Indice:
1. La decisione
3. Pena illegale e principio di irretroattività
La Corte si è quindi soffermata sui limiti entro i quali errori in diritto nella determinazione della pena possano dar luogo all’annullamento della sentenza. Il tema ruota intorno alla nozione di “pena illegale” alla quale fa riferimento la giurisprudenza di legittimità anche ai fini della definizione dell’ambito della sindacabilità – in punto determinazione della pena – della sentenza di applicazione della pena su richiesta. Nel caso di specie il ricorso non investe la pena in concreto stabilita dal giudice, ma la “legalità” della stessa, sia pure determinata per effetto di un accordo tra le parti, perché collocabile all’interno di limiti edittali più favorevoli rispetto a quelli applicati. Pur rientrando la pena in concreto applicata nei limiti edittali dettati dalla norma più favorevole in vigore all’epoca della condotta, si osserva che non è indifferente collocare la pattuizione nella cornice edittale astratta prevista dalla lex mitior pregressa. Infatti, il ricorso a parametri normativi che configurano l’ipotesi incriminatrice in termini di fattispecie aggravata può condurre alla determinazione di un trattamento sanzionatorio di maggior favore per l’odierno ricorrente per effetto del giudizio di bilanciamento con le attenuanti generiche, indicate dalle parti nel calcolo della pena concordata e riconosciute dal giudice di merito Le Sezioni Unite richiamano sul punto le spinte della giurisprudenza di legittimità verso un adeguamento della nozione di legalità convenzionale della pena. L’art. 7 della Convenzione EDU enuncia simultaneamente il principio di legalità dei reati e delle pene (“nullum crimen, nulla poena sine lege”) e il principio di irretroattività. La giurisprudenza della Corte Edu ha progressivamente arricchito di contenuti la suddetta disposizione, affermando che essa implicitamente sancisce tutti i corollari del principio di legalità (sentenza Corte Edu, Grande Camera, 17 settembre 2009, sul caso Scoppola C. Italia), tra i quali il principio di retroattività della legge più favorevole (oltre, al principio di precisione e il divieto di applicazione analogica in malam partem e, quantomeno embrionalmente, il principio di colpevolezza). Un ulteriore – e non meno rilevante – elemento di ancoraggio del principio di legalità della pena, nei termini sopra indicati, si rinviene nella funzione rieducativa della pena, di cui all’art. 27, comma 3, Cost (Corte cost. 26 giugno 1990, n. 313). Nel sistema normativo convenzionale ed europeo il principio di irretroattività, sancito dall’art. 7 della Convenzione EDU e rubricato “Nullum crimen, nulla poena sine lege”, costituisce perno centrale di salvaguardia dei diritti individuali, che, come osservato dalla stessa Corte EDU, non si limita a proibire l’applicazione retroattiva del diritto penale a detrimento dell’imputato, ma consacra, in modo più generale, il principio di legalità in ordine ai reati ed alle pene (cfr. Corte Edu, 25 maggio 1993, Kokkinakiss c. Grecia, che estende il divieto di retroattività alla interpretazione estensiva ed analogica). Il precetto penale e la relativa sanzione devono, dunque, trovare la propria fonte in una previsione legislativa entrata in vigore anteriormente al fatto commesso, di cui deve essere garantita piena conoscibilità ai destinatari (sul tema, cfr. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2011: il principio di legalità in materia penale (art. 7 Cedu), in Dir. Pen. Contemp., Riv. Trim. 3-4/2012, p. 251).
Al riguardo, la Corte ha rilevato che, secondo un principio espresso già sotto il previgente codice di rito e confermato con l’avvento del nuovo, nell’ipotesi in cui il giudice abbia irrogato una sanzione che sia superiore ai limiti edittali ovvero in genere o specie più grave di quella prevista in astratto, è tenuta – anche d’ufficio – ad annullare la pronuncia, qualora non possa direttamente provvedere a rideterminare la medesima (Sez. 3, n. 3877 del 14/11/1995, Prati, Rv. 203205; conf., ex plurimis, Sez. 4, n. 39631 del 24/09/2002, Gambini, Rv. 225693, con riferimento alla mancata applicazione della disciplina sanzionatoria prevista per i reati di competenza del giudice di pace).
Più di recente, la nozione di “pena illegale” è stata oggetto di diverse pronunce che, affrontando il tema delle conseguenze della declaratoria di illegittimità costituzionale di talune norme sostanziali, hanno valorizzato il ruolo del giudice dell’esecuzione nel “ripristino” della pena costituzionalmente corretta (Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013 – dep. 2014 –, Ercolano, Rv. 258651; Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260696; Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264859). Queste pronunce hanno ritenuto illegale la pena che, per specie ovvero per quantità, non corrisponde a «quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice in questione, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale» (così, Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205).
Con specifico riferimento, poi, alla sentenza di patteggiamento, si è ritenuto che l’illegalità della pena applicata rende invalido l’accordo concluso dalle parti e ratificato dal giudice, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza che l’ha recepito, così reintegrando le parti nella facoltà di rinegoziare l’accordo stesso su basi corrette (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, cit.).
Le Sezioni Unite ritengono che, nel caso in esame, sia stata denunciata proprio un’ipotesi di applicazione di pena illegale perché in contrasto, prima di tutto, con il principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. Secondo la prospettazione del ricorrente, infatti, il procedimento di commisurazione del giudice del patteggiamento si è sviluppato all’interno di una comminatoria edittale in radice – e in toto – illegale perché lesiva di un principio che dà corpo alla tutela di un «valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali». Il vizio della pronuncia, pertanto, è da ritenersi denunciabile con il ricorso per cassazione anche con riferimento alla sentenza di applicazione della pena su richiesta.
4. La successione di leggi nel tempo nel reato di omicidio stradale
Nel merito del ricorso la Corte ha rilevato che nel rapporto tra la fattispecie di omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale (589, secondo comma, cod. pen.) e quella di omicidio stradale (589-bis cod. pen.) si è in presenza di una successione di leggi penali nel tempo.
Nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 23 marzo 2016, n. 41 (entrata in vigore il 25/03/2016), l’art. 589, secondo comma, cod. pen. comminava la pena della reclusione da 2 a 7 anni.
La fattispecie di cui al secondo comma, in particolare, integrava una circostanza aggravante (ex plurimis, Sez. 4, n. 18204 del 15/03/2016, Bianchini, Rv. 266641; Sez. 4, n. 44811 del 03/10/2014, Salvadori, Rv. 260643), non soggetta, diversamente da quella di cui all’art. 589, terzo comma, cod. pen. (Sez. 4, n. 33792 del 23/04/2015, N., Rv. 264331), al regime derogatorio della disciplina relativa al giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee stabilito dall’art. 590-bis cod. pen. (sempre nella formulazione anteriore alla novella del 2016).
Di conseguenza, l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, poteva condurre all’irrogazione di una pena, nel minimo, di 6 mesi di reclusione, nel caso di giudizio di equivalenza, ovvero di 4 mesi di reclusione, nel caso di giudizio di prevalenza della suddetta attenuante. Il quadro sanzionatorio è mutato radicalmente con l’avvento della legge n. 41 del 2016 che ha introdotto il delitto di omicidio stradale di cui all’art. 589-bis cod. pen. È stata introdotta un’autonoma fattispecie incriminatrice (Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni, Rv. 270918), con la conseguenza che l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche può condurre all’irrogazione, nel minimo, della pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione, in una cornice edittale sostanzialmente deteriore per l’imputato rispetto alla disciplina previgente.
La pena applicata con la sentenza impugnata è stata determinata nell’ambito della nuova cornice edittale prima della riduzione per il rito.