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Calunnia: non è necessaria una denuncia in senso formale


Sentenze della Corte di Cassazione in relazione al reato di calunnia

La massima

In tema di calunnia, non è necessaria per la configurabilità del reato una denuncia in senso formale, essendo sufficiente che taluno, rivolgendosi in qualsiasi forma a soggetto obbligato a riferire all'autorità giudiziaria, esponga fatti concretanti gli estremi di un reato e li addebiti a persona di cui conosce l'innocenza. (Fattispecie relativa a dichiarazioni accusatorie consapevolmente mendaci, rese al sanitario del pronto soccorso, pubblico ufficiale sul quale grava l'obbligo di referto - Cassazione penale , sez. VI , 19/02/2020 , n. 12076).

 

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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 19/02/2020 , n. 12076

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza n. 641/2019, la Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna inflitta dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo a D.M.G. ex art. 368 c.p., commi 1 e 2, per aver denunciato al medico del pronto soccorso B.C. di essere stata abusata sessualmente (con l'introduzione di un dito nella vagina) da un carabiniere (non espressamente indicato) nel corso di una perquisizione personale cui era sottoposta, così accusandolo falsamente del reato ex art. 609-bis c.p., e art. 609-ter c.p., n. 4.


2. Nel ricorso presentato dal difensore della D.M. si chiede l'annullamento della sentenza.


2.1. Con il primo motivo di ricorso si deducono erronea applicazione dell'art. 47 c.p. e dell'art. 5 c.p., (come reinterpretato dalla sent. n. 364 del 1988 della Corte costituzionale) e vizio della motivazione per non avere ritenuto che le dichiarazioni rese dall'imputata al medico del pronto soccorso "non avevano valore di una denuncia ma solo una dichiarazione in vista di una improbabile futura denuncia".


2.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce erronea applicazione dell'art. 368 c.p., comma 2, e vizio della motivazione per avere la Corte di appello aumentato di un terzo una pena (tre anni di reclusione) già distante dal minimo edittale (2 anni) e senza ridurla con la concessione delle circostanze attenuanti generiche. Inoltre, si osserva che la condotta ascritta al militare avrebbe dovuto comunque essere considerata di "minore gravità" ex art. 609-bis c.p., comma 3, così venendo meno l'applicabilità dell'aggravante ex art. 368 c.p., comma 2 e, concesse le circostanze attenuanti generiche, le condizioni ostative al riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena.


2.3. Con il terzo motivo di ricorso si deducono erronea applicazione degli artt. 133 e 62 bis c.p. e vizio della motivazione, per avere il Giudice di primo grado aumentato la pena base del 50% da 2 a 3 anni e poi a 4 anni con l'aggravante del comma 2 del reato di calunnia, così sanzionando per ben due volte ai sensi dell'art. 133 c.p., il medesimo comportamento tenuto dalla ricorrente prima e dopo il reato, e per essere la Corte di appello incorsa nel medesimo errore negando le attenuanti generiche (p. 8 del ricorso).


Si aggiunge che la Corte, dunque, avrebbe dovuto meglio valutare - al fine di concedere le circostanze attenuanti generiche - l'inesistente capacità a delinquere dell'imputata (priva di precedenti penali poichè incensurata), i motivi a delinquere e il carattere del reo (donna in atto mestruata, picchiata dal marito e sotto effetto di sostanze alcoliche), la sua vita anteriore al reato e la condotta susseguente (in particolare, non ha chiesto visita ginecologica, non ha sporto denuncia all'autorità giudiziaria, nè ha insistito in giudizio nell'accusa).


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso è infondato.


1.1. Le deduzioni sviluppate non si confrontano con quanto riferito da B.C., medico del pronto soccorso, e riportato nella sentenza impugnata: 1-a D.M. non si limitò a riferire di avere dolore in corrispondenza delle parti intime, ma disse "che uno dei militari di sesso maschile oltre a perquisirla aveva effettuato una esplorazione vaginale" - circostanza confermata anche dall'infermiere del pronto soccorso, G.G. - e, dopo essere stata visitata disse ai carabinieri che si trovavano all'esterno disse che li avrebbe denunciati per quanto subito.


La consapevolezza da parte del denunciante dell'innocenza della persona accusata è esclusa solo quando la supposta illiceità del fatto denunciato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi, connotati da un riconoscibile margine di serietà e tali da ingenerare concretamente condivisibili dubbi da parte di una persona di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza (Sez. 6, n. 50254 del 13/11/2015, Parodi, Rv. 265751; Sez. 6, n. 22922 del 23/05/2013, Zanardi, Rv. 256628; Sez. 6, n. 29117 del 15/06/2012, Valenti, Rv. 253254).


Invece, nel caso in esame, quanto affermato dall'imputata contrasta radicalmente con le dichiarazioni del maresciallo dei Carabinieri, Sara Maestri, che ha dichiarato di avere perquisito ella (e, quindi, non un carabiniere maschio) l'imputata senza farle togliere alcun indumento e limitandosi a fare scorrere le mani sull'intero corpo senza toccare parti intime e, tantomeno, introdurre un dito nella vagina, così riferendo dati insuscettibili di differenti ricordi, o valutazioni, da parte della D.M..


1.2. Per la configurabilità del delitto di calunnia non occorre una denuncia in senso formale, bastando che taluno, rivolgendosi in qualsiasi forma all'autorità giudiziaria ovvero ad altra autorità avente l'obbligo di riferire alla prima, esponga fatti concretanti gli estremi di un reato, addebitandoli a carico di persona di cui conosce l'innocenza (Sez. 6, n. 44594 del 08/10/2008, De Barbieri, Rv. 241654), mentre è inconferente l'argomento secondo cui l'imputata non poteva sapere che il sanitario del pronto soccorso avesse obbligo di riferire all'autorità giudiziaria e che, quindi, tale errore sia da considerare quale ignoranza inevitabile ai sensi dell'art. 5 c.p., perchè in tema di elemento psicologico del reato, la cosiddetta "buona fede" è configurabile se la mancata coscienza dell'illiceità del fatto derivi non dall'ignoranza della legge, ma da un elemento positivo e cioè da una circostanza che induce nella convinzione della sua liceità, come un provvedimento dell'autorità amministrativa, una precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria, una equivoca formulazione del testo della norma (Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994, Calzetta, Rv. 197885; Sez. 3, n. 29080 del 19/03/2015, Palau, Rv. 264184; Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, Oggero, Rv. 268000), condizioni che non ricorrono nel caso in esame.


2. Le questioni circa la determinazione della pena-base e l'applicazione della aggravante ex art. 368 c.p., comma 2, poste nel secondo e nel terzo motivo di ricorso risultano infondate.


2.1. Nella determinazione della pena, quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più deve motivare la sua decisione indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall'art. 133 c.p., quelli ritenuti rilevanti (Sez. 1, n. 24213 del 13/03/2013, Rv. 255825). Nel caso in esame, la Corte di appello ha confermato la valutazione del Giudice di primo grado che ha adeguatamente spiegato di avere determinato la pena in misura superiore al minimo edittale considerando la personalità manifestata dall'imputata, che ha assunto sostanze alcoliche e non si è limitata a denunciare il falso ma ha attuato anche una condotta oltraggiosa e minacciosa nei confronti dei militari anche più volte opponendosi alle loro attività (p. 4 della sentenza di primo grado). Inoltre, la applicazione della aggravante è avvenuta in linea con le previsioni normative relative alla quantificazione dell'aumento rispetto alla pena-base e in applicazione dell'art. 368 c.p., comma 2, sono logicamente confluenti in quelle relative alla determinazione della pena-base, e infondate, per quanto dinanzi osservato.


2.2. La deduzione secondo cui nel caso concreto la condotta ascritta al militare avrebbe dovuto comunque essere considerata di "minore gravità" ex art. 609-bis c.p., comma 3, così venendo meno l'applicabilità dell'aggravante ex art. 368 c.p., comma 2 è inconducente perchè quel che rileva è il rischio che l'incolpato sia sottoposta a un procedimento penale per un fatto punibile con pena superiore ai dieci anni (Sez. 6, n. 12655 del 26/12/2016, Bambini, non massimata).


3. Anche le deduzioni, sviluppate nel secondo motivo di ricorso circa il diniego delle circostanze attenuanti generiche risultano infondate.


3.1. Il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, che deve motivare quanto basta a chiarire la sua valutazione sull'adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo (Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Rv. 248737; Sez. 1, 46954 del 04/11/2004, Rv. 230591).


Tuttavia, se sono sviluppate deduzioni che evidenzino elementi rilevanti per le valutazioni relative alle circostanze attenuanti generiche, allora il giudice deve motivarne adeguatamente la reiezione, poichè le circostanze attenuanti generiche valgono a estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all'imputato, in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità a delinquere del reo (fra le altre: Sez. 2, n. 9299 del 07/11/2018, dep. 2019, Villani, Rv. 275640; Sez. 3, n. 26272 del 07/05/2019, Boateng, Rv. 276044; Sez. 3, n. 11539 del 08/01/2014, Mammola, Rv. 258696).


Nella sentenza di primo grado il disconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è stato fondato sul mero rilievo della assenza di elementi di valutazione favorevoli. Invece, nell'atto di appello sono state evidenziate-le "modalità di accadimento" del fatto e le "condizioni di menomazione psicofisiche" della D.M.. Queste condizioni sono indicate nelle sentenze in termini di "stato di alterazione", "alito vinoso" connesso all'avere "assunto sostanze alcoliche", detenzione di modiche quantità di hashish e cocaina; risultava, inoltre, che era "in apparente stato confusionale", che "proseguiva imperterrita nel suo comportante ingiurioso tanto che il padre di lei le si era avvicinato dandole due ceffoni", che "si era rifiutata di sottoporsi a visita ginecologica aggiungendo di essere mestruata".


Questi dati non sono stati espressamente considerati nella parte della motivazione della sentenza relativa al diniego delle circostanze attenuanti generiche.


Resta, però, da considerare se essi presentino pertinenza e specificità tali da richiederne una espressa valutazione (Sez. 3, n. 46588 del 03/10/2019, Bercigli, Rv. 277281; Sez. 3, n. 54179 del 17/07/2018, Rv. 275440; Sez. 3, n. 9836 del 17/11/2015, dep. 2016, Piliero, Rv. 266460).


3.2. Con riferimento alla questione in esame, va ribadito che gli stati emotivi o passionali, pur non escludendo nè diminuendo l'imputabilità, possono essere considerati dal giudice per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, se influiscono sulla misura della responsabilità penale (Sez. 1, n. 7272 del 05/04/2013, dep. 2014, Disha, Rv. 259160; Sez. 1, n. 52951 del 25/06/2014, Guidi, Rv. 261339; Sez. 1, n. 2897 del 15/11/1982, dep. 1983, Langella, Rv. 158296; Sez. 1, n. 217 del 02/03/1971, Tallarico, Rv. 118050).


Anche un generico stato di agitazione del reo non accompagnato da una grave e permanente compromissione delle sue funzioni intellettive e volitive, sebbene non rilevi come vizio di mente, può integrare gli estremi di uno stato emotivo valutabile nella determinazione delle sanzioni (Sez. 6, n. 17305 del 20/04/2011, Angius, Rv. 250067).


In particolare, lo stato di ubriachezza volontaria può - per determinate condizioni di fatto, apprezzabili caso per caso (non generaliter, perchè così si introdurrebbe una diminuente che il principio contenuto nella prima parte dell'art. 92 c.p. esclude espressamente) dal giudice di merito - essere considerato per la concessione delle attenuanti generiche (Sez. 1, n. 154 del 15/02/1971, Lombardo, Rv. 118312).


3.5. Per accertare gli stati emotivi e passionali non è normativamente necessaria la perizia richiesta dall'art. 220, comma 2, c.p.p., per cui potrebbero risultare sufficienti, secondo i casi, valutazioni fondate su massime di comune esperienza.


Tuttavia il riconoscimento di uno stato emotivo che non sia direttamente collegato a consolidate e comuni cause (autoconservazione, ira gelosia, di un certo tipo di condotte) e derivi invece dagli esiti singolari di varie concause non può essere fondato sulla mera allegazione di suoi non probabili indici o su generiche presunzioni ma richiede, affinchè acquisti rilevanza per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, ma essere giustificato sulla base di una argomentazione che almeno ne illustri la plausibilità come causa di uno "stato mentale alterato" sul piano intellettivo e/o volitivo.


Questo comporta una adeguata presentazione delle condizioni che ne precedettero l'instaurarsi, delle concomitanti condizioni e del loro convergere che si ritiene lo abbiano prodotto, così da potere ricondurre (in assenza di una perizia scientifica) ai termini di una massima di comune esperienza il riconoscimento dello stato emotivo e della sua rilevanza.


In particolare, inoltre, occorre individuare una plausibile correlazione fra lo stato emotivo e il tipo di condotta delittuosa per la quale si procede.


Nel caso in esame, un'analisi siffatta non è presente nei ricorsi (in appello e in cassazione) dell'imputata, nè i dati acquisiti presentano evidenze che potessero condurre la Corte di appello a integrarla con le sue valutazioni, soprattutto perchè, - deve osservarsi - le testimonianze raccolte, come emerge da quanto riportato sub 1.1., delineano uno scarto considerevole fra il reale andamento dei fatti e la descrizione calunniosa che l'imputata ne ha dato.


3.6. Su queste basi, deve concludersi che la Corte di appello non era gravata da uno specifico onere di motivazione circa quanto addotto dalla ricorrente per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.


Nè, comunque, nel disconoscerle si è limitata a indicare l'assenza di elementi positivi che potessero giustificarne la concessione (Sez. 3, n. 54179 del 17/07/2018, Rv. 275440; Sez. 3, n. 9836 del 17/11/2015, dep. 2016, Piliero, Rv. 266460), ma ha espressamente considerato gli elementi, rientranti tra quelli indicati nell'art. 133 c.p., che ha ritenuto preponderanti per escluderle (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cons, Rv. 265826; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244), rimarcando la mancanza di resipiscenza, di volontà riparatoria e di scuse ai militari operanti, oltre che le gravi ripercussioni del reato sulla onorabilità del personale maschile dell'Arma de Carabinieri (p. 6, non numerata, della sentenza impugnata).


4. Dal rigetto del ricorso deriva ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Si dà atto che il presente provvedimento, redatto dal Consigliere COSTANZO Angelo, viene sottoscritto dal solo Presidente del Collegio per impedimento dell'estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 12, comma 1, lett. a).


Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2020.


Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2020



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