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Abuso d'ufficio: sussiste se il dirigente ricorre spesso ed arbitrariamente a collaboratori esterni


Corte di Cassazione

La massima

Integra il reato di abuso d'ufficio la condotta del responsabile di un ufficio pubblico che ricorra arbitrariamente e sistematicamente alla collaborazione di personale esterno, pur potendo far fronte alle esigenze istituzionali attraverso il personale interno, arrecando vantaggio al privato cui conferisce incarichi retribuiti, sussistendo in tal caso il profilo della doppia ingiustizia.



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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 06/02/2020 , n. 7972

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Torino confermava la pronuncia di primo grado del 16 luglio 2018 con la quale il Tribunale della stessa città aveva condannato O.I. in relazione al reato di cui agli artt. 81 cpv., 110 e 323 c.p., per avere, in M(OMISSIS), nella sua qualità di pubblico ufficiale, quale direttore dell'(OMISSIS), omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio e della propria convivente N.M.M., nonchè in violazione dell'art. 97 Cost.; D.P.R. n. 62 del 2013, artt. 3,7 e 13; e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, commi 6 e 6 bis, abusato del suo ufficio per procurare intenzionalmente alla N.M. un ingiusto vantaggio patrimoniale con corrispettivo danno ingiusto dell'Ente, adottando ovvero concorrendo ad adottare cinque determine dirigenziali (n. 107 del 24 luglio 2012, n. 112 del 31 luglio 2013, n. 65 dell'11 giugno 2014, n. 67 del 14 maggio 2015 e n. 28 dell'11 marzo 2016) con le quali alla predetta egli aveva conferito l'incarico di curatela artistica e di organizzazione di una serie di eventi, riconoscendole corrispettivi per un totale di 35.750,87 Euro.


Rilevava la Corte territoriale come le emergenze processuali avessero dimostrato la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto contestato e come l'imputato non fosse meritevole del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ovvero di una riduzione della pena inflitta dal primo giudice.


2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l'imputato, con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale, con sei distinti punti, ha dedotto i seguenti motivi così sintetizzabili.


2.1. Violazione di legge e mancanza di motivazione, per avere la Corte di merito omesso di rispondere alle censure che erano state formulate con l'atto di appello in ordine alla natura degli incarichi conferiti alla N.M., che non avevano avuto ad oggetto consulenze di natura intellettuale ma prestazioni di servizi: incarichi dunque che la normativa vigente in materia consentiva potessero costituire oggetto di affidamenti diretti; alla asserita mancata effettuazione di una previa selezione tra più soggetti interessati all'incarico, che invece era stata compiuta nel 2012 in occasione del conferimento del primo incarico; alla assenza del dolo richiesto per la configurabilità del reato, in ragione del fatto che quelle determine erano state adottate sulla base di una previa interlocuzione con gli uffici regionali competenti; alla mancata individuazione del momento iniziale della convivenza tra l'imputato e la N.M., che l' O. aveva riconosciuto essere avvenuta solo dopo il 2015, circostanza che nessun teste aveva smentito; nonchè alla assenza di un danno concreto patito dall'Ente, che, invece, aveva tratto importanti vantaggi dall'attività svolta dalla predetta: questioni tutte alle quali neppure il giudice di primo grado aveva dato adeguata risposta nella motivazione della sentenza che era stata poi richiamata, su quegli specifici punti, dalla Corte di appello.


2.2. Vizio di motivazione, per contraddittorietà, manifesta illogicità e travisamento della prova, per avere la Corte torinese erroneamente sostenuto che le mansioni affidate alla N.M. ben potevano essere svolte dal personale interno già in servizio presso un apposito "ufficio comunicazione" dell'(OMISSIS): senza tenere conto che nel 2012 tale ente aveva accorpato il distinto Parco di Superga e si era posto il problema di "duplicare le attività necessarie alla promozione degli eventi" e di altre manifestazioni di interesse, per la cui organizzazione - al contrario di quanto asserito dal teste M., funzionario della regione - vi era stato bisogno di dotarsi di un servizio giornalistico, qualificato dalla conoscenza delle lingue straniere, assente nell'Ente accorpante, servizio che era stato perciò affidato alla N.M. e da questa svolto con impegno e determinazione.


2.3. Violazione di legge, in relazione all'art. 323 c.p., e vizio di motivazione, per avere la Corte piemontese erroneamente confermato la sentenza di primo grado, senza spiegare in cosa fosse consistita la c.d. "doppia ingiustizia", della condotta e dell'evento, requisito che deve necessariamente qualificare il reato contestato: anche a voler immaginare l'illegittimità delle delibere di conferimento di quell'incarico, non era stato provato che il percepimento dei relativi corrispettivi, peraltro di ridotta entità, da parte della N.M. avesse comportato un danno per l'Ente (che, invece, aveva visto soddisfatte esigenze di funzionalità, non aveva subito alcun pregiudizio di immagine e, anzi, aveva ottenuto una grande visibilità dal compimento di quelle attività promozionali), ovvero che la predetta avesse conseguito un vantaggio ingiusto, pur avendo ricevuto compensi proporzionati ad attività lavorative realmente compiute, con un corrispondente perseguimento di interessi pubblici.


2.4. Violazione di legge, in relazione all'art. 323 c.p., e vizio di motivazione, per avere la Corte periferica omesso di motivare l'esistenza dell'elemento psicologico necessario per la configurabilità del delitto addebitato, benchè fosse risultato che il competente ufficio regionale aveva indirizzato all' O. le prime richieste di informazione solo nel luglio del 2015; che a tale istanza l'imputato, agendo in buona fede e al solo scopo di soddisfare un interesse pubblico, aveva replicato con una nota dell'ottobre dello stesso anno; e che solamente nel marzo del 2016, dopo l'adozione dell'ultima delle determine oggetto di contestazione, erano stati formulati i primi rilevi critici, per giunta dal tenore generico, poi esplicitati dall'ufficio regionale con una successiva nota del luglio del 2016.


2.5. Violazione di legge, in relazione agli artt. 323 bis e 62 bis c.p., per avere la Corte di merito ingiustificatamente negato all'imputato il riconoscimento dell'attenuante dell'essersi adoperato per evitare che l'attività potesse essere portata ad ulteriori conseguenze, dell'attenuante del fatto di particolare tenuità e delle attenuanti generiche, nonostante fosse stato dimostrato che il prevenuto aveva ricevuto i primi rilievi dall'ufficio regionale competente solo dopo l'adozione delle determine e che, in seguito, aveva revocato l'ultimo incarico conferito alla N.M., che i compensi da questa annualmente percepiti erano stati modesti e che l' O. aveva tenuto un comportamento processuale collaborativo.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ritiene la Corte che il ricorso vada accolto, sia pur nei limiti e ai soli effetti di seguito precisati.


2. I primi due motivi del ricorso non superano il vaglio preliminare di ammissibilità, in quanto per la gran parte presentati per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.


Il ricorrente solo formalmente ha prospettato una serie di vizi di motivazione, in realtà avanzando censure in fatto finalizzate ad una reinterpretazione delle emergenze processuali, che si traducono, dunque, in altrettante non consentite questioni di "travisamento dei fatti": invero, i dubbi posti con l'atto di impugnazione in ordine alla corretta lettura degli elementi di conoscenza acquisiti risultano inidonei a disarticolare la tenuta logica della motivazione della sentenza gravata che, integrata anche dall'apparato argomentativo della prima pronuncia di primo grado, cui l'altra fa rinvio, appare scevra di incongruenze o lacune giustificative e che, al contrario, possiede una valenza idonea a sorreggere le statuizioni adottate.


I giudici di merito, infatti, hanno convincentemente spiegato che:


- gli incarichi conferiti dall' O. alla N.M. avevano riguardato la realizzazione di campagne di informazione e pubblicizzazione, la preparazione di cartelle e comunicati indirizzati ai rappresentati dei mass-media, la organizzazione di interviste, incontri stampa e altre iniziative di pubblicizzazione dei vari eventi, la cura di concerti e mostre, nonchè la conduzione di dibattiti e incontri: attività tutte che non potevano essere definite mere prestazioni di servizi, trattandosi, invece, di attività consulenziali a carattere intellettuale in quanto basate sui peculiari aspetti professionali della incaricata; si legge, infatti, nella sentenza di primo grado che quella della N.M. era una "prestazione d'opera intellettuale" caratterizzata dalla "prevalenza dell'attività" personale "rispetto alla organizzazione" di mezzi, a differenza della prestazione di servizi offerta da una impresa che "assume il rischio del risultato con mezzi e organizzazione propria" (v. pp. 6 e segg.);


- per il conferimento di tali incarichi non era affatto possibile un affidamento diretto da parte del direttore dell'ente, essendo prescritta dalla normativa in materia l'effettuazione di una gara comparativa per una verifica allargata di più offerte professionali: valutazione che non era stata affatto operata neppure in occasione dell'adozione della prima delle cinque determine di affidamento di incarichi alla N.M., che era stata preceduta da un mero incontro informale con alcuni "soggetti che negli anni precedenti avevano operato nell'area di (OMISSIS)", invitati dall' O. ad un incontro sulla base di un programma generico, dunque con modalità che non aveva affatto avuto le caratteristiche di una procedura di gara comparativa come richiesta dalla legge, in specie dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 27, per garantire i principi di buona amministrazione e imparzialità della p.a.;


- l'unica richiesta che era pervenuta all' O. era stata quella della N.M., che significativamente non era stata neppure formalmente invitata a quel primo incontro, che l'imputato aveva ammesso di conoscere già dal 2012, iniziando con lei a convivere nel 2014, e con la quale si era instaurata, asseritamente solo dal 2016, una stabile relazione sentimentale;


- le attività che erano state svolte dalla N.M. nell'arco temporale in questione, dal luglio del 2012 all'ottobre del 2016, secondo le già tratteggiate linee caratterizzanti gli incarichi conferiti, ben avrebbero potuto essere svolte - secondo quanto riferito dagli attendibili testi M. e B. - da personale già in servizio presso l'Ente parco: considerato che, al contrario di quanto asserito dall' O., che aveva sostenuto di avere alle sue dipendenze solo generico personale amministrativo e alcune guardie del parco, tale Ente di gestione disponeva fin dal 2004 di un apposito "ufficio comunicazione e promozione", composto da ben tre unità di personale delle quali una addetta al settore dell'educazione ambientale e due al settore della organizzazione degli eventi e delle manifestazioni.


Da tali circostanze la Corte territoriale ha arguito, con motivazione perspicua, nella quale non è ravvisabile alcuna incongruenza logica, come i reiterati conferimenti di quegli incarichi da parte dell' O. in favore della N.M. si fossero tradotti nell'aggiunta di una ulteriore figura professionale di cui l'Ente parco aveva sì beneficiato, ma che ciò era accaduto all'esito di un abuso di ufficio concretizzatosi nell'adozione di provvedimenti emessi dal prevenuto senza il rispetto della normativa in materia, sorretti dal precipuo scopo di favorire la amica e compagna, consentendole di esercitare un'attività lavorativa il cui svolgimento ben poteva essere assicurato dal personale già in servizio presso quell'ente pubblico.


Nelle decisioni adottate dai giudici di primo e di secondo grado non è ravvisabile alcuna delle violazioni di legge denunciate con il ricorso, posto che la condotta dell'imputato era stata certamente tenuta in violazione di specifiche norme di legge che imponevano che quei conferimenti di incarichi professionali fossero preceduti da apposite procedure comparative tra più soggetti potenzialmente interessati, così come previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, commi 6 e 6 bis, (che, nel fissare le prescrizioni generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, stabiliscono che la stipula da parte delle amministrazioni pubbliche "di contratti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali" e "occasionali", è consentita in via del tutto eccezionale per soddisfare "specifiche esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio", in via temporanea e con incarichi non rinnovabili, e, in ogni caso, previa effettuazione di procedure comparative che devono essere appositamente disciplinate e rese pubbliche); e che le iniziative dell' O. almeno a partire dal 2014 erano state realizzate in violazione degli obblighi di imparzialità e di astensione che egli era tenuto a rispettare, giusta la previsione del D.P.R. n. 62 del 2013, art. 7 (secondo cui il dipendente pubblico deve astenersi "dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero... di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale... (e) in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza").


3. Il terzo motivo del ricorso presentato nell'interesse dell' O. è infondato.


Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale il delitto di abuso d'ufficio è integrato dal requisito della c.d. "doppia e autonoma ingiustizia", sia della condotta che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento, che dell'evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo: con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità della condotta (in questo senso, tra le molte, Sez. 6, n. 10133 del 17/02/2015, Scassellati, Rv. 262800).


Di tale regula iuris la Corte di appello di Torino ha fatto corretta applicazione osservando come a fronte della accertata condotta posta in essere dall'imputato in violazione di richiamate norme di legge, l'evento antigiuridico, consistente nel vantaggio patrimoniale conseguito dalla N.M. con correlato danno per l'Ente parco, dovesse considerarsi ingiusto in quanto le relative somme erano state versate a titolo di corrispettivo per lo svolgimento di un'attività lavorativa che ben avrebbero potuto essere fornita da dipendenti già in servizio in quell'ente, senza che lo stesso fosse "costretto" a versare a terzi quegli "ulteriori compensi". Con tale specifico argomento della motivazione il ricorrente ha sostanzialmente omesso di confrontarsi, preferendo sottolineare altri dettagli della vicenda - quali quello che l'Ente parco non avesse subito un pregiudizio di immagine e, anzi, avesse beneficiato del contributo lavorativo di una ulteriore unità di personale - che, nella condivisibile ricostruzione privilegiata dai giudici di merito, sono apparsi evidentemente irrilevanti.


Va, dunque, ribadito il principio di diritto secondo il quale, ferma restando la necessità di verificare, ai fini della configurabilità del delitto di abuso d'ufficio, che nella struttura del reato sussista il requisito della doppia ingiustizia, sicchè deve essere "contra legem" non solo la condotta ma anche il fine perseguito dall'agente, tale requisito deve ritenersi presente quando il responsabile di un ufficio pubblico, al fine di arrecare vantaggio a persone estranee a quell'ufficio, ricorra arbitrariamente e sistematicamente alla collaborazione di personale esterno, pur potendo fare fronte alle esigenze istituzionali attraverso il personale interno (in senso sostanzialmente conforme la risalente Sez. 6, n. 2769 del 19/12/1994, dep. 1995, Medea, Rv. 201348).


4. Quanto alla ulteriore denunciata violazione delle norme di diritto penale sostanziale e al connesso vizio di motivazione per avere la Corte distrettuale omesso di giustificare l'esistenza del richiesto elemento psicologico del reato contestato, va detto che le doglianze difensive - contenute nel quarto punto del ricorso oggi in esame - risultano prive di pregio, avendo i giudici di merito fatto corretta applicazione del principio di diritto, espressione di un radicato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale non presuppone l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, laddove risulti da vari elementi concordemente dimostrata l'esistenza dell'intento di conseguire o far conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (in questo senso, da ultimo, Sez. 6, n. 52882 del 27/09/2018, Pastore, Rv. 274580).


In tale contesto si è efficacemente motivato come l'esistenza del richiesto elemento psicologico, cioè di una condotta dell'imputato sorretta dallo scopo precipuo di procurare intenzionalmente un vantaggio patrimoniale alla propria compagna, fosse nel caso di specie stata comprovata oltre che dalle macroscopiche violazioni delle indicate norme di legge, dal fatto che l' O. avesse rinnovato quegli incarichi consulenziali "con scelta diretta", senza far precedere le proprie determine da alcuna verifica comparativa con eventuali altre offerte e, soprattutto, dal fatto di avere egli affidato alla N.M. compiti che ben avrebbero potuto essere svolti dalle impiegate già in organico dell'ufficio comunicazione e promozione presso quell'Ente parco.


Sotto questo punto di vista appare, altresì, logicamente convincente la decisione dei giudici di merito di non dare alcun rilievo allo scambio di note che vi era stato tra l' O. e il dirigente dell'ufficio regionale competente per il controllo, in quanto si è dato atto come il secondo aveva mosso i primi rilievi all'operato solo a partire dal marzo del 2016, quando cioè era stato possibile per l'ufficio superiore valorizzare i risultati dell'attività di verifica amministrativa che in precedenza era stata faticosamente avviata (v. p. 4 sent. primo grado). Ciò senza neppure trascurare che all'odierno imputato è stata pure contestata la violazione della specifica disposizione dettata dal citato D.P.R. n. 62 del 2013, art. 13 che, in ogni caso, gli imponeva, in quanto dirigente dell'ente, di comunica alla stessa amministrazione se aveva "parenti e affini entro il secondo grado, coniuge o convivente che... siano coinvolti nelle decisioni o nelle attività inerenti all'ufficio": obbligo al cui adempimento l' O. si era evidentemente sottratto.


5. Per ciò che concerne l'ultimo motivo di ricorso, va disattesa la pretesa del ricorrente di modificare la decisione adottata dalla Corte torinese circa l'assenza delle condizioni per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.


E' pacifico, infatti, come in sede di legittimità sia sufficiente verificare che il giudice del merito abbia motivato le ragioni poste a base della sua scelta discrezionale di concedere o meno quelle attenuanti e, nel caso di specie, del tutto legittimamente la Corte territoriale ha negato il sollecitato riconoscimento facendo leva sulla constatazione della pervicacia della condotta abusiva tenuta dall' O. e alla ripetitività e gravità delle sue singole iniziative: dunque, parametri considerati dall'art. 133 c.p., applicabile anche ai fini della definizione della operatività dell'art. 62 bis c.p..


Lo stesso ultimo motivo appare, invece, fondato nella parte in cui l'imputato ha lamentato l'omessa motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 323 bis c.p., avendo la Corte piemontese affermato in maniera del tutto assiomatica che i fatti non sono di particolare tenuità: senza nulla replicare alla richiesta difensiva con la quale il riconoscimento di quella circostanza era stata prospettata anche relazione alla scelta dell' O. di revocare l'ultimo degli incarichi conferiti alla N.M., condotta nella quale è astrattamente riconoscibile l'azione di chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l'attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori.


La sentenza impugnata va, dunque, annullata limitatamente a tale punto con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino che, nel nuovo giudizio, sulla base degli eventuali necessari accertamenti di fatto, colmerà l'indicata lacuna motivazionale.


6. Il riconoscimento della ammissibilità del ricorso e della fondatezza di uno dei suoi motivi impone oggi di riconoscere che il reato contestato con riferimento all'adozione della prima delle elencate determine dirigenziali, quella del 24 luglio 2012, si è prescritto dopo l'emissione della sentenza di secondo grado (in assenza di sospensioni della decorrenza del termine massimo di sette anni e mezzo): pronuncia che, perciò, va annullata senza rinvio in relazione a quella specifica frazione di condotta illecita.


Spetterà conseguentemente al giudice di rinvio rideterminare la pena finale con riferimento alle condotte cronologicamente posteriori a quella innanzi indicata, in relazione alle quali a norma dell'art. 624 c.p.p. va dichiarata la irrevocabilità della impugnata sentenza.


P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in relazione alla condotta concernente la determina del 24.7.2012 perchè il reato è estinto per prescrizione.


Annulla la medesima sentenza limitatamente alla circostanza attenuante di cui all'art. 323-bis c.p. e rinvia per nuovo giudizio sul punto nonchè in ordine alla rideterminazione della pena ad altra sezione della Corte di appello di Torino. Rigetta nel resto il ricorso.


Visto l'art. 624 c.p.p. dichiara irrevocabile la sentenza in ordine alla responsabilità del ricorrente.


Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2020.


Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2020

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