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Lesioni personali: è correttamente contestata l'aggravante anche se non menzionata la norma di legge


Corte di Cassazione

La massima

In tema di lesioni personali volontarie, deve ritenersi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza l'aggravante delle più persone riunite nel caso in cui il capo d'imputazione, pur non menzionando l' art. 585, comma 1, c.p. , rappresenti la simultanea presenza di almeno due soggetti nel luogo e al momento di realizzazione della condotta violenta (Cassazione penale , sez. V , 28/04/2022 , n. 22120).

Fonte: Ced Cassazione Penale 2022


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La sentenza

Cassazione penale , sez. V , 28/04/2022 , n. 22120

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Lecce ha confermato la decisione del Tribunale di Brindisi che, all'esito del giudizio ordinario, aveva dichiarato U.S. e L.M.P. colpevoli, in concorso, dei reati, rubricati al capo 3), di lesioni aggravate ai danni di F.S. (giudicate guaribili in 30 giorni) e di violenza privata ai danni di I.A.M., e il solo U. anche del reato di minaccia aggravata (capo 2), condannandoli alle pene ritenute di giustizia.


2. Hanno proposto ricorso per cassazione i predetti imputati, a mezzo del medesimo difensore di fiducia, il quale svolge quattro motivi.


2.1. Con il primo motivo, denuncia erronea applicazione della legge e correlati vizi della motivazione. Espone che, erroneamente, la Corte di appello ha ravvisato la procedibilità di ufficio in ordine al reato di lesioni personali, per la ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 585 c.p., comma 1 (fatto commesso da più persone riunite), giacché detta circostanza aggravante non è stata contestata nell'imputazione. Ne' la procedibilità è ancorabile alla durata delle lesioni (30 giorni), dal momento che la stessa persona offesa ha dichiarato in dibattimento di essere guarito in un paio di settimane. Da qui la illogicità della motivazione.


2.2. Con il secondo motivo si lamenta la totale mancanza della motivazione in ordine alla partecipazione del L.M. alla violenza privata di cui al capo 3), così come manca una motivazione plausibile in merito alla affermata responsabilità dei due imputati per i delitti di lesioni e violenza privata.


2.3. Con il terzo motivo, che ha riguardo al reato di minaccia, ascritto al capo 2) al solo U., si denunciano vizi della motivazione, giacché la Corte di appello ha affermato la responsabilità del ricorrente in spregio al canone del ragionevole dubbio, pur ammettendo non essere stato accertato il momento in cui venne profferita la minaccia.


2.4. L'ultimo motivo attinge il trattamento sanzionatorio, denunciando ancora vizi della motivazione, giacché la Corte di appello, ignorando le lamentele difensive, ha fatto generico riferimento alla personalità violenta dell' U., senza individuare più concreti e specifici elementi decisivi nella scelta della pena irrogata.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi propongono motivi inammissibili, vuoi perché manifestamente infondati, vuoi perché riversati in fatto e reiterativi di doglianze già esposte con gli appelli, e adeguatamente affrontate dalla Corte di appello.


2. Il primo motivo è manifestamente infondato.


E' noto che la procedibilità a querela della persona offesa del reato di lesioni personali è limitata alla ipotesi, prevista dall'art. 582 c.p., comma 2, di una durata della malattia, derivante dalle lesioni, non superiore a venti giorni, salvo che non ricorrano le aggravanti indicate dalla disposizione, tra cui quelle previste dall'art. 585 c.p..


2.1. Nel caso di specie, la aggravante del fatto commesso da più persone riunite, introdotta dalla L. 15 luglio 2009, n. 94, nel corpo dell'art. 585 c.p., comma 1, - per la cui integrazione, in tema di delitti contro la vita e l'incolumità individuale, è richiesta la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e al momento di realizzazione della condotta violenta, pur se questa sia posta in essere da una soltanto di esse (Sez. 5 -, n. 12743 del 20/02/2020, Rv. 279022) - è chiaramente contestata in fatto, laddove si legge, nel capo di imputazione, che U. e L.M. hanno agito in concorso tra loro, l'uno colpendo la vittima e l'altro tenendola bloccata, risultando, dalla descrizione del fatto, anche la contemporanea presenza di una terza persona, O.A. (poi assolto per non aver commesso il fatto). 2.2. Come è noto, le Sezioni Unite "Sorge" (Sez. Un. 24906 del 18/04/2019, Rv. 27543601)


- che hanno escluso che, in tema di reato di falso in atto pubblico, possa ritenersi legittimamente contestata, sì che non può essere ritenuta in sentenza dal giudice, la fattispecie aggravata di cui all'art. 476 c.p., comma 2, qualora nel capo d'imputazione non sia esposta la natura fidefacente dell'atto, o direttamente, o mediante l'impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l'indicazione della relativa norma - hanno, tuttavia, avvertito che a conclusioni diverse - nel senso dell'ammissibilità della c.d. "contestazione in fatto" - può giungersi, quando la circostanza aggravante valorizzi "comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive. In questi casi, l'indicazione di tali fatti materiali è idonea a riportare nell'imputazione la fattispecie aggravatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, rendendo possibile l'adeguato esercizio dei diritti di difesa dell'imputato" (conf. sez. II, 18/12/2019 (dep. 2020), n. 15999, Rv. 279335).


2.3. Ciò ricorre nel caso di specie, in cui, come premesso, l'imputazione contiene la chiara descrizione della condotta aggravatrice correlata alla contemporanea presenza di più persone durante l'actio criminis. Risulta, dunque, acclarata la sussistenza di una delle circostanze aggravanti la cui presenza esclude la procedibilità a querela per le lesioni personali, anche laddove la malattia che ne è derivata abbia una durata contenuta nei venti giorni.


2.4. Per vero, tuttavia, i giudici di merito, con accertamento in fatto insindacabile in questa sede, attenendosi alle regole della pratica medica, hanno riscontrato che le lesioni provocate a F.S. hanno avuto una durata di trenta giorni (Sez. 4, n. 12035 del 21/10/1982, Rv. 156699), circostanza, questa, neppure contestata con il gravame di merito. Giova, in ogni caso, ricordare che, al fine di determinare la durata della malattia, non ha di per sé rilevanza la circostanza che la persona offesa abbia ripreso l'attività lavorativa, dovendosi, invece, fare riferimento alla data della guarigione clinica, dal momento che occorre avere riguardo alla incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni, considerando anche il periodo di convalescenza o quello di riposo dipendente dalla malattia (Sez. 5 n. 4014 del 27/10/2015 (dep. 2016) Rv. 267556; conf. sez. 5 -, n. 11727 del 16/01/2020 Rv. 279043, in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva riconosciuto l'aggravante all'esito di una consulenza tecnica che aveva indicato la durata della malattia in un periodo superiore a 40 giorni, nonostante l'INPS avesse attestato un'incapacità lavorativa per soli 30 giorni). Ne discende che, anche con riferimento all'anzidetta circostanza aggravante, la doglianza difensiva, afferente alla procedibilità del reato di lesioni, risulta infondata.


3. Anche il secondo motivo è infondato, dal momento che, dalla ricostruzione dei giudici di merito - operata nelle due conformi pronunce, le quali, quindi, si integrano vicendevolmente, la partecipazione del L.M. alla violenza privata commessa materialmente dall' U. è stata congruamente ricostruita, nel senso che, mentre U. tratteneva I., impedendogli di soccorrere il F., L.M. lo aggrediva: non può, dunque, ragionevolmente dubitarsi del contributo causale fornito dal L.M. all'azione dell' U., dal momento che, ai fini della configurabilità della fattispecie del concorso di persone nel reato (art. 110 c.p.), il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell'evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà. Ne deriva che, a tal fine, è sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore che arrechi un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l'agevolazione dell'opera degli altri concorrenti e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l'esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato, perché in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti. (Sez. 5, n. 21082 del 13/04/2004, Rv. 229200; conf. Sez. 4, n. 4383 del 10/12/2013, Rv. 258185; Sez. 6, n. 1986 del 06/12/2016 Rv. 268972; Sez. 4 -, n. 52791 del 08/11/2018 Rv. 274521),In realtà, nel caso di specie, la contestualità delle condotte di U. (autore della violenza privata consistita nel bloccare fisicamente I. impedendogli di intervenire in soccorso di F.) e di L.M. (che aggrediva malamente il F.) rende plasticamente evidente il contributo fornito da ciascuno all'azione dell'altro.


4. Con riferimento al delitto di minaccia contestato all' U., la Corte territoriale ha ritenuto provato adeguatamente che questi abbia minacciato gravemente lo I., ritenendo ipotizzabile e, quindi provato, che l' U. abbia proferito la minaccia prima davanti allo spaccio e, plausibilmente, anche nel corso della successiva aggressione. Nessun ragionevole dubbio può, dunque, sussistere in merito alla responsabilità dell' U. per le parole pronunciate all'indirizzo di I. ("tu e la tua famiglia fighetta dovete morire"), dal momento che sul punto sono intervenute le dichiarazioni di un testimone, Fa.Ma., estraneo alle parti in causa, che ha riferito delle parole minacciose pronunciate dall' U. nel primo incontro con la persona offesa, I.A., dinanzi allo spaccio. E' provato, cioè, che egli abbia pronunciato dette parole quantomeno in quella prima occasione.


5. Manifestamente infondato anche il quarto motivo, che omette di confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata, che ha spiegato le ragioni del discostamento dal minimo edittale, genericamente dedotto dagli appellanti, e comunque, ritenendo la pena individuata dal primo giudice congrua in riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p..


6.Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge (art. 616 c.p.p.) la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal ricorso (Corte Costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000), al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo fissare in Euro 3000,00.


P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000 in favore della Cassa delle ammende.


Così deciso in Roma, il 28 aprile 2022.


Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2022

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