequentato come geologo il suo studio come tirocinante e quindi non avrebbe avuto bisogno dell'intervento del padre per chiedere un aiuto professionale.


2.15. In data 16 dicembre 2020 gli avv.ti Valentini e Gusmitta, difensori di M., hanno depositato motivi aggiunti con riferimento al predetto capo di imputazione, evidenziando che a seguito della riforma dell'art. 323 c.p., con la novella del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, il reato di abuso di ufficio non é più configurabile ove non risulti accertata la violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero la violazione dell'obbligo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti.


Si obietta che la violazione di legge contestata all'imputato era imperniata sulla violazione dei principi di trasparenza ed imparzialità del procedimento amministrativo di cui alla L. n. 241 del 1990, e del codice di comportamento dei dipendenti della P.A. di cui al D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, per il dovere di astenersi dalla trattazione della pratica in ragione degli stretti rapporti di amicizia con P.M..


Si evidenzia la natura di norma non primaria per le disposizioni del codice di comportamento e la natura non vincolante dei contenuti del principio di imparzialità e trasparenza.


Mentre con riguardo all'obbligo di astensione la Corte di appello ne avrebbe escluso la ricorrenza a pag. 85 della sentenza.


2.16. Violazione di legge e vizio della motivazione in merito al trattamento sanzionatorio. Il computo é errato perché si indica in due mesi l'aumento per ognuno dei reati satellite (capi c e h), ma si applica un aumento di mesi 6 anziché di 4 mesi.


2.17. Violazione di legge e vizio della motivazione in ordine al diniego dell'attenuante dell'art. 323 bis c.p., sul rilievo che la Corte di appello nel valutare il complessivo atteggiamento tenuto dall'imputato ha valorizzato aspetti delle condotte desunti dalle ipotesi di reato per le quali l'imputato é stato assolto.


Infine, si rimarca il fatto che il profitto per gli unici reati per i quali é intervenuta condanna ammonta a 50 Euro per il capo c), a 100 Euro al massimo per l'omaggio delle due cinture di cui al capo e), mentre per l'abuso di cui al capo h) il fine non era quello di un arricchimento personale ma di sottrarre l'associazione dilettantistica (OMISSIS) ad una sproporzionata tassazione.


2.18. Violazione di legge e vizio della motivazione in ordine al diniego dell'attenuante della particolare tenuità del danno/lucro patrimoniale di cui all'art. 62 c.p., n. 4.


2.19. Violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla liquidazione del danno seppure ridotto in appello a Euro 15.000,00 per riferimento al danno all'immagine per la risonanza mediatica della vicenda riferita alle imputazioni iniziali poi limitate a tre episodi commessi nell'arco di quindici giorni.


3. Tramite il proprio difensore di fiducia, B.N. ha proposto ricorso, articolando i motivi di seguito indicati.


3.1. Con il primo motivo dopo un'ampia premessa in cui si ripercorrono le decisioni emesse dal Tribunale di Urbino che aveva assolto l'imputato dall'imputazione ascrittagli al capo j) e dalla Corte di appello che ha invece riformato l'assoluzione in condanna, deduce violazione della legge processuale in relazione all'art. 521 c.p.p., per immutazione del fatto, avendo la Corte di appello pronunciato condanna sebbene avesse correttamente rilevato l'assenza di prova della traslazione di (OMISSIS) S.r.l. nell'elenco delle società da assoggettare a verifica fiscale nell'anno 2013.


In particolare, la Corte di appello, nel ravvisare l'abuso di potere nella forma dell'inganno, inteso come prospettazione di possibili interventi nell'elenco suddetto per il prossimo futuro, avrebbe operato una non consentita modifica del fatto contestato all'imputato, leso nel suo diritto di difendersi dalle nuove e diverse accuse, ovvero di avere praticato degli sconti perché ingannato dal M. sulla traslazione in realtà mai avvenuta.


3.2. Con il secondo motivo si denuncia il vizio di violazione di legge e di motivazione illogica in relazione all'art. 319 quater c.p., sotto diversi profili fattuali.


Sotto un primo profilo si censura la erroneità della valutazione della strumentale rappresentazione della propria qualifica istituzionale da parte del M., tratta da una conversazione telefonica (n. 348 del 26/06/2013) in cui il M. dopo aver indicato effettivamente la propria qualifica nel presentarsi al B. che non conosceva personalmente, aggiunge anche di essere "un amico di D.".


Il tono informale della conversazione é stato erroneamente sottovalutato dalla Corte essendo indice, invece, della prevalente spendita della posizione di amico di D. che non di quella strumentale della carica rivestita in seno all'agenzia dell'Entrate.


Sotto altri profili si censurano come illogiche le valutazioni o p.te in merito alle ragioni per cui si é ritenuto che Me. non abbia poi potuto parlare a B. avvisandolo dell'arrivo in negozio del suo amico M. per "trattarlo bene", ovvero come un amico.


Poi si censura la valenza indiziaria che é stata attribuita alle due conversazioni telefoniche (la n. 348 del 26 giugno 2013 tra M. e B.; e la n. 363 del 27 giugno 2013 tra M. e Me.) circa il significato della frase in cui il M., dopo aver parlato della sua ricerca di una giacca da uomo della sua taglia, riferisce al B. di "una cosetta" da raccontargli di persona, non meglio chiarita ma che si assume poteva essergli stata già accennata da D., e rispetto alla quale si accordano per parlarne non appena avranno modo di incontrarsi ("ti devo pure raccontare una cosetta...se te lo ha detto D.").


Secondo il ricorrente la sequenza temporale delle due conversazioni dimostrerebbe che la "cosetta" non poteva essere riferita alla "traslazione" della ditta di B., perché nella prima conversazione del 26 giugno il M. accennava alla possibilità che anche D. avrebbe potuto informarlo, quindi sul presupposto che Me.Da. ne era stato già portato a conoscenza, laddove tale informazione il M. fornisce al Me. nella conversazione successiva del 27 giugno.


Vi sono, poi, ulteriori considerazioni sulla illogicità dell'affermazione della Corte di appello che avrebbe escluso in base ad una mera presunzione che il M., pur dopo aver comunicato al Me. la notizia della traslazione in fondo alla lista della ditta di B., sebbene tale notizia fosse pure risultata non vera nel senso che la ditta non era stata rimossa indebitamente ma più semplicemente non era stata inserita in detta lista - non possa avere desistito dal portare a compimento il proprio piano criminoso.


Al riguardo si evidenzia che non essendovi prove dirette del dialogo intervenuto il giorno dopo tra M. e B., in occasione dell'acquisto della giacca al prezzo scontato, ed in considerazione della risposta data dal Me. secondo cui una eventuale ispezione la ditta di B. "non facendo nero" avrebbe comportato solo una perdita di tempo, e dell'ulteriore precisazione del Me. che sarebbe stato eventualmente sua cura informarne il B., ne risulta evidente l'illogicità della presunzione che la richiesta di sconto sia stata effettivamente condizionata da tale informazione che potrebbe, invece, non essere più stata utilizzata, trattandosi di uno sconto che era in linea con la politica aziendale di fidelizzare i nuovi clienti con sconti maggiorati.


3.3. Con il terzo e quarto motivo denuncia violazione di legge in merito alla fattispecie di reato prevista dall'art. 319 quater c.p., per la carenza di motivazione con cui la Corte perviene all'affermazione secondo cui il B. avrebbe operato lo sconto perché mosso dallo scopo di soddisfare un proprio personale tornaconto.


Il ricorrente, dopo aver illustrato gli approdi giurisprudenziali in merito alle differenze che distinguono la concussione coercitiva dalla nuova fattispecie dell'induzione indebita, con ampi richiami della sentenza Maldera delle Sezioni Unite del 24 ottobre 2013, si sofferma in particolare ad esaminare i casi definiti borderline in cui la distinzione tra offerta e minaccia appare più sfumata, e, ritiene di poter includere in tale area grigia anche il caso in esame.


In tal senso, viene operata una analisi del contenuto della conversazione intercorsa tra M. e B., per evidenziare quei profili fattuali che depongono per un inquadramento della vicenda più nello schema della concussione coercitiva che in quello dell'induzione.


Si sottolinea, comunque, che tale verifica é stata del tutto omessa dalla Corte di appello che in modo superficiale e semplicistico ha ritenuto di escludere che la dazione dell'utilità possa essere stata condizionata più che dalla prospettiva di un vantaggio indebito, da quella di subire un ingiusto danno, attraverso una attività ispettiva svolta con modalità arbitrarie ed illegittime.


Nell'ambito del quarto motivo si specifica anche il profilo dell'omessa motivazione in ordine alla percezione soggettiva da parte del B. dell'esatto significato della condotta di M., potendosi registrare delle asimmetrie nella percezione da parte dell'extraneus del tipo di condotta posta in essere dal pubblico ufficiale, ed essendo in tali casi necessaria una indagine approfondita del registro comunicativo per ritenere che il vantaggio indebito abbia prevalso sull'aspetto intimidatorio.


3.4. Violazione di legge in merito alla mancanza di motivazione in ordine all'applicazione della causa di non punibilità per tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis c.p..


Si osserva al riguardo che dalla motivazione della sentenza impugnata emergono indici obiettivi della tenuità del fatto, tenuto conto delle riconosciute attenuanti generiche e della disposta conversione in pena pecuniaria della pena minima di giorni quindici di reclusione. Inoltre si rappresenta che la questione non é stata dedotta in appello, essendo stato l'imputato assolto in primo grado.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi di M.P. e B.N. con riferimento al reato di cui all'art. 319 quater c.p., loro ascritto, per il M. al capo c), e per il B. al capo j), sono nel loro complesso infondati, mentre risultano fondati, nei limiti e per le ragioni che si andranno ora ad esporre, i motivi di ricorso del M. con riferimento al reato di cui all'art. 318 c.p., ascritto al capo e), nonché in riferimento al reato di cui all'art. 323 c.p., ascritto al capo h).


Onde evitare ripetizioni di argomenti e reiterazioni di richiami che appesantirebbero la stesura del presente provvedimento, si ritiene necessario procedere ad una trattazione congiunta dei motivi proposti dai due ricorrenti con riferimento al reato di induzione indebita a dare o promettere utilità, con riferimento ai profili in fatto e di diritto che presuppongono l'analisi delle medesime questioni, senza tuttavia trascurare di evidenziare le specificità correlate anche alla diversa posizione sostanziale rivestita dai due imputati, l'uno chiamato a rispondere nella veste di pubblico ufficiale, quale autore dell'induzione, e l'altro nella veste di soggetto passivo dell'induzione, quale indotto.


Prima di tutto devono, però, essere analizzate le questioni di carattere strettamente processuale, che sono state dedotte dai ricorrenti nei rispettivi primi motivi di ricorso, e che riguardano per M. l'utilizzabilità delle intercettazioni e per il B. la nullità per immutazione del fatto rispetto all'imputazione formulata nella contestazione del pubblico ministero.


Verranno, poi, esaminati gli altri motivi specifici del ricorso di M. che investono le imputazioni al medesimo ascritte per i reati di abuso di ufficio (capo h) e di corruzione per l'esercizio della funzione (capo e), nonché , da ultimo, il motivo che investe la questione della causa di non punibilità dedotta nel ricorso di B..


In via preliminare, va anche considerato che tutti i reati per i quali é intervenuta condanna non risultano al momento prescritti, tenuto conto del tempo in cui sono stati commessi - 11/07/2013-23/07/2013 capi c) e j); il 25/06/2013 capo h); il 4/07/2013 capo e) - ed in considerazione della sospensione della decorrenza del termine di prescrizione nel corso del giudizio di appello per effetto dell'ordinanza di rinvio dell'udienza del 17 dicembre 2018 disposta per l'adesione dei difensori dei due imputati, B. e M., all'astensione dalle udienze proclamata per quella data dagli organismi rappresentativi dell'Avvocatura, fino alla successiva udienza del 5 maggio 2019, senza il limite dei sessanta giorni da applicare nelle altre ipotesi di differimento disposto su istanza difensiva ai sensi dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 3).


2. Come già esposto nella descrizione del primo motivo di ricorso di M. la questione della inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche é stata articolata sulla base della carenza di motivazione del decreto del G.i.p. del Tribunale di Urbino emesso in data 14 giugno 2013 in merito ai presupposti dei gravi indizi del reato di cui all'art. 490 c.p., posto a fondamento del decreto di convalida del G.i.p., e dell'assoluta indispensabilità delle intercettazioni per il prosieguo delle indagini, richiesti dall'art. 267 c.p.p..


Le doglianze difensive non possono condividersi.


Sul piano generale, si deve premettere che secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 19388 del 26/02/2018, Rv. 273311 - 01), il sindacato del giudice di legittimità nell'esame delle questioni processuali comprende il potere di esaminare gli atti per verificare l'integrazione della violazione denunziata, ma non anche quello di interpretare in modo diverso, rispetto alla valutazione del giudice di merito, i fatti storici posti a base della questione, se non nei limiti del rilievo della mancanza o manifesta illogicità della motivazione.


Ciò rende evidente la infondatezza delle censure del ricorrente che pur adducendo il vizio di manifesta illogicità, in realtà operano una diversa valutazione di merito degli elementi di fatto che sono stati posti a fondamento del presupposto della gravità indiziaria.


Le considerazioni sulla scarsa valenza delle omissioni rilevate nella condotta del responsabile dell'Agenzia dell'Entrate valorizzate dal G.i.p. per ritenere altamente plausibile l'ipotesi di reato posta a fondamento della disposta convalida del decreto del Pubblico Ministero di autorizzazione delle intercettazioni telefoniche, non possono essere in questa sede riproposte, perché presuppongono una rivisitazione della questione sulla base di argomenti logici che non dimostrano affatto la carenza di valutazione del presupposto dei gravi indizi da parte del giudice di merito, ma solo una diversa ricostruzione della vicenda, peraltro anche fortemente agevolata dall'apporto conoscitivo offerto dalle ulteriori acquisizioni probatorie difensive successive alla emissione del provvedimento autorizzativo.


Vero é che il reato di cui all'art. 490 c.p., é stato poi ritenuto insussistente dal Giudice dell'udienza preliminare - che ha emesso una sentenza di proscioglimento in relazione a tale capo di imputazione, per essere risultata infondata l'accusa di occultamento di atti pubblici di pertinenza dell'Agenzia dell'Entrate -, ma si tratta di valutazioni intervenute in momenti diversi, sulla base di nuove emergenze acquisite dopo convalida dell'intercettazione, e quindi non rilevanti per censurare la valutazione della gravità indiziaria, sotto il profilo della illogicità manifesta della motivazione.


Quanto, poi, al presupposto dell'indispensabilità del mezzo di indagine delle intercettazioni, si tratta anche questa di una valutazione che in sede di legittimità può essere sindacata solo per vagliare la manifesta illogicità della motivazione.


Restano, quindi, fuori da questo sindacato gli apprezzamenti che investono la valutazione delle scelte investigative condizionate dalla situazione del momento in cui sono state adottate, come nella fattispecie in esame, in cui anche l'inerzia da parte dei responsabili degli uffici tributari, ingenerando l'idea di una volontà di intralciare le indagini in corso su reati tributari, che apparivano di particolare gravità in relazione agli importi dell'evasione denunciata per diverse decine di milioni di Euro, potevano in quella particolare fase iniziale delle indagini fare apparire come indispensabile il ricorso a tale mezzo di investigazione.


3. Manifestamente infondato é il primo dei motivi di ricorso presentati nell'interesse del B., a proposito dell'eccezione di nullità della sentenza per immutazione del fatto, a seguito della differente ricostruzione dell'abuso di potere nella forma dell'inganno.


Si deve ricordare che in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, il mutamento del fatto non consentito é solo quello che si risolve in un vero stravolgimento dei termini dell'accusa a fronte del quale si verifica un reale pregiudizio dei diritti di difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).


Nel caso di specie il nucleo dell'imputazione, incentrato sull'abuso delle qualità e dei poteri di M.P. derivanti dalla spendita della investitura pubblica di capo dell'ufficio controlli della direzione provinciale di Pesaro dell'Agenzia dell'Entrate, così come descritto nel capo di imputazione, non é stato affatto stravolto dalla ricostruzione fattuale emersa all'esito del processo.


Il riferimento nella contestazione formulata dal Pubblico Ministero all'informazione sull'illecita traslazione della ditta del B. in fondo alla lista dei soggetti selezionati per le prossime attività ispettive dell'ufficio ("dopo aver informato il B. di aver fatto illecitamente transitare la (OMISSIS) S.r.l. in fondo alla lista (...) palesandogli per tal modo la soggezione della società a possibili future attività ispettive..."), non implica affatto che detta informazione dovesse essere veritiera, perché ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 319-quater c.p. rileva solo la strumentalizzazione del ruolo pubblico rivestivo al fine di conseguire l'indebita utilità, indipendentemente dalla veridicità dell'informazione utilizzata per l'induzione.


La comunicazione in sé dell'informazione riservata é la parte essenziale dell'abuso induttivo contestato, mentre la veridicità del contenuto dell'informazione é un dato esterno al nucleo dell'imputazione, anche perché del tutto irrilevante rispetto all'abuso che si correla principalmente all'indebito atteggiamento di favore palesato in vista delle future attività ispettive.


Va detto, inoltre, che il reato di induzione non é escluso ove l'abuso di potere sia connotato dall'impiego di metodi di persuasione basati sull'inganno, ed anche per questa ragione eventuali difformità su detti profili della condotta del pubblico ufficiale non potrebbero comportare una immutazione del fatto tale da integrare una ipotesi di nullità ai sensi dell'art. 522 c.p.p..


Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti, la prospettazione ingannevole di un indebito favoritismo da parte del pubblico ufficiale, che dispone effettivamente del relativo potere, al privato che aderisce alla richiesta di utilità, senza che il favore sia poi realmente fatto, integra il reato di cui all'art. 319 quater, con conseguente incriminazione anche dell'indotto, e non integra la truffa, perché si tratta di una dazione indebita correlata alla prospettiva di un vantaggio ingiusto, perché il privato che offre o promette l'utilità é consapevole di non essere tenuto a farlo, quindi si presta a corrispondere l'utilità non perché ingannato sulla debenza della stessa, ma perché confida in un personale indebito vantaggio (Sez. U n. 12228 del 24/10/2013, Maldera, Rv. 258470; Sez. 6, n. 53436 del 6/10/2016, Vecchio, Rv. 268792).


4. Come già anticipato, la gran parte dei motivi dei due ricorrenti che investono il reato di cui all'art. 319 quater c.p., involge le medesime questioni che attengono essenzialmente ad una pretesa illogicità manifesta della motivazione basata sul travisamento delle conversazioni telefoniche.


Tutte le doglianze difensive sono infondate.


Innanzitutto, deve escludersi la fondatezza dei rilievi sulla necessità e la mancanza di una motivazione rafforzata in ragione del ribaltamento dell'assoluzione di B. in condanna, dedotto peraltro dal solo M., con riferimento all'accertamento della sussistenza della condotta induttiva dal lato del soggetto indotto.


Al riguardo si deve osservare che la riforma della sentenza di assoluzione emessa nei confronti di B. é la conseguenza di una rivalutazione nel giudizio di appello del medesimo compendio probatorio, costituito essenzialmente dalle risultanze di una sequenza di conversazioni telefoniche intercettate, che nella motivazione del giudizio di primo grado erano state valutate in modo palesemente contraddittorio rispetto alla posizione del soggetto indotto, dopo che si era invece dato atto del loro inequivocabile significato rispetto alla ricostruzione del medesimo fatto storico, ma ai soli fini della valutazione della condotta del soggetto autore dell'induzione.


Ne derivava il paradosso, correttamente evidenziato dal giudice dell'appello, che l'induzione accertata dal lato attivo del soggetto pubblico era stata illogicamente ritenuta dubbia ed incerta da lato del soggetto indotto.


A fronte della intrinseca debolezza sullo specifico punto della motivazione della sentenza del giudice di primo grado, la motivazione della sentenza di appello, invece, dopo aver dato atto di tale contraddizione, ha comunque operato una rivalutazione del contenuto delle conversazioni, fornendo una interpretazione coerente della loro rilevanza probatoria rispetto all'identico profilo fattuale relativo all'accertamento della condotta di induzione, che per ovvie ragioni di coerenza, non tollera letture diversificate a seconda che siano riferite all'indotto o all'induttore.


Sebbene costituisca ius receptum nella giurisprudenza di legittimità che il delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui all'art. 319 quater c.p., non integri un reato necessariamente bilaterale, in quanto le condotte del soggetto pubblico che induce e del privato indotto conservano una loro autonomia, tanto da ritenersi configurabile il reato anche nella forma tentata (Sez. 6, n. 46071 del 22/07/2015, Scarcella, Rv. 265351; Sez. 6, n. 6846 del 12/01/2016, Farina, Rv. 265901; Sez. 6, n. 6846 del 12/01/2016, Farina, Rv. 265901), tuttavia, una asimmetria tra le condotte dell'induttore e dell'indotto può registrarsi solo nel caso in cui l'evento non si verifichi per la resistenza opposta dal privato alle illecite pressioni del pubblico agente, ma non anche nel caso in cui l'induzione sia consumata, presupponendo la consumazione del reato necessariamente l'adesione del soggetto indotto alla richiesta formulata dal pubblico ufficiale.


Né tale asimmetria potrebbe portare ad una diversificazione della qualificazione delle condotte dei due predetti soggetti, come implicitamente suggerito nel ricorso di B., ovvero nel senso della compatibilità di una concussione coercitiva dal lato del soggetto privato, quindi come vittima non punibile di un delitto di concussione, e nel contempo di un abuso per induzione dal lato del pubblico agente, l'unico a risponderne penalmente.


Ma anche a prescindere da detto profilo, le doglianze mosse dal ricorrente B. in punto di qualificazione giuridica della fattispecie (punto 3.3. del ritenuto in fatto) non possono essere condivise.


E' evidente che i reati di concussione e di induzione non possano strutturalmente coesistere, atteso che la valutazione della condotta abusiva é necessariamente unitaria, poiché al concussore della fattispecie prevista dall'art. 317 c.p., deve corrispondere dal lato passivo quella tipica del concusso, mentre all'induttore di cui all'art. 319 quater c.p.p., deve corrispondere dal lato passivo quella altrettanto tipica dell'indotto.


Occorre precisare che il ricorrente contesta l'inquadramento giuridico della fattispecie muovendo dalla premessa, ovviamente opposta a quella del ricorrente M., che potrebbe non esservi stata da parte del B. una adesione mossa dalla prospettiva di ottenere un indebito vantaggio, quanto piuttosto da quella di subire un ingiusto danno, attraverso la minaccia implicita di una attività ispettiva svolta con modalità arbitrarie ed illegittime.


Appare evidente la infondatezza di siffatte considerazioni, che impropriamente richiamano quella classe di comportamenti abusanti dell'agente pubblico, definiti come la "zona grigia", in cui la distinzione tra offerta e minaccia appare più sfumata, e, che secondo le Sezioni Unite del 24 ottobre 2013, Maldera, impongono una complessa e meticolosa analisi da parte dell'interprete al fine di stabilire quale sia il carattere prevalente nella fattispecie concreta, e quale quello recessivo, ai fini del corretto inquadramento nell'una o nell'altra ipotesi di reato.


Ma nella vicenda in esame non é vi alcuno spazio per configurare una fattispecie intermedia, del tipo misto o ambivalente tra le due tipologie di abuso, per la carenza totale di quegli indici fattuali specifici dell'abuso costrittivo che pongano il privato nella condizione di cedere alla richiesta per il timore di possibili ritorsioni antigiuridiche.


La contestualizzazione della vicenda in esame non giustifica alcuna ambiguità di questo tipo, in cui la chiara natura amichevole e di favore dell'atteggiamento assunto da parte del soggetto pubblico non consente di fare rientrare il caso in esame nella c.d. "zona grigia" delle condotte ambigue, suscettibili di essere intese come prospettazione implicita da parte del pubblico agente di un danno generico, che il destinatario, anche solo per autosuggestione, può caricare di significati negativi, paventando di potere subire un'oggettiva ingiustizia, così giustificandosi l'inquadramento nel reato di concussione.


Pertanto, la mancata analisi di tale aspetto non può essere considerata come un vizio della motivazione della sentenza impugnata, non emergendo affatto nella vicenda, così come contestualizzata concordemente nei due gradi del giudizio di merito, alcuna ambiguità nella condotta del soggetto pubblico, che nel suo concreto atteggiarsi non si presta ad incertezze interpretative, nel senso che appare chiaro, sul piano probatorio, il carattere persuasivo e non coercitivo che l'abuso del pubblico agente ha cagionato nella fattispecie in esame sulla libertà di autodeterminazione della controparte.


In altri termini, nulla depone per una ricostruzione nel senso che il M. possa aver minacciato il B. di un danno ingiusto, pur generico.


Piuttosto é palese che il suo comportamento fosse diretto a beneficiare il privato con la prospettiva di non subire a breve ispezioni, con l'ulteriore implicita offerta di favorirlo attraverso ispezioni precedute da una preavvisata intesa.


5. Con riguardo alle altre censure mosse sulla interpretazione delle conversazioni telefoniche é sufficiente rilevare come si tratti di doglianze manifestamente infondate, oltre che inammissibili.


Con esse non vengono, invero, evidenziati profili di illogicità della motivazione della sentenza di condanna, né la valutazione delle conversazioni intercettate appare viziata da alcun travisamento del relativo contenuto.


L'affermazione che M. abbia strumentalizzato con la sua chiamata telefonica del B., il giorno prima dell'acquisto dei capi di abbigliamento, la veste di Direttore dell'Agenzia dell'Entrata facendo cenno, dopo aver parlato delle giacche che gli interessavano, anche alla "cosetta" che doveva poi comunicargli, e che "la cosetta" fosse proprio la notizia della posticipazione della sua ditta nell'ordine delle ispezioni tributarie programmate dal suo ufficio, trovano coerente giustificazione nella conversazione del giorno dopo, del 27 giugno, in cui lo stesso M. parla con l'amico Me. (altro funzionario dell'Agenzia dell'Entrate), amico comune anche di B., rimettendosi a lui per avvisare il B. di questa posticipazione delle ispezioni di cui lo avrebbe beneficiato, sempre che non fosse riuscito a farlo lui prima.


Si tratta di una lettura del tutto logica e coerente della sequenza delle telefonate, per la considerazione che nello stesso pomeriggio del 27 giugno, quindi dopo aver accennato la questione al Me., il M. risulta essersi recato a Fano per comprare la giacca al prezzo scontato presso il punto vendita di B..


Non é , quindi, affatto illogico ritenere che la "cosetta", già compresa dall'interlocutore come afferente la propria attività commerciale rispetto alla funzione pubblica del M., sia stata ulteriormente esplicitata dal M. di persona al momento dell'acquisto della giacca, tenuto conto dello sconto "speciale" di cui ha usufruito rispetto al saldo praticato a tutta la clientela e considerato che nei giorni successivi vi sono altre intercettazioni tra B. e M. in cui il predetto funzionario preannuncia la visita al negozio dei propri figli, che riceveranno altri sconti, come ulteriore riprova della spendita della propria qualità per indurre il B. a concedere lo sconto, per impliciti reciproci favori correlati alle rispettive attività.


La irrisorietà dello sconto di soli circa cinquanta Euro, praticato rispetto ad un capo già offerto a prezzo di saldo, non può costituire un argomento utile a scardinare la tenuta logica della motivazione della sentenza impugnata, avendo la Corte evidenziato la incongruenza di una ricostruzione del fatto in termini di rinuncia del soggetto pubblico ad avvalersi della predetta informazione, non essendovi alcuna coerenza tra la successione temporale degli eventi come emersa dalle intercettazioni telefoniche con l'ipotesi difensiva della desistenza, che appare del tutto ipotetica oltre che astratta.


Senza considerare che detta ipotesi alternativa, oltre ad essere contraddetta dal contenuto della interlocuzione telefonica diretta intercorsa tra M. e B. già in sé sufficiente per la decifrazione dell'espressione "cosetta" come riferimento ad una problematica afferente l'ufficio pubblico rivestito, non può essere sostenuta in questa sede di legittimità, trattandosi comunque di un apprezzamento del compendio probatorio riservato alla fase del giudizio di merito, una volta escluso il vizio di motivazione per illogicità manifesta.


Infine, va detto che l'irrisorietà dello sconto non rileva come vizio logico della motivazione, anche perché lo scopo perseguito dal funzionario pubblico é stato descritto come rivolto a creare un rapporto destinato a durare nel tempo, favorendo anche agevolazioni future e ulteriori sconti, quindi attraverso un chiaro ed inequivocabile abuso della qualità soggettiva rivestita in seno all'Agenzia dell'Entrate.


Si deve ricordare che l'induzione indebita a dare o promettere utilità può essere alternativamente esercitata dal pubblico agente mediante l'abuso dei poteri, consistente nella prospettazione dell'esercizio delle proprie potestà funzionali per scopi diversi da quelli leciti, ovvero con l'abuso della qualità, consistente nella strumentalizzazione della posizione rivestita all'interno della pubblica amministrazione, anche indipendentemente dalla sfera di competenza specifica (Sez. 6, n. 7971 del 06/02/2020, Gatti, Rv. 278353).


6. Per completare ed esaurire l'esame dei motivi di ricorso riferiti al reato contestato al capo j), resta da affrontare l'ultimo motivo dedotto nel ricorso di B. relativo alla questione della mancata applicazione della causa di non punibilità per tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis c.p., formulata per la prima volta nella presente sede di legittimità.


Al riguardo occorre ribadire l'orientamento di legittimità già affermato in precedenti analoghi casi, secondo cui anche in caso di riforma in appello della sentenza assolutoria, la questione dell'applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell'art. 131 bis c.p., non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di legittimità atteso che, all'esito della celebrazione del giudizio di appello, la difesa dell'imputato, nel formulare le proprie conclusioni, può avanzare, anche in via subordinata, richiesta di applicazione di detta causa di non punibilità.


Quindi, assume rilevanza assorbente e preliminare rispetto ad ogni altra valutazione in merito alla particolare tenuità del fatto, la predetta ragione di inammissibilità della questione perché non affrontata e neppure dedotta nel corso del giudizio di appello (Sez. 7, Ordinanza n. 15659 del 08/03/2018, Rv. 272913).


Per tutte le superiori considerazioni, i ricorsi di B. e di M., relativamente al capo c), devono essere rigettati.


7. Nel passare all'esame degli altri motivi di ricorso che riguardano unicamente il M., si analizzeranno per prima le censure relative al reato di corruzione ex art. 318 c.p. di cui al capo e), in riferimento all'annullamento degli accertamenti tributari nei confronti di B.G. e della moglie C.A., operati in cambio di utilità costituite da acquisti presso il negozio di proprietà dei predetti coniugi, consistiti nella consegna gratuita di due cinture. Va subito osservato che la sentenza di appello non ha fornito una adeguata risposta a buona parte dei profili di doglianza avanzati nei motivi di ricorso, riportati ai punti da 2.6. a 2.11. del ritenuto in fatto.


La ragione assorbente che giustifica l'accoglimento del ricorso sul punto attiene alla carenza di motivazione in ordine all'accertamento del nesso eziologico ravvisato tra la donazione delle due cinture ed il compimento dell'atto amministrativo favorevole adottato dal M., desunto essenzialmente dalla vicinanza temporale dei due eventi, avvenuti a distanza di un giorno l'uno dall'altro (ovvero il 3 ed il 4 luglio 2003).


Trattandosi della dazione di un bene di imprecisato valore economico (due cinte di pelle), la sola considerazione del dato temporale appare insufficiente a fondare la dimostrazione della sussistenza di un accordo corruttivo, una volta esclusa la illegittimità e l'antidoverosità dell'atto amministrativo e tenuto conto dell'assenza di indici univoci della esistenza di un previo accordo che possa avere condizionato l'esercizio della funzione pubblica da parte del M..


La Corte di appello dopo aver evidenziato l'assenza di anomalie rilevanti nella procedura con cui il M., nella sua veste di capo ufficio, ha disposto l'avocazione degli accertamenti tributari relativi ai due coniugi B., sottraendoli ai diversi funzionari cui erano stati assegnati, ha configurato il reato come una ipotesi di corruzione impropria, ravvisando un rapporto di causa ed effetto tra la dazione delle due cinte e l'esito favorevole, pure se ritenuto legittimo, della procedura di accertamento tributario curato personalmente dal M. e che ha portato all'azzeramento dell'addebito dell'imposta evasa per B., prima quantificato in Euro 16 mila per l'anno 2007 ed in Euro 20 mila per l'anno 2008, ed all'abbattimento per il coniuge C. dell'importo dell'imposta evasa da 22 mila a 13 mila Euro.


Al riguardo va osservato che il pur evidenziato protagonismo del M. per la definizione della pratica relativa all'accertamento tributario dei predetti coniugi, a fronte della assenza di sollecitazioni da parte dei due contribuenti interessati e della manifesta assenza di proporzionalità tra il rilievo economico dell'atto amministrativo favorevole ed il valore commerciale delle due cinte, ritenuto comunque di modica entità, non può supportare la fondatezza dell'affermazione conclusiva con cui si é ritenuto accertato che la dazione delle due cinte sia stata al centro di un accordo corruttivo, nel senso che le due cinte siano state - come affermato dalla Corte di appello - prima promesse e poi effettivamente consegnate dal B. con il fine di assicurarsi il favorevole interessamento del M. per la trattazione delle pratiche che lo riguardavano e per ricompensare il pubblico ufficiale per l'esercizio della funzione, svolta sia pure in modo legittimo, con esito favorevole per i contribuenti.


La dimostrazione di un accordo antecedente alla definizione favorevole della pratica tributaria viene ad essere argomentata sulla base di elementi di ridotta valenza indiziaria, essendo le intercettazioni telefoniche intervenute tutte in epoca successiva alla definizione dell'accertamento tributario, mentre la sollecitazione del regalo da parte del M. che pure sembra emergere dalla ricostruzione della vicenda, apparendo espressione di una condotta opportunistica del predetto pubblico funzionario, sopravvenuta e non preordinata rispetto alla definizione dell'accertamento tributario, potrebbe essere al più inquadrata in una ipotesi di corruzione impropria susseguente.


Si deve al riguardo rimarcare che sebbene l'art. 318 c.p., nella formulazione successiva alla legge di riforma del 6 novembre 2012, n. 190, non contenga più alcun esplicito riferimento al concetto di "retribuzione non dovuta", rimane tuttavia imprescindibile per l'integrazione del reato in esame, e maggiormente nel caso di corruzione impropria per accordo susseguente al compimento dell'atto amministrativo favorevole, che tra la promessa o la dazione di denaro o di altra utilità non dovute al pubblico ufficiale ed il compimento dell'atto legittimo vi sia una correlazione funzionale, un nesso di causa ed effetto, il cui accertamento pur potendo in linea astratta anche prescindere dal requisito della proporzionalità tra le prestazioni oggetto dell'accordo, ne risulta condizionato in concreto nei casi in cui manchino altri elementi univoci dimostrativi della esistenza di un accordo corruttivo.


In altri termini, la proporzionalità tra le prestazioni oggetto dell'accordo corruttivo, da intendersi nel senso di mancanza di sproporzione manifesta tra la prestazione del privato e quella del pubblico ufficiale, pur non costituendo un elemento necessario per l'integrazione della fattispecie penale, assume una evidente rilevanza sul piano probatorio, nel senso che ove manchi tale requisito, per la irrisorietà del valore della dazione indebita rispetto alla rilevanza dell'atto amministrativo compiuto dal pubblico agente, risulta senz'altro più difficile la dimostrazione dell'esistenza del nesso sinallagmatico con l'esercizio della funzione, che deve sempre sussistere, essendo il mercimonio della funzione pubblica la vera essenza del disvalore del fatto punito dall'art. 318 c.p..


Nel caso della dazione di beni o utilità di scarso valore economico, la verifica della corrispettività con il compimento dell'atto amministrativo, in cui si sostanzia il necessario nesso sinallagmatico che é alla base dell'incriminazione, si impone come elemento discretivo tra le condotte penalmente rilevanti rispetto a quelle che possono rilevare unicamente sul piano degli illeciti disciplinari.


Con riguardo al profilo disciplinare, pure affrontato nei motivi di ricorso, in base alla disciplina fissata dall'art. 4 del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici di cui al D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, é innegabile che la dazione di regali correlati alla definizione di una pratica amministrativa, cui sia interessato il privato, non possa mai essere definita quale regalia "d'uso" idonea a legittimarne, ove sia anche di modico valore, la relativa accettazione da parte del dipendente pubblico.


Ma se tali donativi, pur di modico valore, integrano certamente l'illecito disciplinare allorché siano avvenuti in coincidenza temporale con l'esercizio della funzione, per integrare, invece, il reato di cui all'art. 318 c.p., non basta la sola correlazione temporale, ma é richiesto che le condotte del pubblico dipendente e del privato si inseriscano in un rapporto sinallagmatico fra parti contrapposte, poiché la corrispettività "funzionale" di ciascuna di esse resta un elemento necessario per l'integrazione del reato di corruzione, tanto di quella propria che di quella impropria.


D'altra parte é evidente che ai fini dell'accertamento del nesso di corrispettività allorché si tratti di donativi di modico valore, il requisito della proporzionalità assume una maggiore pregnanza sul piano probatorio, rispetto a quei casi in cui la dazione o l'offerta di utilità da parte del privato, per la loro consistenza economica valutata in assoluto e non in proporzione all'entità del favore ricevuto, siano già di per sé tali da ricondursi certamente nell'ottica del mercimonio della funzione pubblica.


Oltre, quindi, a ribadirsi il principio già affermato nella giurisprudenza di legittimità che non assume rilevanza penale la condotta del privato che manifesti con donativi di modesto valore il proprio apprezzamento per l'attività svolta dal pubblico agente (Sez.6, n. 19319 del 10/02/2017, Liocco, Rv.269836), correlativamente, si deve ritenere che anche la condotta da parte del soggetto pubblico che ne accetti la corresponsione, al di fuori di una relazione di corrispettività con l'attività svolta, non assume rilevanza penale, fermo restando il carattere illecito di detto comportamento sotto il profilo disciplinare.


Le considerazioni appena sviluppate rendono perciò evidente, ad avviso del collegio, la carenza di motivazione della sentenza impugnata nel non avere esaminato i profili dell'appello presentato nell'interesse dell'imputato, sopra esaminati.


Si impone, pertanto, con riguardo a quest'ultimo, l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Perugia per un nuovo esame sui gli aspetti evidenziati in relazione al capo e), ascritto al M..


8. Infine, con riguardo ai motivi di ricorso relativi al reato di abuso di ufficio sub h), consistito nell'ingiusto vantaggio arrecato al presidente dell'associazione dilettantistica (OMISSIS), attraverso l'indebito riconoscimento del diritto ad usufruire del regime delle agevolazioni fiscali previsto per le associazioni sportive non professionistiche in difetto delle relative condizioni di legge, si deve rilevare che assume rilevanza assorbente la fondatezza della questione dedotta in relazione alla necessaria valutazione della persistenza del reato di abuso di ufficio dopo la riforma dell'art. 323 c.p., entrata in vigore dopo la pronuncia della sentenza di appello.


Con la novella del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con mod. dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, nel testo dell'art. 323 c.p., le parole "in violazione di norme di legge e di regolamento" sono state sostituite dalle seguenti: "in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".


Si tratta di una modifica che investe solo uno dei due segmenti di condotta che sono considerati rilevanti ai fini dell'integrazione del delitto di abuso d'ufficio che punisce con lo stesso trattamento sanzionatorio, accomunandone il relativo disvalore, sia la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento delle funzioni o del servizio viola le norme di legge che ne disciplinano l'esercizio e sia quella, del medesimo soggetto qualificato, che ometta di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto o negli altri casi prescritti.


Per effetto di tale modifica l'abuso di ufficio nella prima opzione, ovvero quello della violazione delle norme di legge che disciplinano lo svolgimento delle funzioni o del servizio, può essere ora integrato solo dalla violazione di "regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge", cioé da fonti primarie, con esclusione dei regolamenti attuativi, e che abbiano, inoltre, un contenuto vincolante precettivo da cui non residui alcuna discrezionalità amministrativa.


Ma siffatta modifica, sebbene abbia notevolmente ristretto l'ambito di rilevanza penale del delitto di abuso d'ufficio con inevitabili effetti di favore applicabili retroattivamente ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 2, non esplica alcun effetto con riguardo al segmento di condotta che, in via alternativa rispetto al genus della violazione di legge, riguarda esclusivamente e più specificamente l'inosservanza dell'obbligo di astensione, rispetto al quale la fonte normativa della violazione é da individuarsi nella stessa norma penale salvo che per il rinvio agli altri casi prescritti, rispetto ai quali non é pertinente la limitazione alle fonti primarie di legge, trattandosi della violazione di un precetto vincolante già descritto dalla norma penale, sia pure attraverso il rinvio, ma solo per i casi diversi dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ad altre fonti normative extra-penali che prescrivano lo stesso obbligo di astensione.


Pertanto, ove si ravvisi l'ipotesi di un abuso di ufficio riferito anche alla specifica violazione dell'obbligo di astensione, la modifica normativa non ha alcun effetto abrogativo, permanendo la rilevanza penale della condotta anche rispetto alla violazione dell'obbligo di astensione per come regolato dal D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, art. 7, relativo al Regolamento recante il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici.


Nel caso di specie la violazione di legge contestata all'imputato é stata ascritta sotto un duplice profilo, l'uno riferito alla violazione dei principi di trasparenza ed imparzialità del procedimento amministrativo di cui alla L. n. 241 del 1990, e l'altro al dovere di astenersi dalla trattazione della pratica in ragione degli stretti rapporti di amicizia con P.M..


La diversità dei due profili assume ora una rilevanza decisiva, non essendo il fatto descritto nell'imputazione suscettibile di integrare il reato di abuso di ufficio in relazione alla violazione dei principi di trasparenza ed imparzialità del procedimento amministrativo, non trattandosi di violazioni di regole di condotta vincolanti, dalle quali non residuino margini di discrezionalità.


Diversamente, per l'altro profilo contestato, della violazione dell'obbligo di astensione il fatto conserverebbe la rilevanza penale atteso che rispetto a tale specifica condotta nulla é cambiato rispetto al passato, assumendo rilevanza la violazione di detto obbligo anche ove prescritto da norme secondarie, regolamentari, come quelle contenute nel Codice di comportamento dei dipendenti della P.A. di cui al D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62.


Sennonché , come evidenziato dal ricorrente, nella motivazione della sentenza di appello (pag. 85 della sentenza), la Corte territoriale, sebbene non abbia preso una posizione netta al riguardo, si é limitata ad affermare con riferimento al profilo della violazione di legge, che l'imputato si sarebbe reso responsabile "se non dell'obbligo di astenersi dalla trattazione della pratica, sicuramente (della violazione) dei doveri di imparzialità e di trasparenza che gravano sullo stesso".


Dalla lettura delle sentenze dei due gradi di merito sembra evincersi che nella vicenda il ruolo di M. sarebbe stato non già quello di avere curato personalmente l'accertamento tributario ma di aver dato direttive al funzionario incaricato di curare la pratica, all'evidenza rivolte a favorire il contribuente, a lui legato da rapporti di amicizia.


Su tale aspetto che investe l'accertamento di un presupposto giuridico-fattuale, quale quello della violazione dell'obbligo di astensione, che assume ora una rilevanza decisiva, la motivazione della sentenza appare perciò inadeguata, avendo la Corte territoriale dato una risposta perplessa circa la sussistenza o meno della violazione dell'obbligo di astensione, avendo essenzialmente ritenuto assorbente la ravvisata violazione di legge sotto l'altro diverso profilo della violazione dei doveri di imparzialità, che ne rendeva superfluo l'accertamento.


Ne deriva, pertanto, l'annullamento con rinvio della sentenza medesima, anche con riferimento alle statuizioni relative al capo h) dell'imputazione, ascritto al M., perché nel giudizio di rinvio sia rivalutata la questione della violazione dell'obbligo di astenersi, che assume ora nell'attuale formulazione del reato di abuso di ufficio rilevanza decisiva nel caso in esame ai fini della integrazione del reato.


L'annullamento con rinvio della sentenza impugnata quanto alla posizione del M. per i capi e) ed h) é assorbente rispetto ai residui motivi che investono il trattamento sanzionatorio e le statuizioni civili in relazione alla determinazione del danno.


Stante il parziale annullamento con rinvio della sentenza impugnata nei confronti del M., conseguente alla necessità di rivalutare la sussistenza dei relativi addebiti, anche le statuizioni civili disposte nei confronti del solo M. debbono essere conseguentemente annullate, con rinvio per l'eventuale rideterminazione del danno ad altra sezione della Corte di appello di Perugia alla quale competerà liquidare anche le spese del presente giudizio in favore della parte civile costituita.


Per la rideterminazione della pena si impone parimenti l'annullamento con rinvio, non essendo stata irrogata per il capo c) una pena autonoma, ma in aumento alla pena irrogata per il capo e) in applicazione del cumulo giuridico previsto per la continuazione.


Per tutte le superiori considerazioni, i ricorsi di B. e di M., relativamente al capo c), devono essere rigettati, con la conseguente dichiarazione di irrevocabilità della affermazione di responsabilità nei confronti di M. per il predetto capo di imputazione, in considerazione dell'annullamento parziale della sentenza per gli altri due capi e) ed h) ascritti al medesimo.


9. Al rigetto del ricorso di B.N. segue la condanna del predetto ricorrente al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di M.P. con riferimento ai reati di cui ai capi H) ed E) e rigetta il ricorso in relazione al capo C), disponendo il rinvio degli atti alla Corte di appello di Perugia per nuovo giudizio sui capi H) ed E) e sul trattamento sanzionatorio.


Dichiara irrevocabile la sentenza nei confronti di M.P. per il reato di cui al capo C), rigetta il ricorso di B.N. che condanna al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 8 gennaio 2021.


Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2021



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