SOMMARIO:
1. Premessa.
7. Archiviazione ex art. 131-bis cod. pen. ed insuscettibilità di iscrizione nel casellario giudiziale.
15. Casistica.
8. Decreto di citazione a giudizio e diritti della persona offesa.
In tema di diritti della persona offesa in relazione all’applicabilità dell’istituto in esame, Sez. 5, n. 8751 del 18/10/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Burzillà, Rv. 272569, ha riconosciuto che la notificazione del decreto di citazione a giudizio garantisce alla persona offesa adeguata informazione sulla possibilità della declaratoria in fase predibattimentale dell’applicabilità della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen., senza che vi sia necessità di uno specifico avviso relativo a tale eventuale sviluppo processuale. Nella parte motiva, la Corte, osservato che la citata previsione dell’art. 469, comma 1-bis del codice di rito implica che la persona offesa sia stata informata della possibilità che in sede predibattimentale si discuta dell’applicazione della causa di non punibilità in esame, si è esplicitamente discostata dai principi affermati da altra pronuncia di legittimità (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Derossi, Rv. 265447; cfr. anche Sez. 2, n. 6310 del 11/11/2015, dep. 2016, P.G. in proc. Cutili, Rv. 266207), secondo cui il decreto di citazione sarebbe insufficiente a tal fine, sia per la mancanza di un espresso riferimento alla possibilità che nel corso del giudizio sia dichiarata la causa di non punibilità di cui trattasi, sia per l’imprevedibilità di questo esito processuale nel momento in cui il decreto è notificato alla persona offesa.
Con la decisione recenziore, la Quinta sezione ha osservato come tale soluzione sia il risultato di un’interpretazione per un verso eccessivamente rigorosa e, per altro verso, inammissibilmente manipolativa del sistema normativo.
Sotto il primo profilo, si è controbattuto che la citazione per il giudizio contiene necessariamente l’implicito riferimento a tutti i possibili sviluppi processuali del giudizio stesso, fra i quali l’espressa previsione dell’art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen., inclusiva della pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 131-bis cit.: pronuncia resa, conseguentemente, prevedibile per la persona offesa destinataria del decreto, il cui eventuale dissenso sul punto, peraltro, non è neppure vincolante per il giudice. Sotto il secondo profilo, si è osservato che postulare la necessità che il decreto contenga un richiamo espresso a tale sbocco processuale si risolverebbe nella sostanziale introduzione, fra i requisiti del decreto di citazione a giudizio contemplati dall’art. 552 cod. proc. pen., di una clausola non prevista dalla legge.
9. Questioni in tema di riti speciali: in particolare, il procedimento per decreto ed il “patteggiamento”.
Con riferimento al procedimento per decreto, è da menzionare l’intervento nomofilattico compiuto da Sez. U, n. 20569 del 18/01/2018, P.M. in proc. Ksouri, Rv. 272715, che ha enunciato il principio secondo cui «non è abnorme, e quindi non ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, restituisca gli atti al pubblico ministero perché valuti la possibilità di chiedere l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. (In motivazione la Corte ha precisato che l’invito a verificare il carattere “particolarmente tenue” dell’illecito contestato nell’imputazione non implica alcuna invasione delle competenze dell’organo requirente, ma appartiene all’attività di qualificazione giuridica propria del giudice)».
Poiché tale decisione è oggetto di specifica ed analitica trattazione in altra parte di questa Rassegna, si rinvia al relativo commento. Un’interessante riflessione sul tema dei rapporti fra l’istituto dell’applicazione della pena ex artt. 444 e segg. cod. proc. pen. e la causa di non punibilità in esame proviene da Sez. 4, n. 9204 del 01/02/2018, Di Corato, Rv. 272265, a tenore della quale «è inammissibile il ricorso per cassazione avverso sentenza di patteggiamento sul motivo del mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in quanto siffatta causa di non punibilità non rientra nel novero delle ragioni di immediato proscioglimento previste dall’art. 129 cod. proc. pen., alla cui insussistenza è subordinata la pronuncia che accoglie la richiesta di applicazione di pena concordata».
In motivazione, la S.C. ha osservato che l’istituto introdotto dall’art. 131-bis cod. pen. esige un apprezzamento di merito, finalizzato al riscontro dei presupposti applicativi, incompatibile con la natura del rito.
Secondo la Corte, la questione non è, pertanto, equiparabile al rilievo di una causa estintiva del reato per la ragione che le ponderazioni sull’esistenza dei presupposti essenziali per l’applicabilità della causa di non punibilità ex art. 131-bis cit. sono caratterizzate da un’intrinseca ed insuperabile natura di merito.
10. Causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. ed interesse ad impugnare.
a) Interesse dell’imputato.
In tema di interesse ad impugnare i provvedimenti giudiziali che abbiano fatto applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., va segnalata Sez. 3, n. 18891 del 22/11/2017, dep. 2018, Battistella, Rv. 272877, secondo la quale «sussiste l’interesse dell’imputato ad impugnare la sentenza che esclude la punibilità del reato ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., trattandosi di pronuncia che: 1) ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (art. 651-bis cod. proc. pen.), 2) è soggetta ad iscrizione nel casellario giudiziale (art. 3, lett. f, d.P.R. n. 313 del 2002), 3) può ostare alla futura applicazione della medesima causa di non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis, comma 3, cod. pen.». Analogo itinerario argomentativo caratterizza Sez. 5, n. 32010 del 08/03/2018, Giordano, Rv. 273315, con peculiare riferimento al tema dei rapporti fra l’art. 131-bis cod. pen. e l’art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, applicabile al procedimento avanti al giudice di pace. Secondo tale decisione, «sussiste l’interesse a ricorrere dell’imputato nei cui confronti venga emessa sentenza ex art. 131-bis cod. pen. dal giudice di pace, considerato che, ai sensi dell’art. 651-bis cod. proc. pen., la decisione irrevocabile di proscioglimento per particolare tenuità del fatto ha efficacia di giudicato in ordine all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni o il risarcimento del danno». In tale prospettiva, la sentenza della Quinta sezione richiama, in via di necessaria premessa, la recente decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 53683 del 22/6/2017, Pmp ed altri, Rv. 271587-01 e Rv. 271588-01) che, risolvendo il conflitto insorto tra le sezioni semplici, ha stabilito che la causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., non è applicabile nei procedimenti relativi a reati di competenza del giudice di pace, in quanto il rapporto tra l’art. 131-bis cod. pen. e l’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000 non va risolto sulla base del principio di specialità tra le singole norme, dovendo prevalere la peculiarità del complessivo sistema sostanziale e processuale introdotto in relazione ai reati di competenza del giudice di pace, nel cui ambito la tenuità del fatto svolge un ruolo anche in funzione conciliativa. Ciò posto, si è osservato come non sia discutibile l’interesse dell’imputato ad ottenere l’annullamento della sentenza con cui viene dichiarata la non punibilità per particolarità tenuità del fatto, essendo evidente l’utilità per quest’ultimo di ottenere la rimozione di una sentenza che lo pregiudica, in relazione agli effetti stabiliti dall’art. 651-bis cod. proc. pen., introdotto nell’ordinamento insieme all’art. 131-bis cod. pen.
Diversa soluzione va prospettata, invece, laddove si tratti di decreto di archiviazione per particolare tenuità del fatto emesso dal giudice di pace senza previa notifica all’indagato, poiché, ai sensi dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, questi deve considerarsi privo di interesse ex art. 568 cod. proc. pen., posto che il decreto di archiviazione non comporta l’applicazione di alcuna sanzione, nemmeno accessoria, e non fa stato nei procedimenti civili o amministrativi, né è destinato ad essere iscritto nel casellario giudiziale. (Sez. 5, n. 48610 del 17/09/2018, M., Rv. 274144). La Corte ha osservato, in specie, che, secondo quanto previsto dall’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, nel processo dinanzi al giudice di pace la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata – allorché l’azione penale non sia stata ancora esercitata, trovandosi il procedimento nella fase delle indagini preliminari – «solo se non risulta un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento» (comma 2): dunque, nella fase investigativa è unicamente l’interesse della persona offesa (che deve risultare ex actis), non anche quello dell’indagato, che va assunto quale termine di riferimento ai fini della declaratoria in esame. Il che, osserva la Corte, esclude la necessità di una interlocuzione preventiva con le parti processuali (anche se non è vietato al giudicante di sentirle previamente); né sarebbe ipotizzabile la violazione dell’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., dal momento che, come chiarito dalle Sezioni unite (la citata sentenza n. 53683 del 2017), la normativa di cui all’art. 131-bis cod. pen. e quella concernente le disposizioni processuali correlate non sono applicabili nel procedimento innanzi al giudice di pace.
Ciò posto, la Corte ha rilevato l’insussistenza, nel caso sottoposto a giudizio, di alcun concreto interesse dell’indagato all’impugnazione del provvedimento de quo, posto che il decreto di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, emesso ex art. 34 cit., non è idoneo a recare alcun pregiudizio al beneficiario, perché non comporta l’applicazione di alcuna sanzione, nemmeno accessoria; non fa stato negli altri, eventuali procedimenti (civili o amministrativi) e non è destinato ad essere iscritto nel casellario giudiziale; né impedisce al beneficiato di richiedere, mediante denuncia, che si proceda nei confronti della controparte per il delitto di calunnia, o di promuovere un autonomo giudizio civile teso all’accertamento del fatto illecito consumato in suo danno.
b) Interesse della parte civile.
In ordine all’interesse ad impugnare della parte civile, Sez. 5, n. 21906 del 21/02/2018, P.C. in proc. La Mantia, Rv. 273310, ha affermato che è inammissibile per mancanza di interesse il ricorso della parte civile proposto, in assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero, avverso la sentenza con cui si è dichiarata la non punibilità per particolare tenuità del fatto, che non produce alcun effetto pregiudizievole nel giudizio civile in conseguenza di quanto previsto dall’art. 651-bis cod. proc. pen. in tema di efficacia della sentenza in sede civile, quanto alla sussistenza ed all’illiceità del fatto ed alla commissione dello stesso da parte dell’imputato.
Analoga soluzione è stata, altresì, adottata (Sez. 5, n. 13801 del 16/10/2017, dep. 2018, P.C. in proc. Tedesco, Rv. 272838) in relazione al ricorso della parte civile avverso la sentenza del giudice di pace con cui si sia dichiarata la non punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., piuttosto che ex art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000. Nel caso di specie, l’interesse all’impugnazione allegato dalla parte civile era legato alla mancata applicazione dell’apposito istituto di cui all’art. 34 cit., invece che di quello di cui all’art. 131-bis cod. pen.; al riguardo, ha precisato la Corte che sul punto l’art. 651-bis cod. proc. pen. «non lascia intravedere alcun concreto pregiudizio per la parte civile conseguente all’ “errore del giudice di appello”», posto che, in base all’enunciato della norma, la stessa può ottenere in sede civile il risarcimento dovuto, sul presupposto dell’intervenuto accertamento del fatto, della sua illiceità penale e della riferibilità all’imputato, con la conseguenza che il risultato sarebbe stato comunque il medesimo ottenibile ove fosse stato più correttamente applicato l’istituto di cui all’art. 34 cit., atteso che la dichiarazione di non procedibilità dell’azione penale ai sensi di tale ultima norma non impedisce la proposizione dell’azione di risarcimento in sede civile. In senso del tutto conforme, con riferimento all’interesse ad impugnare della parte pubblica, si registra, altresì, Sez. 5, n. 44128 del 26/06/2018, P., Rv. 274176), secondo cui «non sussiste l’interesse del P.M. ad impugnare la sentenza con la quale il giudice di pace ha dichiarato non punibile l’imputato per tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. anziché dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, atteso che tale nozione va individuata in una prospettiva utilitaristica di rimozione di uno svantaggio processuale, non ricorrente nella specie, e non si risolve in una astratta pretesa alla esattezza teorica del provvedimento». In tale panorama interpretativo, particolare rilievo assume Sez. 5, n. 3784 del 28/11/2017 – dep. 2018 –, P.C. in proc. Indraccolo, Rv. 272441, la quale ha precisato che sussiste, peraltro, l’interesse della parte civile ad impugnare la sentenza di non doversi procedere per particolare tenuità del fatto, qualora la stessa sia stata pronunciata dal giudice di pace in assenza di attività istruttoria, «in quanto il mancato accertamento del fatto, della sua rilevanza penale e della sua attribuibilità all’imputato comporta, ex art. 651-bis cod. proc. pen., che detta pronuncia non abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile». La decisione in esame perviene, in particolare, a delimitare il perimetro applicativo dell’orientamento della stessa Sezione Quinta, relativo, più propriamente, all’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. e rivolto ad escludere il suddetto interesse per le ragioni sopra evidenziate. Osserva, infatti, la sentenza che detto orientamento «fa correttamente riferimento ai casi in cui la pronunzia ex art. 131-bis cod. pen. intervenga all’esito dell’istruttoria dibattimentale ovvero acquisite le prove sull’accertamento del fatto, sulla sua rilevanza penale e sulla attribuibilità dello stesso all’imputato»; per converso, ove il giudice di pace, pur avendo proceduto all’apertura del dibattimento, abbia emesso il provvedimento impugnato in assenza di attività istruttoria e, quindi, in difetto di un accertamento del fatto contestato all’imputato, la “particolare tenuità” non può dirsi in alcun modo apprezzata «per mezzo di un giudizio sintetico sul fatto concreto, elaborato alla luce di tutti gli indici normativamente indicati, costituiti dall’esiguità del danno o del pericolo, dall’occasionalità della condotta, dal minore grado di colpevolezza e dall’eventuale pregiudizio sociale per l’imputato, avuto riguardo non alla fattispecie astratta di reato, ma a quella concretamente realizzata». Da ciò deriva che, in casi consimili, al mancato accertamento del fatto non può che conseguire la preclusione di efficacia della pronuncia ai sensi dell’art. 651-bis cit., con conseguente interesse della parte civile all’impugnazione del provvedimento.
11. Limiti di rilevabilità e di deducibilità nel giudizio di legittimità ed in quello di rinvio.
Sez. 3, n. 23174 del 21/03/2018, Sarr, Rv. 272789, ha ribadito il principio, già affermato da precedenti arresti di legittimità (Sez. 3, n. 19207 del 16/03/2017, Celentano, Rv. 269913; Sez. 5, n. 57491 del 23/11/2017, Moio, Rv. 271877), secondo cui «la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis cod. pen., non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, se tale disposizione era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza di appello, ostandovi la previsione di cui all’art. 606, comma 3, cod. proc. pen.». Nel dare continuità a tale principio, il Collegio ha richiamato la riconosciuta natura atipica della menzionata «speciale causa di non punibilità» in ragione degli effetti negativi che produce per l’imputato (anzitutto, la possibile rilevanza nei giudizi civili ed amministrativi ed, ancora, l’iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale), onde la sua applicazione presuppone, fra l’altro, l’accertamento della responsabilità penale, ossia l’accertamento dell’esistenza del reato e della sua attribuibilità all’imputato.
Parimenti, la Corte ha ricordato l’orientamento che, attribuendo natura sostanziale al citato istituto, ne ha riconosciuto l’applicabilità ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Corte di cassazione può anche rilevare di ufficio ai sensi dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. la sussistenza delle condizioni di applicabilità della norma, sulla base delle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata, dovendo, in caso di valutazione positiva, annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito. In tale cornice ricostruttiva, peraltro, il Collegio ha preso le distanze dal minoritario indirizzo ermeneutico secondo cui la causa di esclusione della punibilità può essere rilevata d’ufficio nel giudizio di legittimità, in presenza di un ricorso ammissibile, anche se la stessa non sia stata dedotta nel corso del giudizio di appello pendente alla data di entrata in vigore della norma, a condizione che i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali (cfr. Sez. 6, n. 7606 del 16/12/2016, Curia, Rv. 269164, Sez. 3, n. 6870 del 28/04/2016, Fontana, Rv. 269160). Tale indirizzo, secondo la decisione in esame, non è condivisibile in quanto «fondato su una parziale lettura» di quanto affermato da Sez. U, n. 13681 del 25/10/2016, Tushaj, Rv. 266594, e da Sez. U, n. 13682 del 25/10/2016, Coccimiglio, Rv. 266595, le quali «hanno espressamente vincolato la rilevabilità d’ufficio della causa di esclusione della punibilità nel giudizio di legittimità all’obbligo di applicazione della lex mitior sopravvenuta e, dunque, presuppongono che la sentenza impugnata sia anteriore alla entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28», con la conseguenza che la stessa causa di non punibilità non può essere fatta valere nei casi, come quello in scrutinio, in cui la sentenza impugnata sia stata emessa successivamente alla data di entrata in vigore del predetto decreto legislativo, senza che il ricorrente ne abbia chiesto l’applicazione nei motivi di appello e neppure in sede di conclusioni del giudizio di secondo grado.
Ad analoghi registri interpretativi appare ispirata anche Sez. 7, n. 15659 del 08/03/2018, Cavasin, Rv. 272913, secondo cui «in caso di riforma in appello della sentenza assolutoria, la questione dell’applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di legittimità atteso che, all’esito della celebrazione del giudizio di appello, la difesa dell’imputato, nel formulare le proprie conclusioni, può avanzare, anche in via subordinata, richiesta di applicazione di detta causa di non punibilità».
Con riferimento ad una fattispecie in cui la prima sentenza di appello era stata emessa precedentemente all’introduzione dell’art. 131-bis cod. pen., mentre il giudizio rescindente era stato celebrato dopo la previsione della nuova causa di non punibilità, Sez. 6, n. 18061 del 15/03/2018, Cerra, Rv. 272974 ha affermato che, «nel caso di annullamento con rinvio limitatamente alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio, al giudice del rinvio è preclusa la possibilità di dichiarare la non punibilità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. non rilevata nel giudizio rescindente, essendosi formato il giudicato sull’insussistenza della causa di non punibilità».
12. Particolare tenuità del fatto e procedimento avanti al giudice di pace.
Infine, nel focalizzare l’attenzione sulle recenti pronunce di legittimità afferenti al procedimento davanti al giudice di pace, va ricordato che l’operatività dell’istituto della improcedibilità “nei casi di particolare tenuità del fatto” è subordinata a due diverse condizioni, a seconda della fase del procedimento in cui esso trova applicazione. Nel corso delle indagini preliminari, come ricordato, la particolare tenuità può essere dichiarata purché non risulti un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento (art. 34, comma 2, d.lgs. n. 274 del 2000); a seguito dell’esercizio dell’azione penale, invece, la sentenza di assoluzione per particolare tenuità del fatto può essere emessa «solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono» (art. 34, comma 3, d.lgs. cit.), onde la volontà di non opporsi deve essere accertata in concreto dal giudice di merito, sia tramite interpello o per effetto di spontanea dichiarazione dell’interessato, sia, anche, per fatti assolutamente sintomatici in quanto univoci e concludenti. In siffatto quadro di disciplina, in un’ipotesi in cui la persona offesa aveva inequivocabilmente chiarito di voler coltivare la sua istanza punitiva con la costituzione in giudizio come parte civile, Sez. 5, n. 3784 del 28/11/2017, dep. 2018, P.C. in proc. Indraccolo, Rv. 272442, ha affermato che è illegittima la sentenza con cui, in assenza di richiesta dell’imputato e di specifica interlocuzione con la persona offesa comparsa in udienza e costituitasi parte civile, il giudice di pace dichiari l’improcedibilità dell’azione penale per particolare tenuità del fatto, poiché, dopo l’esercizio dell’azione penale stessa, tale pronuncia impone l’accertamento della volontà non ostativa delle parti.
13. Particolare tenuità del fatto e responsabilità degli enti da reato.
In tema di responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Sez. 3, n. 9072 del 17/11/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Ficule, Rv. 272447, ha affermato il principio secondo cui, qualora nei confronti dell’autore del reato presupposto sia stato applicato l’art. 131-bis cod. pen., il giudice deve procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso, che non può prescindere dalla verifica della sussistenza in concreto del fatto di reato, non essendo questa desumibile in via automatica dall’accertamento contenuto nella sentenza di proscioglimento emessa nei confronti della persona fisica.
Nel pervenire a tali conclusioni, la Corte ha esaminato criticamente le due possibili soluzioni alla questione relativa alla configurabilità o meno di una responsabilità in capo all’ente, sulla base del d.lgs. n. 231 del 2001, nelle ipotesi di applicazione nei confronti dell’imputato-persona fisica della causa di non punibilità in esame. Secondo una prima opzione interpretativa, in casi consimili dovrebbe escludersi la responsabilità a titolo di illecito amministrativo derivante da reato, in quanto la lettera dell’art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001 non ricomprende espressamente la ricorrenza di cause di non punibilità (come quella contemplata dall’art. 131-bis citato) fra le ipotesi in cui permane comunque la responsabilità dell’ente. Altra soluzione, invece, ritiene irragionevole ammettere, da un lato, la responsabilità dell’ente nelle ipotesi di estinzione del reato ex art. 8, comma 1, lett. b), d.lgs. citato ed escluderla, dall’altro, nelle ipotesi di reato accertato ma non punibile. Rispetto al primo gruppo di ipotesi, invero, la giurisprudenza della Corte ha riconosciuto, analizzando il caso paradigmatico della prescrizione del reato presupposto, che il giudice deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso, precisando che tale accertamento non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato (cfr. Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255369). D’altro canto, prosegue la Corte, la sentenza che dichiara l’imputato non punibile ex art. 131-bis, cod. pen. «esprime un’affermazione di responsabilità, pur senza una condanna, e pertanto non può assimilarsi ad una sentenza di assoluzione, ma lascia intatto il reato nella sua esistenza, sia storica e sia giuridica (in dottrina si è utilizzata l’espressione cripto condanna)», tanto da doversi iscrivere nel casellario giudiziale ed avere effetto di giudicato (quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso) nel giudizio civile o amministrativo di danno, ex art. 651-bis, cod. proc. pen.
Di qui la conclusione che anche nell’ipotesi problematica in esame il giudice deve procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso; in tale prospettiva, la Corte ha escluso che la sentenza di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. possieda efficacia vincolante nel giudizio relativo alla responsabilità dell’ente ex l. n. 231 del 2001, ostandovi la lettera dell’art. 651-bis, cod. proc. pen., che limita l’effetto della decisione al giudizio civile o amministrativo di danno. Dunque, nessun automatismo applicativo, ma una verifica in concreto circa la sussistenza del fatto di reato quale precondizione per l’affermazione della responsabilità in parola.
14. Causa di non punibilità e m.a.e.
In tema di mandato di arresto europeo, Sez. 6, n. 2059 del 16/01/2018, Coltan, Rv. 272137, ha ritenuto che, per soddisfare la condizione della doppia punibilità prevista dall’art. 7, comma 1, legge 22/04/2005, n. 69, è sufficiente che il fatto sia previsto come reato in entrambi gli ordinamenti, essendo, invece, irrilevanti non solo l’eventuale eterogeneità delle previsioni inerenti alle circostanze aggravanti – a condizione che la natura ed il contenuto dell’elemento circostanziale non determinino un mutamento del fatto –, ma anche le eventuali valutazioni discrezionali relative alle possibili condizioni di non punibilità previste nell’ordinamento interno. Nella specie, il ricorrente lamentava la violazione della condizione di doppia punibilità in relazione ad un m.a.e. relativo all’esecuzione di una sentenza di condanna per furto aggravato, deducendo sia la mancata previsione nell’ordinamento interno della contestata aggravante della consumazione del furto in orario notturno, sia la non punibilità della condotta per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.
15. Casistica
In chiusura di trattazione, appare utile richiamare una breve casistica al fine di meglio illustrare la concreta applicazione, da parte della Suprema Corte, dei descritti parametri di valutazione della particolare tenuità del fatto. Ai fini della applicazione della causa di esclusione della punibilità in relazione al reato di omesso versamento dei contributi previdenziali, Sez. 3, n. 30179 del 11/05/2018, Altobrando, Rv. 273685 e Rv. 273686, ha affermato che il giudice, per verificare la sussistenza del necessario requisito della non abitualità del comportamento, può prendere in considerazione il numero delle mensilità nelle quali la condotta omissiva si è verificata, nonché l’importo complessivo dei contributi non versati e l’entità del superamento della soglia di punibilità. In ipotesi di lottizzazione abusiva, Sez. 3, n. 51489 del 18/09/2018, B., in corso di massimazione, ha ritenuto che la valutazione della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non può prescindere dalla oggettiva gravità dell’attività edilizia posta in essere per le conseguenze che essa determina sull’assetto del territorio, elemento che deve essere considerato unitamente agli altri parametri di valutazione rilevanti per gli abusi edilizi e paesaggistici. (Nella specie, la Corte ha ritenuto immune da vizi la decisione della corte di appello che aveva escluso la declaratoria di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen., in considerazione della grave compromissione del territorio provocata dalla lottizzazione abusiva eseguita in zona vincolata). Sempre in materia edilizia, con particolare riferimento alle fattispecie di cui agli artt. 93 e 95 del d.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001, Sez. 3, n. 783 del 20/04/2017, dep. 2018, P.M. in proc. Bruno, Rv. 271865, ha fissato il principio secondo cui la particolare tenuità va verificata alla luce della concreta entità dell’intervento edilizio realizzato, dello stato, della condizione, della natura e della morfologia dei luoghi, tenendo conto del bene giuridico protetto e dell’interesse sotteso alla specifica disposizione incriminatrice, consistente nella tutela della pubblica incolumità dal rischio sismico. (Fattispecie in cui la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza che aveva riconosciuto detta causa di non punibilità sul presupposto dell’esistenza di un titolo abilitativo alla realizzazione di interventi di restauro e risanamento conservativo di un fabbricato preesistente e sulla modesta incidenza urbanistica delle opere realizzate). Secondo Sez. 4, n. 46438 del 28/09/2018, M., Rv. 273933, in materia di contravvenzioni di cui all’art. 186 commi 2 e 7 cod. strada il giudice è tenuto ad accertare che il fatto illecito non abbia generato un contesto concretamente e significativamente pericoloso con riguardo ai beni tutelati dalla norma. (Nella specie, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna relativa al reato di cui all’art. 186, comma 7 cod. strada, che aveva negato la sussumibilità del fatto nell’ipotesi prevista dall’art. 131-bis cod. pen. in considerazione del comportamento, ritenuto non improntato a lealtà e correttezza, tenuto dall’imputata che, dopo essersi rifiutata di sottoporsi agli accertamenti di rito nell’immediatezza, aveva consegnato alla polizia un test negativo a sette giorni di distanza dall’incidente).
Fonte: Paolo Bernazzani - Volume I 2018 Massimario Penale Cassazione