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IL CASO DI STUDIO: Bancarotta fraudolenta, imprenditore assolto perché il fatto non sussiste.




Il caso di studio riguarda un processo per bancarotta fraudolenta distrattiva instaurato contro un imprenditore di Santa Maria Capua Vetere, conclusosi con una sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste.

Bancarotta fraudolenta, imprenditore assolto perché il fatto non sussiste

IL CASO

Capo di imputazione: Delitto p. e p. dall'art. 81 cpv. c.p. - 216 co. 1 n. 1 219-222 co. 1 R.D. n. 267/42 perché, quale amministratore unico della E. s.p.a. dichiarata fallita, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, distraeva la complessiva somma di euro 810.000,00 con le condotte di seguito descritte: disponeva nel periodo marzo 2011-marzo 2012, mediante emissione di assegni di corrispondente valore tratti sul conto corrente della società, pagamenti nella misura indicata in favore di P.G., in assenza di qualsivoglia valida giustificazione causale riferibile alla fallita. In Santa Maria Capua Vetere il 24.9.2014 - data della dichiarazione di fallimento -.


Decisione: Imprenditore assolto perché il fatto non sussiste.

Per il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, il reato di bancarotta fraudolenta non sussiste se l'imprenditore restituisca, nel periodo di dissesto della società, somme indebitamente percepite per essere rimasto estraneo alla compagine sociale per la mancata stipula del contratto definitivo di compravendita di partecipazioni azionarie non trattandosi di restituzione di finanziamenti ai soci, nè di pagamento di un debito proprio o dei propri soci, in quanto ricevute per il tramite della società controllante e pertanto mai entrate a far parte del patrimonio della società fallita.



IL TESTO DELLA SENTENZA

Tribunale S.Maria Capua V. sez. III, 03/11/2017, (ud. 22/09/2017, dep. 03/11/2017), n.3818

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con decreto del 13.12.2016 il G.I.P. di Santa Maria Capua Vetere rinviava a giudizio L.P. per rispondere del delitto allo stesso ascritto in rubrica.


All'udienza del 20.3.2017 il Tribunale costituiva le parti e rinviava preliminarmente per l'assenza dei testi.


Il 3.4.2017 il processo veniva trasmesso dalla Sez. I Penale Coll. C alla Sez. III Penale Coll. B ai sensi del decreto del Presidente del Tribunale n. 70/2017; la trattazione non era possibile a causa dell'assenza dei testi.


All'udienza del 12.5.2017 il Tribunale dichiarava aperto il dibattimento, ammetteva le istanze sui mezzi istruttori avanzate dalle parti e procedeva con l'esame del teste G.G.; il Collegio dichiarava utilizzabile la relazione ex art. 33 L.F. redatta dal teste escusso.


Il 9.6.2017 il processo non poteva essere trattato per l'adesione del G.O.T. Dr.ssa Chiara Torricella all'astensione dalla trattazione delle udienze proclamata dalla categoria delle Magistrature Onorarie.


All'udienza del 14.7.2017 rendeva esame l'imputato e veniva escusso il consulente della difesa D.G.G.


All'odierna udienza il Tribunale acquisiva la scrittura privata intercorsa tra i promittenti venditori L.P., L.D. e L.A. e i promittenti acquirenti P.G. e P.A., dichiarava chiusa l'istruttoria dibattimentale e, sentite le conclusioni delle parti, dopo aver deliberato in camera di consiglio, pronunciava sentenza mediante lettura del dispositivo in pubblica udienza, riservandosi il deposito dei motivi nel termine di sessanta giorni.


MOTIVI DELLA DECISIONE

Alla luce dell'istruttoria dibattimentale svolta deve escludersi la sussistenza della fattispecie in contestazione.

Deve in premessa considerarsi che la bancarotta fraudolenta patrimoniale cd. "propria" è integrata nel caso in cui l'imprenditore distragga, occulti, dissimuli, distrugga o dissipi in tutto o in parte i beni della propria impresa; l'oggetto materiale del reato è quindi rappresentato da tutti gli elementi del patrimonio afferente l'impresa e quindi tutti i beni materiali (beni immobili, macchinari, beni strumentali, materia prime, giacenze di magazzino, denaro, etc.) ed immateriali (diritti di privativa industriale, marchi, know hew, etc.), diritti di credito e diritti patrimoniali su beni detenuti in leasing.


La qualificazione di questa fattispecie di bancarotta come patrimoniale discende dal fatto che tutte le condotte incriminate implicano una diminuzione del patrimonio in danno dei creditori.


L'ipotesi più frequente di bancarotta fraudolenta patrimoniale è senz'altro quella per distrazione, tèrmine questo da ritenersi comprensivo in via residuale di tutte le condotte diverse dall'occultamento, la dissimulazione, la distruzione e la dissipazione e che comportino un ingiustificato distacco di beni o attività dal patrimonio dell'imprenditore, con conseguente sottrazione di essi alla funzione di garanzia nei confronti dei creditori a causa del depauperamento (omissis) diminuzione patrimoniale o un'assunzione di obbligazioni).


Più specificamente il concetto di distrazione, sta ad indicare due diverse tipologie di comportamento: l'estromissione di un bene dal patrimonio dell'imprenditore senza un'adeguata contropartita ovvero la destinazione dello stesso a scopi estranei agli interessi dell'impresa.


Quanto alla prova della distrazione è consolidato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la fattispecie sussiste quando l'imprenditore abbia avuto a disposizione dei beni e all'atto della dichiarazione di fallimento non abbia saputo render conto del loro mancato reperimento e non abbia potuto giustificare la destinazione per le effettive necessità dell'impresa.


Non si tratta di un'ipotesi di inversione dell'onere della prova, in quanto l'accertamento dell'irreperibilità di beni e valori indicati nell'attivo patrimoniale dell'impresa o l'accertamento della mancanza di documentazione della destinazione di spese contabilizzate, integra l'acquisizione probatoria di un fatto certo, dal quale desumere, in base ad una generale regola di esperienza, la dolosa distrazione di quei beni da parte dell'imprenditore fallito, con l'ulteriore precisazione che il fatto accertato nei termini suesposti costituisce la prova indiziaria della distrazione ai sensi dell'art. 192 co. 2 c.p.p. e che, come ogni prova a carico dell'imputato, comporta la necessità che questi la contrasti con prove a discarico.


Quanto alla natura giuridica del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, in giurisprudenza è consolidato l'orientamento secondo cui si tratta di un reato di pericolo concreto, per la cui configurabilità non è necessaria l'esistenza di un rapporto causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, né che il soggetto agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, essendo sufficiente che con la propria azione abbia cagionato un depauperamento dell'impresa stessa destinando risorse ad impieghi estranei alla sua attività; la concretezza del pericolo assume la sua dimensione effettiva soltanto nel momento in cui interviene la dichiarazione di fallimento (Cass. Pen. Sez. V sent. 47616 del 17.7.2014; conf. Cass. Pen. Sez. V sent. n. 49622 del 16.6.2015). Alla luce di tale assunto è chiaro che gli atti distrattivi del patrimonio saranno perseguibili in qualunque momento siano stati compiuti, a prescindere da qualsiasi collegamento eziologico con il fallimento e che quindi la cd. "zona di rischio penale" possa estendersi a ritroso nel tempo senza alcun limite (Cass. Pen. Sez. V sent. n. 49622 del 16.6.2015).


L'elemento psicologico è costituto dal dolo generico della coscienza e volontà del soggetto agente di porre in essere atti lesivi del patrimonio aziendale in danno dei creditori (dolo diretto) o anche che abbia soltanto accettato il rischio della perdita patrimoniale e della conseguente lesione dell'interesse dei creditori (dolo eventuale); e cioè sufficiente che l'imprenditore abbia agito nella consapevolezza di dare ai beni dell'impresa fallita una destinazione diversa da quella dovuta secondo la funzionalità dell'impresa stessa, privando quest'ultima di risorse e i garanzie per i creditori (Cass. Pen. Sez. V sent n. 5590 del 18.11.2014; conf. Cass. Pen. Sez. V sent n. 47545 del 16.9.2015). Non occorre invece che l'imprenditore abbia consapevolezza dello stato di dissesto in cui si trova l'impresa in quanto il fallimento pur essendo un elemento costitutivo della fattispecie di bancarotta, non costituisce l'evento della condotta distrattiva e quindi non deve essere "coperto" dall'elemento soggettivo (Cass. Pen. Sez. V sent n. 47502 del 24.9.2012).


Tanto premesso in linea generale e passano al caso che ci occupa, rilevante ai fini della decisione è la relazione ex art. 33 L.F. redatta dal curatore fallimentare avv. G.G., dalla lettura della quale emerge che la società fallita - sentenza del Tribunale di Santa Maria Capita Vetere Sezione Fallimentare n. 67 del 25.9.2014 - era stata costituita il 17.6.1998 come Tecnocarta s.r.l., impresa avente ad oggetto il riciclo, la produzione e la trasformazione di carta per uso domestico; la sede sociale era stata fissata a Perugia.


Il 9.6.1999 C.A. aveva acquistato la totalità delle quote sociali e l'aveva trasformata in società per azioni, la E. s.p.a.; dalla data della sua costituzione e fino al 2005 l'impresa non aveva mai operato e aveva solo presentato il progetto n. 168/98 al fine di ottenere le agevolazioni di cui alla legge 488/92, riuscendo a ricevere il contributo di euro 7.194.000 circa in data 3.3.1999.


Ottenuta l'approvazione del progetto, il C. nell'anno 2000 aveva acquistato un terreno nel Comune di Pietramelara per costruirvi l'opificio e aveva affidato i lavori di costruzione alla E. S. s.r.l. dei fratelli L.; tuttavia, prima che le opere fossero ultimate, il 27.6.2001 aveva ceduto il 98% delle azioni alla Holding 2000 s.r.l. amministrata da D'A.A., per poi cedere nel 2002 il restante 2% ai fratelli L.P., L.D. e L.N., che contestualmente avevano acquistato un ulteriore 3% dal D'A.A.; nello stesso anno il Banco di Napoli aveva concesso un mutuo di euro 6.200.000.


Nel tempo la E. S. aveva progressivamente incrementato la propria quota azionaria nella E. s.p.a. fino a raggiungere il 57,76% a fronte del 42,24 % della Holding 2000 s.r.l. dal 2.8.2005; amministratore della società era divenuto L.P., che avrebbe mantenuto la carica in maniera sostanzialmente ininterrotta fino alla dichiarazione di fallimento.


Nel 2005 la sede della società era stata trasferita a Pietramelara e in data 28.7.2005 era finalmente iniziata la produzione di carta e cartone ad uso domestico.


Le difficoltà finanziarie si erano tuttavia manifestate sin da subito e il 3.1.2007, essendo (omissis) pacchetto azionario della E. - avevano sottoscritto una scrittura privata con la quale si erano impegnati a cedere una parte delle proprie azioni della E. s.p.a. "per il tramite di società da essi controllate" a P.G. nella misura del 25% e a P.A. nella misura del 25% per il presso di euro 1.500.000 ciascuno, da corrispondersi un milione all'atto della firma di quell'accordo, un milione entro il 10.1.2007 e un milione entro il 30.4.2007, all'atto della stipula del contratto definitivo di compravendita.


Le parti si erano impegnate altresì ad istituire un consiglio di amministrazione composto da tre membri, uno nominato dal P.A., uno dal P.G. e uno dai promittenti venditori e che l'amministratore delegato sarebbe stato il P.A.


Il consulente riguardo a tale accordo esponeva: "tale accordo finirà con il naufragare senza portare alcun beneficio finanziario alla società, ma come si illustrerà in seguito, finirà per aggravare la critica situazione aziendale". Nel prosieguo della relazione, sotto la voce "pagamenti e atti revocabili" sottolineava infatti che approfondimenti avrebbero meritato i rapporti tra i fratelli L. e P.G.


Esponeva a riguardo che quel preliminare di vendita non era stato seguito dalla stipula del definitivo e che anzi il 3.4.2012 era stata siglata una nuova scrittura privata tra P.G. e L.P. con la quale si era pattuito che quest'ultimo avrebbe restituito al primo euro 90.000 mensili per la restituzione del milione e 500.000,00 euro versati tra il 3.1.2007 ed il 30.4.2007.


Scriveva inoltre che esaminata la contabilità della società fallita, aveva rilevato che effettivamente nel periodo tra il 10.3.2011 ed il 6.3.2012 dal conto corrente acceso presso la Cariparma di E. erano stati emessi assegni dell'importo ciascuno di euro 90.000 in favore del P. per un importo complessivo di euro 810.000,00.


Ebbene in merito al rapporto tra il L. ed il P., il G. giudicava il pagamento degli 810.000 euro un'operazione censurabile, perché la cessione delle partecipazioni sociali è una vicenda finanziaria che riguarda i soci e non la società; pertanto il pagamento di euro 1.500.000 avvenuto nel 2007 non avrebbe interessato la E. ma i soli soci cedenti e quindi non poteva essere ammissibile una restituzione di quei soldi da parte di tale ultima società, in danno evidentemente dei propri creditori. Rassegnava come ulteriore considerazione che laddove quei pagamenti avessero dovuto intendersi come restituzione di finanziamenti ai soci, anche in quel caso l'operazione sarebbe stata censurabile, tenuto conto che in una situazione di insolvenza conclamata non era ammissibile decidere di utilizzare le uniche risorse disponibili per pagare i soci.


Esponeva ancora, quanto alla individuazione delle cause del fallimento, che L.P. proveniva dal settore edile e non aveva alcuna esperienza o formazione che lo potesse porre nelle condizioni di dirigere un'industria cartaria; era in effetti mancata una pianificazione industriale e economica tale da garantire un equilibrio finanziario nel lungo periodo. Inoltre un probabile cattivo funzionamento dell'impianto aveva comparato esorbitanti consumi di energia elettrica e di gas (consumi superiori ai 4 milioni annui), circostanza che aveva inciso significativamente sulla crisi a causa del costo eccessivo del prodotto e della scarsa competitività che ne erano derivati.


i interesse ai fini della decisione è anche la relazione redatta dal consulente della difesa, commercialista esperto contabile, Dr. G.D.G. il quale, dopo avere ricostruito la storia della società fallita, si è soffermato a sottolineare la costante attività di finanziamento operata dalla società controllante E. S. s.r.l. - in favore della controllata E. s.p.a., con particolare riferimento all'anno 2007, allorquando la prima aveva erogato alla seconda complessivi euro 2.469.000, al fine di garantire l'approvvigionamento delle materie prime - provenienti esclusivamente dall'estero - e per pagare l'energia elettrica, posta alla base dei processi produttivi della lavorazione della cellulosa.


L'inesperienza nel settore, la forte concorrenza di competitors - molto più strutturati -, aveva indotto i fratelli L. a trovare soci già affermati nel settore, e cosi nel gennaio del 2007 si erano impegnati a vendere il 50% delle azioni a P.A. e P.G., con trasferimento da effettuarsi entro il 30.4.2007, a fronte del pagamento del prezzo di tre milioni di euro. Alla sigla di tale accordo era effettivamente seguito l'immediato pagamento da parte del P.A. di un milione di euro a mezzo di assegno bancario, cui era seguito il 10.1.2007 un bonifico di pari importo del P.; entrambi i pagamenti erano stati effettuati in favore della E. S. s.r.l., socia che deteneva l'intero pacchetto azionario della E.; nel mese di febbraio successivo il P. aveva inoltre intestato alla E. S. altri due "assegni, uno dell'importo di euro 250.000,00 e l'altro di euro 100.000,00 e un quarto assegno datato 30.4.2007 di euro 150.000,00.


Gli accrediti erano avvenuti su due conti correnti intestati alla E. C., quello n. (omissis) acceso presso l'istituto Intesa San Paolo filiale di San Nicola la Strada e quello n. (omissis) presso la banca Cariparma.


Tuttavia il consulente evidenziava che a seguito di tali accrediti, progressivamente la E. S. aveva effettuato, in assenza di una posizione di debito, versamenti in favore della E. s.p.a. dell'importo complessivo di euro 2.162.000,00, attraverso l'accensione di una posta di bilancio denominata "finanziamento soci", versamenti effettuati tramite bonifici bancari susseguitisi tra il 4.1.2007 ed il 10.102007.


Alla relazione del Dr. D.G. sono allegate le movimentazioni bancarie che hanno interessato i conti della E. S. e della E. tra il gennaio ed il dicembre del 2007.


Ebbene alla luce degli esposti elementi, reputa il Collegio che non possa ritenersi integrata la fattispecie in contestazione.


Deve in premessa osservarsi che l'imprenditore è sempre tenuto ad astenersi da condotte tali da esporre a possibile pregiudizio le ragioni dei creditori, non nel senso di dover evitare i comportamenti che abbiano in sé margini di potenziale perdita economica, ma quelli che comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione dell'impresa.


In particolare, pensando al caso che ci occupa, la restituzione dei finanziamenti in precedenza concessi può integrare il reato di bancarotta se effettuata in periodo di dissesto della società.


Tra le plurime forme di finanziamento che l'ordinamento prevede in favore delle società vi è quella proveniente dai soci, che ha visto un sostanziale rinnovamento a seguito della riforma del diritto societario del 2003.


In forza di tale intervento legislativo, invero, i finanziamenti dei soci, che nella "forma" rappresentano un debito per l'impresa, sono nella "sostanza" completamente assimilati a conferimenti. Una delle principali conseguenze di siffatta equiparazione è che, se entro un anno dal momento in cui tale finanziamento è stato rimborsato, dalla società al socio, la società fallisce, tale rimborso è da considerarsi illegittimo e, come tale, dovrà essere restituito alla società.


In un momento di insolvenza della società, infatti, non si avrebbe certo la restituzione dei conferimenti ai soci e, allo stesso modo, non avrebbe dunque effettuata la restituzione del finanziamento ai soci.


Con la dichiarazione di fallimento il socio/creditore da finanziamento della società diventa null'altro che uno dei suoi tanti creditori con i quali concorre sull'attivo, secondo il principio della par condicio creditorum.


La restituzione del credito al socio andrebbe dunque contro l'ordine di soddisfazione dei creditori stabilito dalle norme sul procedimento concorsuale, avvantaggiandone indebitamente alcuni a scapito degli altri.


Con riferimento alla possibile rilevanza penale della condotta, la giurisprudenza è ormai costante nell'affermare che le restituzioni - effettuate in periodo di insolvenza - ai soci, dei finanziamenti concessi alla società, che costituiscono crediti liquidi ed esigibili, possono integrare il delitto di bancarotta preferenziale, giacché non sussistono motivi che giustifichino, in termini di interesse societario, la soddisfazione, prima degli altri creditori, del socio, il quale, a differenza della restante massa creditoria, non ha alcun interesse ad avanzare, in caso di inadempimento, istanza di fallimento verso la società.


La fattispecie di bancarotta preferenziale è disciplinata dal terzo comma dell'art. 216 l. fall. che stabilisce che: "È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione".


L'unica ragione di una siffatta restituzione al socio non può che essere, quindi, il volontario e specifico perseguimento dell'interesse del creditore privilegiato, a danno della restante massa creditoria (in tal senso, anche recentemente, Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 26 gennaio 2015, n. 3553). Da qui il carattere illecito e penalmente rilevante di tale comportamento.


Ben più grave è. però, la situazione del socio creditore che si identifichi con lo stesso amministratore della società, in quanto la condotta di quest'ultimo, volta alla restituzione, in periodo di dissesto, di finanziamenti in precedenza concessi può giungere persino ad integrare l'ipotesi di bancarotta per distrazione (e non quella di bancarotta preferenziale) punita più severamente dall'ordinamento (reclusione da tre a dieci anni).


Al riguardo, il giudice di legittimità ha rilevato che nel caso in cui il creditore si identifichi nello stesso soggetto che assume le vesti di amministratore della società, contestualmente responsabile del depauperamento della decozione e delle risorse della stessa, un atto di disposizione patrimoniale che, in costanza dello stato di insolvenza, sia diretto in suo stesso favore assume significato ben diverso e più grave rispetto alla mera volontà di privilegiare un creditore in posizione paritaria rispetto a tutti gli altri (Cass. pen., sez. V, 6 novembre 2012, n. 42710).


Stante la maggior gravità, tale condotta è qualificabile come fatto distrattivo e non come bancarotta preferenziale.


Il giudice di legittimità ha ulteriormente specificato che, una volta provato che una somma di denaro acquisita da parte della società fallita (e non v'è dubbio che il finanziamento operato dal socio costituisca una ipotesi di acquisizione di beni del tutto fisiologica) non sia più rinvenibile, deve essere proprio l'amministratore a fornire la prova della corretta destinazione della somma stessa: in tale contesto, anche la restituzione di un'anticipazione in un chiaro contesto di dissesto della società ben può costituire condotta rilevante ai fini di un addebito di bancarotta per (omissis).


Questo principio non può che confermare la rilevanza penale delle condotte addebitate al creditore che si identifichi nello stesso soggetto che assume le vesti di amministratore della società, contestualmente responsabile dello stato di insolvenza in cui versa la stessa, il quale, ben consapevole delle difficoltà in cui versa la compagine sociale, fa in modo che le somme entrate nel patrimonio di quest'ultima, grazie ai finanziaménti dei soci, vengano rimborsate piuttosto che rimanere a garanzia delle ragioni della massa dei creditori.


Invero, si ritiene che le medesime considerazioni possano essere svolte con riferimento ai rapporti societari infragruppo.


Peraltro, allo scopo di preservare i creditori delle società controllate, evitando che il rischio imprenditoriale sia trasferito su di loro, l'art. 2497 quinquies c.c. richiama espressamente la disposizione prevista dall'art. 2467 c.c. relativamente ai finanziamenti eseguiti a favore della società da parte di chi esercita attività di direzione coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti.


Ne deriva che, se la ratio delle due disposizioni è la medesima e se la disciplina sul finanziamento dei soci trova nondimeno applicazione nell'ambito dei prestiti infragruppo, allora appare ragionevole concludere che nella ipotesi di rimborso di un finanziamento infragruppo, in un momento di chiara situazione di insolvenza della società "rimborsante", le conseguenze, in punto di rilevanza penale della condotta, non possono che essere le stesse già rappresentate.


Nel caso che ci occupa tuttavia non può ritenersi che con il pagamento degli 810.000 euro con conferimenti mensili da 90.000 euro ciascuno da parte della E. s.p.a. in favore di P.G. - susseguitisi tra il marzo del 2011 ed il marzo del 2012 - si sia verificata una restituzione di finanziamento ai soci, atteso che in realtà a tali erogazioni qualche anno prima erano corrisposte erogazioni tramite bonifici da E. S. s.r.l. alla società fallita effettuati con fondi conferiti alla E. S. da P.G. e P.A. per l'acquisto del 50% del pacchetto azionario della E..


Questi ultimi, in virtù di un contratto preliminare di compravendita di azioni datato 3.1.2007, si erano impegnati a versare ciascuno ai fratelli L. la somma di euro 1.500.000,00 entro il 30.4.2007, data nella quale sarebbe stato stipulato il contratto definitivo di compravendita.


Tuttavia tale cessione non si è mai perfezionata e pertanto i due promittenti acquirenti, essendo rimasti terzi estranei alla compagine sociale, avevano erogato complessivamente in pochi mesi oltre 2.500.000,00 euro senza causa, stante il mancato perfezionamento della compravendita.


Deve allora ritenersi che quelle somme di danaro non siano mai entrate legittimamente a far parte del patrimonio della E., che le ha ricevute nel corso dell'anno 2007 per il tramite della società controllante E. S. s.r.l. senza causa; pertanto quando tra il marzo del 2011 ed il marzo del 2012 la società fallita le ha restituite, in ratei mensili da 90.000 euro direttamente al P.A., in realtà non ha restituito finanziamenti a soci (i fratelli L.) né ha pagato un debito proprio o dei propri soci verso il P.A. ma gli ha semplicemente restituito, per essere rimasto lo stesso estraneo alla compagine sociale per la mancata stipula del contratto definitivo di compravendita di partecipazioni azionarie, somme indebitamente percepite.


Se dunque non si trattava di somme facenti parte del patrimonio sociale non può evidentemente parlarsi di distrazione,


P.Q.M.

Letto l'art. 530 c.p.p., assolve L.P. dal reato ascrittogli in rubrica perché il fatto non sussiste.


Letto l'art. 544 c.p.p,, indica in giorni 60 il termine per il deposito della motivazione.


Caserta, 22.9.2017

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