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Lesioni personali: rientra nella nozione di malattia la crisi ipertensiva


Corte di Cassazione

La massima

In tema di lesioni personali, anche una crisi ipertensiva può rientrare nella nozione di malattia, purché comporti una significativa e pericolosa alterazione delle funzioni organiche (Cassazione penale , sez. V , 03/11/2017 , n. 54005).

Fonte: Ced Cassazione Penale


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La sentenza

Cassazione penale , sez. V , 03/11/2017 , n. 54005

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa il 24/02/2016 la Corte di Appello di Catanzaro ha confermato la sentenza del Gup del Tribunale di Crotone, che aveva condannato M.L. per i reati di tentata violenza privata ai danni di M.F. (capo B), minaccia grave e lesioni personali ai danni di P.R. e M.M. (capi C e D), per avere cercato di costringere il primo a rimettere la querela nei confronti del padre M.S., e per avere minacciato le altre di un danno ingiusto, provocando crisi ipertensive.


2. Avverso tale sentenza ricorre per cassazione M.L., deducendo i seguenti motivi di ricorso.


2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al giudizio di attendibilità delle persone offese: deduce che la Corte non abbia motivato adeguatamente sull'inattendibilità delle persone offese e sulle contraddizioni, e che l'assoluzione dal reato di porto di arma avrebbe dovuto condurre all'assoluzione anche dai reati di minaccia e lesioni, che sarebbero stati commessi con le armi; in ordine alle lesioni, la crisi ipertensiva sarebbe dipesa solo dall'agitazione del momento, senza alcuna compromíssione significativa delle funzioni dell'organismo.


2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 133 c.p.: la valutazione di congruità della pena è priva di motivazione, e non considera lo stato di incensuratezza dell'imputato.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.


1.1. Le censure proposte dal ricorrente con il primo motivo sono inammissibili, risolvendosi in doglianze non consentite dalla legge in sede di legittimità, poichè aventi ad oggetto, in realtà, non già la motivazione, in quanto mancante, contraddittoria o illogica, bensì la valutazione probatoria (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794). Il controllo di legittimità, infatti, concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicchè il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.


Al contrario, le censure proposte concernono la ritenuta erroneità e/o parzialità della valutazione probatoria formulata dal giudice di merito, e prospettano una lettura alternativa del compendio probatorio, sollecitando una non consentita rivalutazione del merito.


Oltre a sollecitare una inammissibile rivalutazione del compendio probatorio, non consentita in sede di legittimità, la doglianza proposta prescinde del tutto dal principio pacifico secondo cui le dichiarazioni della persona offesa - cui non si applicano le regole dettate dall'art. 192 c.p.p., comma 3, - possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone e corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto (ex multis, Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015 27/10/2015, Manzini, Rv. 265104; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Pirajno, Rv. 261730).


Al riguardo, la sentenza impugnata ha congruamente motivato in ordine alla valutazione positiva di attendibilità e credibilità delle persone offese, richiamando non soltanto le dichiarazioni rese dalle stesse, ma altresì il riscontro emerso dai referti medici attestanti la crisi ipertensiva provocata nelle due donne dalla minaccia con la pistola; quanto alla valutazione delle dichiarazioni, inoltre, con apprezzamento di fatto immune da censure di illogicità, e dunque insindacabile in sede di legittimità, la sentenza impugnata le ha ritenute attendibili, reciprocamente riscontrate, e non compromesse da marginali contraddizioni concernenti la precisa ubicazione delle vittime all'interno dell'abitazione nel corso dell'irruzione.


L'assoluzione dai reati di detenzione e porto di arma da fuoco - motivata sulla base del mancato rinvenimento della pistola - non incide sulla prova dei reati di tentata violenza privata, minaccia grave e lesioni personali, atteso che l'affermazione di responsabilità è stata fondata, come già evidenziato, sulle dichiarazioni convergenti delle persone offese e sul riscontro fornito dai certificati medici.


Quanto alla contestazione dell'entità della malattia, premesso che la nozione di "malattia" nella fattispecie di lesioni personali non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì solo quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa (Sez. 5, n. 40428 del 11/06/2009, Lazzarino, Rv. 245378, in una fattispecie relativa a cefalea post-traumatica), la sentenza impugnata, con apprezzamento di fatto insindacabile, ha affermato che la crisi ipertensiva diagnosticata alle due persone offese aveva comportato una significativa e pericolosa alterazione delle funzioni organiche, come desumibile dall'accertata frequenza delle pulsazioni (90 battiti al minuto) e dalla prognosi di recupero (5 giorni).


1.2. Il secondo motivo, concernente il trattamento sanzionatorio ed il diniego delle attenuanti generiche, è manifestamente infondato, in quanto, a prescindere dal rilievo che la pena inflitta è stata determinata in prossimità del minimo edittale (1 anno di reclusione), previo riconoscimento delle attenuanti generiche, di un modesto aumento per la continuazione e della diminuente per il rito prescelto, è pacifico che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (ex multis, Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Ferrario, Rv. 259142).


Peraltro, nel rammentare che, nel caso in cui venga irrogata una pena prossima al minimo edittale, l'obbligo di motivazione del giudice si attenua, talchè è sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. (Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, Taurasi, Rv. 256464), e che, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283), va evidenziato che la Corte territoriale ha motivato, seppur succintamente, la determinazione della pena, con apprezzamento di fatto immune da illogicità, e dunque incensurabile in sede di legittimità, richiamando, quali indici fattuali, la concreta gravità dei fatti accertati e la personalità violenta manifestata dall'imputato, che aveva addirittura puntato la pistola contro le due persone offese, non riuscendo ad esplodere colpi a causa dell'inceppamento dell'arma.


2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 2.000,00: infatti, l'art. 616 c.p.p. non distingue tra le varie cause di inammissibilità, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilità dichiarata ex art. 606 c.p.p., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilità pronunciata ex art. 591 c.p.p..


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.


Motivazione semplificata.


Così deciso in Roma, il 3 novembre 2017.


Depositata in Cancelleria il 30 novembre 2017

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